Incontri Cavouriani

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Cavour, Mazzini e il Risorgimento visti durante l’epoca fascista


di Andrea Serani

Appena sorto, il fascismo dovette fare i conti con gli accadimenti precedenti e in generale con l’ideologia risorgimentale. Il 24 ottobre 1922 Mussolini, al congresso del PNF di Napoli, presentò ai partecipanti l’ultimo garibaldino ancora in vita a dimostrazione, a suo dire, di un filo di continuità tra risorgimento e, appunto, fascismo. Nel1925, precisamente il 21 aprile (natale di Roma) ed il 1° maggio (festa del lavoro), si ebbero rispettivamente la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti (primo firmatario Giovanni Gentile), sul “Il Popolo d’Italia” e su altri quotidiani ed il Manifesto degli intellettuali antifascisti (primo firmatario Benedetto Croce), sui quotidiani “Il Mondo” e “Il Popolo”.

Vediamo adesso i contenuti dei due suddetti Manifesti (così come riportati da Wikisource e da Wikipedia) e come essi si rapportarono con il passato più o meno recente.

“MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI DEL FASCISMO AGLI INTELLETTUALI DI TUTTE LE NAZIONI:

Giovanni Gentile 1925

Il fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre.

Le Origini
Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra, da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo negava apertamente il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico e utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari dei cittadini e un disfrenarsi delle passioni e degl'istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e incosciente spirito di rivolta a ogni legge e disciplina. L'individuo contro lo Stato; espressione tipica dell'aspetto politico della corruttela degli anni insofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i sentimenti e i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell'individuo a un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione.

Il Fascismo e lo Stato
Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal '19 al '22. I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entrarono, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costituzionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, e il fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico sistema di fronte all'attività dei singoli. Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell'ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta concezione individualistica della concezione politica. Ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall'opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl'individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l'indipendenza e l'unità.

Gioventù e squadrismo
Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch'esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del '31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la "Giovane Italia" di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante. E cominciò a essere, come la "Giovane Italia" mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente. Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato. Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l'insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma.

La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l'ammirazione e infine il plauso universale. Onde parve che a un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.

Il governo fascista
Lo squadrismo e l’illegalismo cessavano e si delineavano gli elementi del regime voluto dal Fascismo. Tra il 29 e il 30 ottobre ripartirono da Roma nel massimo ordine le cinquantamila camicie nere che dalle provincie avevano marciato sulla Capitale, partirono, dopo aver sfilato innanzi a S. M. il Re, partirono ad un cenno del loro Duce, divenuto Capo del Governo e anima della nuova Italia auspicata dal Fascismo. La rivoluzione era finita? In un certo senso: lo squadrismo non aveva più‡ ragione d’essere. Fu creata la Milizia volontaria nazionale per inquadrare nelle forze armate dello Stato gli antichi squadristi. Ma lo Stato non €il Governo, ed il Governo attende tuttavia, tra il consenso della grande maggioranza degli italiani, che nel fascismo vedono la forza politica più possente e capace di esprimere dal seno della Nazione e disciplinare tutte le sue forze, alla trasformazione della legislazione, in cui lo Stato deve trovare oggi la forma più adeguata alle correnti sociali e alle esigenze spirituali del popolo italiano. Questa trasformazione ha luogo gradualmente in mezzo ad un perfetto ordine pubblico, sotto un regime finanziario severo che ha ricondotto il bilancio dissestato del dopoguerra al pareggio attraverso il riordinamento dell’Esercito, della magistratura e delle istituzioni scolastiche senza scosse né incertezze, quantunque non siano mancate e non manchino oscillazioni dell’opinione pubblica agitata violentemente da una pubblica stampa che, irrigiditasi in una opposizione tanto più accanita quanto più disperata di ogni possibilità di ritorno al passato, profitta di ogni errore e di ogni incidente per sobillare il popolo contro la tenace e dura opera costruttiva del nuovo Governo. Ma gli stranieri, che sono venuti in Italia, sorpassando quella cerchia di fuoco creata intorno all’Italia fascista dai tiri di interdizione con cui una feroce propaganda cartacea e verbale, interna ed esterna, di italiani e non italiani, ha cercato di isolare l’Italia fascista, calunniandola come un paese caduto in mano all’arbitrio più violento e più cinico, negatore di ogni civile libertà legale e garanzia di giustizia; gli stranieri che hanno potuto vedere coi propri occhi questa Italia, e udire coi propri orecchi i nuovi italiani e vivere la loro vita materiale e morale, hanno cominciato dall’invidiare l’ordine pubblico oggi regnante in Italia, poi si sono interessati allo spirito che si sforza ogni giorno più d’impossessarsi di questa macchina così bene ordinata e han cominciato a sentire che qui batte un cuore pieno di umanità, quantunque scosso da un’esasperante passione patriottica; giacché la Patria del Fascista è pure la Patria che vive e vibra nel petto di ogni uomo civile, quella Patria cui il sentimento dappertutto si è riscosso nella tragedia della guerra e vigila, in ogni paese, e deve vigilare a guardia di interessi sacri, anche dopo la guerra; anzi per effetto della guerra, che nessuno più crede l’ultima.

Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. Ed è scuola di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice. È concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni, impegnando chi le pronuncia e impegnando con lui il mondo stesso di cui egli è parte viva e responsabile in ogni istante del tempo, in ogni segreto respiro della coscienza. Questo ideale è un ideale, ma un ideale per cui si lotta in Italia oggi, con contrasti fierissimi che dimostrano che si fa sul serio e che c’è una fede negli animi. Il Fascismo, come tutti i grandi movimenti individuali, si fa sempre più forte, più capace di attrazione e di assorbimento, più efficiente e ingranato nel congegno degli spiriti, delle idee, degli interessi e delle istituzioni; insomma nella compagine viva del popolo italiano. E allora non è più il caso di contare e misurare i singoli uomini, ma di guardare e valutare l’idea, la quale come ogni idea vera, cioè viva, dotata di una sua potenza, non è fatta dagli uomini ma per gli uomini.

Stato e sindacato
Il Fascismo viene accusato di essere un movimento reazionario, antiliberale e antioperaio, ma l’accusa è falsa. Il Fascismo ha lo spirito di progresso e di propulsione di tutte le forze nazionali. Intende piuttosto a rompere la crosta che il vecchio ordinamento politico aveva creato, attraverso apparenza fallace del vecchio liberalismo democratico, intorno alla effettiva attività individuale del cittadino. Mediante l’atomismo del suffragio universale polverizzatore degli interessi reali, onde ogni individuo portato a sentirsi impegnato nel sistema delle forze economiche, quell’ordinamento dava il popolo in mano ai politicanti di professione, dominati dalla coalizione sempre più‡ potente di interessi particolari e perciò antitetici all’interesse comune della Nazione. Il Fascismo, i cui capi, a cominciare dal supremo, hanno tutti vissuto l’esperienza socialista, intende conciliare due termini finora sembrati irriducibilmente contrari: Stato e Sindacato. Stato, come forza giuridica della Nazione nella sua unità organica e funzionale; Sindacato, come forza giuridica dell’individuo quale attività economica, che nel diritto possa avere la sua garanzia, attività quindi specificata socialmente e appartenente ad una categoria sociale. Stato, come organizzazione di tutte le attività individuali, nel loro ordine organico e concreto. Non regresso, perciò, rispetto allo Stato costituzionale, anzi sviluppo, maggiore determinazione intrinseca e realizzazione del suo principio di effettiva rappresentanza popolare nel potere legislativo. Insomma, al Governo fascista si imputano misure di polizia lesive della libertà di stampa.

Questioni di fatto più che di principio. Tutte le libertà costituzionali negli Stati più liberali, sono state sospese quando particolari ragioni ne abbiano dimostrata la necessità e tutti i teorici e difensori del liberalismo hanno sempre riconosciuto la legittimità di simili sospensioni. Si tratta di vedere quando il Governo ha fatto uso di queste misure di polizia, se è vero o non è vero che certa stampa (di proposito o no, poco importa) facesse correre alla Nazione il rischio dei più gravi turbamenti dell’ordine pubblico, e se perciò il Governo non abbia ben meritato dal Paese e dalla libertà, che quei turbamenti avrebbero compromesso, operando come ha operato. La verità è che la grande massa del popolo italiano lo sente e ne dà prova con la tranquilla indifferenza con cui assiste alle calorose proteste e querimonie delle opposizioni, che chi lavora oggi in Italia, per la libertà della Nazione nel mondo, non è l’antifascismo, ma il Fascismo, il quale faticosamente attende a costruire sopra solide fondamenta l’edificio nel quale possono infatti esplicarsi le libere attività dei cittadini, garantiti da una legge che sia veramente l’espressione della loro reale, organica, concreta volontà. Oggi in Italia gli animi sono schierati in due opposti campi; da una parte i fascisti, dall’altra i loro avversari, democratici di tutte le tinte e tendenze, due mondi che si escludono reciprocamente. Ma la grandissima maggioranza degli italiani rimane estranea e sente che la materia del contrasto, scelto dalle opposizioni, non ha una consistenza politica apprezzabile ed atta ad interessare l’anima popolare. Quanti sono estranei personalmente al contrasto, sanno bene che l’invocata libertà è una parola di significato elasticissimo se può essere in bocca a così diversi partiti.

L’opposizione al Fascismo
In secondo luogo questa piccola opposizione al Fascismo, formata dai detriti del vecchio politicantismo italiano (democratico, reazionalistico, radicale, massonico) è irriducibile e dovrà finire a grado a grado per interno logorio e inazione, restando sempre al margine delle forze politiche effettivamente operanti nella nuova Italia. E ciò perché essa non ha propriamente un principio opposto ma soltanto inferiore al principio del Fascismo, ed è legge storica che non ammette eccezioni che di due principi opposti nessuno vinca, ma trionfi un più alto principio, che sia la sintesi di due diversi elementi vitali a cui l’uno e l’altro separatamente si ispirano; ma di due principi uno inferiore e l’altro superiore, uno parziale e l’altro totale, il primo deve necessariamente soccombere perché esso è contenuto nel secondo, e il motivo della sua opposizione è semplicemente negativo, campato nel vuoto.

Questo sentono i fascisti di fronte ai loro avversari e perciò hanno una fede inconcussa nel trionfo della loro parte e non transigono; e possono ormai con pazienza longanime attendere che le opposizioni, come hanno abbandonato il terreno legale della lotta in Parlamento, finiscano col persuadersi della necessità ineluttabile di abbandonare anche quello illegale, per riconoscere che il residuo di vita e di verità dei loro programmi è compreso nel programma fascista, ma in una forma balda, più complessa, più rispondente alla realtà storica e ai bisogni dello spirito umano.

Allora la presente crisi spirituale italiana verrà superata. Allora nel seno stesso dell’Italia fascista e fascistizzata matureranno lentamente e potranno infine venire alla luce nuove idee, nuovi programmi, nuovi partiti politici.

Gli intellettuali italiani aderenti al Fascismo convenuti a Bologna per la prima volta a congresso (29-30 marzo) hanno voluto formulare questi concetti e ne vogliono rendere testimonianza a quanti, in Italia e fuori d’Italia, desiderino rendersi conto della dottrina e dell’azione del P.N.F.”

Sottoscrissero questo appello circa 250 intellettuali fra cui Gabriele D’Annunzio, Guido da Verona, Filippo Tommaso Marinetti, Ferdinando Martini, Alfredo Panzini, Luigi Pirandello, Ugo Spirito, Curzio Suckert (Curzio Malaparte), Giuseppe Ungaretti, Gioacchino Volpe.

Venuto ad apprendere i contenuti del Manifesto di Gentile, il deputato aventiniano Giovanni Amendola scriveva all’amico Benedetto Croce invitandolo ad essere il primo firmatario di un documento di risposta. Bisogna dire che Croce era stato per lungo tempo, come filosofo idealista, amico di Gentile, insieme al quale aveva condotto numerose battaglie contro il positivismo. Anche Croce aveva votato a favore di quel governo di cui Gentile faceva parte, ossia del governo Mussolini, appoggiando poi la riforma scolastica attuata nel 1923. Croce, come senatore, aveva votato ancora la fiducia a Mussolini all’indomani del delitto Matteotti, sperando nei buoni propositi ufficialmente manifestati dal capo del fascismo duce; piano piano, però, si stava allontanando fino a distaccarsi definitivamente sul finire del 1924, dal filofascismo iniziale, rompendo anche sul piano personale pure col vecchio amico Gentile, cui rimproverava la convinta adesione al fascismo. Pertanto nella primavera del 1925 era passato su posizioni di antifascismo liberale e si era avvicinato molto ad Amendola, antifascista della prima ora.

La lettera di Amendola fu molto gradita dal filosofo napoletano che si mise a stendere un manifesto di risposta che trovò poi molte adesioni nel mondo intellettuale.

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI

“Gl'intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl'intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista.

Nell'accingersi a tanta impresa, quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile famoso manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagl'intellettuali tedeschi; un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore.

E, veramente, gl'intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell'arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l'iscriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l'opera dell'indagine e della critica e le creazioni dell'arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale affinché con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie.

Varcare questi limiti dell'ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso.

E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplende di molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni.

Nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini; come dove si prende in scambio l'atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono, cioè l'antistorico e astratto e matematico democraticismo, con la concezione sommamente storica della libera gara e dell'avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l'opposizione, si attua quasi graduandolo, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl'individui al tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale; o, ancora, dove si perfidia nel pericoloso indiscernimento tra istituti economici, quali sono i sindacati, ed istituti etici, quali sono le assemblee legislative, e si vagheggia l'unione o piuttosto la commistione dei due ordini, che riuscirebbe alla reciproca corruttela, o quanto meno, al reciproco impedirsi.

E lasciamo da parte le ormai note e arbitrarie interpretazioni e manipolazioni storiche. Ma il maltrattamento delle dottrine e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell'abuso che si fa della parola "religione"; perché, a senso dei signori intellettuali fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte la quale, le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l'odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani.

Chiamare contrasto di religione l'odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere di italiani e li ingiuria stranieri, e in quell'atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l'animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto persino ai giovani delle università l'antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili; è cosa che suona, a dir vero, come un'assai lugubre facezia.

In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo.

E se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantarsi di un'originale impronta, tale da dare indizio di nuovo sistema politico che si denomini dal fascismo.

Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento.

Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l'Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda la loro bandiera.

La nostra fede non è un'escogitazione artificiosa ed astratta o un invasamento di cervello cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale o morale.

Ripetono gli intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trita frase che il Risorgimento d'Italia fu l'opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d'Italia innanzi ai contrasti fra il fascismo e i suoi oppositori.

I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero di italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale.

Perfino il favore col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascista, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici.

Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell'inerzia e nell'indifferenza il grosso della nazione, appoggiandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governi assolutistici o quetistici.

Anche oggi, né quell'asserita indifferenza e inerzia, né gl'inadempimenti che si frappongono alla libertà, c'inducono a disperare o a rassegnarci.

Quel che importa è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d'intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragioni di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto.

E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva percorrere per ringiovanire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.

Benedetto Croce

Il suddetto documento venne firmato tra gli altri da Giovanni Ansaldo, Giovanni Amendola, Sem Benelli, Guido de Ruggiero, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, Rodolfo Mondolfo, Francesco Ruffini, Luigi Salvatorelli, Matilde Serao. Successivamente furono pubblicati altri due consistenti elenchi di firmatari fra cui si ricordano Luigi Albertini, Sibilla Aleramo, Gaetano Da Sanctis, Arturo Labriola, Gaetano Mosca, Giuseppe Rensi, Gaetano Salvemini.

Se cominciamo ad esaminare il rapporto di questi manifesti con il Risorgimento si osserva subito che nel documento fascista all’inizio c’è un esplicito richiamo a Giuseppe Mazzini e alla Giovine Italia, e viene fatto un paragone con le squadre fasciste, le quali avevano come inno “Giovinezza”.

Inoltre lo scritto gentiliano mette in luce il carattere religioso e come tale intransigente del fascismo e ciò appare come un richiamo a Mazzini stesso. Patria, fede, sacrificio, ideale e altri simili espressioni si ripetono con insistenza e tracciano un collegamento con i valori della filosofia mazziniana.

Lo stato liberale prefascista, che viene definito da Gentile in modo sprezzante agnostico e abdicatorio, era lo stato di Giolitti, il quale, secondo il mio punto di vista, politicamente è da considerarsi il migliore erede di Cavour.

Nel manifesto vi è anche una difesa della sospensione delle varie attività costituzionali (in particolare della libertà di stampa), cosa in forte contrasto con lo spirito del Risorgimento, nonché la previsione che l’opposizione al fascismo, prima o poi, sarebbe dovuta cessare essendo diventata inutile.

Veniamo ora al manifesto di Croce. Più corto e concreto del precedente, non fa alcun richiamo preciso a qualche personaggio del Risorgimento, forse anche perché i firmatari del documento erano uomini di idee politiche diverse, sebbene uniti dalla comune opposizione al fascismo.

C’è un richiamo ai vecchi valori messi in gravissimo pericolo dal regime dominante. Inoltre i firmatari esaltano in toto il Risorgimento che viene contrapposto con decisione alle idee dei loro avversari politici, le quali sono giudicate stravolgitrici di esso. Riconoscono che, come sostengono gli intellettuali fascisti, il Risorgimento fu opera di una minoranza di Italiani; tuttavia asseriscono che i governi postrisorgimentali allargarono via via le basi su cui si era costituita l’unità italiana arrivando infine all’istituzione del suffragio universale.

Effettivamente, fra tutti i protagonisti del Risorgimento, Mazzini fu quello maggiormente esaltato dal fascismo sin dal suo inizio, durante il ventennio e infine durante la repubblica sociale.

Mussolini, negli ultimi anni della sua vita, si vantò addirittura di essere stato uno dei pochi italiani ad aver letto l’Opera Omnia mazziniana.

In sostanza, dei quattro padri della patria, il genovese fu quello maggiormente citato dal regime, i libri, articoli, discorsi, fino al punto di essere considerato uno dei precursori del fascismo (questo lo abbiamo già visto nel manifesto Gentile). Ad esempio si cercò di conciliare l’interclassismo mazziniano con il regime corporativo. Quanto al cosiddetto fascismo di sinistra, che aveva tra l’altro un suo esponente nel giovane Berto Ricci, esso esaltò il risorgimento popolare vedendolo incarnato in Mazzini e Garibaldi; esso era contrapposto alla versione monarchico-fascista, tesa ad esaltare l’importanza della monarchia sabauda (con la quale si era poi fuso il fascismo nella costruzione dello stato unitario). Il maggiore esponente di questa visione (che trovò seguito nei libri di scuola) era Cesare Maria De Vecchi, quadrumviro della Marcia su Roma.

Tuttavia Mazzini fu preso in considerazione anche da personaggi antifascisti, come Carlo Rosselli, fondatore in esilio del movimento Giustizia e Libertà, secondo cui il Risorgimento era stata una rivoluzione fallita; al risorgimento monarchico bisognava contrapporre quello popolare di Mazzini e Garibaldi.

Una posizione a parte è quella di Palmiro Togliatti. Inizialmente, in polemica con Giustizia e Libertà, aveva rinnegato tutto il Risorgimento e in particolare Mazzini, definito precursore del fascismo; tuttavia, durante la seconda guerra mondiale e nel dopoguerra, il genovese fu riabilitato nell’intento di dare al PCI un carattere nazionale.

E Cavour? Indubbiamente tra i protagonisti principali del Risorgimento fu quello maggiormente ignorato dal fascismo in quanto tutta la sua azione di difesa e di allargamento delle libertà concesse dallo Statuto albertino apparivano in netto contrasto con una politica dittatoriale.

Basti, a titolo di esempio, questa sua lettera scritta ad Anastasie De Circourt il 29 dicembre 1860 e pubblicata in Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, Bur, Milano, 2010 (pag. 395).

“(…) Da parte mia non ho alcuna fiducia nelle dittature e soprattutto nelle dittature civili. Credo che con un Parlamento si possono fare molte cose, che sarebbero impossibili ad un potere assoluto. Una esperienza di tredici anni mi ha convinto che un ministero onesto ed energico, che non ha nulla da temere dalle rivelazioni della tribuna e che non è dell’umore di farsi intimidire dalla violenza dei partiti, ha tutto da guadagnare dalle lotte parlamentari. Non mi sono mai sentito così debole come quando le camere sono chiuse. Del resto non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita. Sono figlio della libertà, è a lei che devo tutto quello che sono. Se occorresse mettere un velo sulla sua statua, non spetterebbe a me farlo. Se si giungesse a convincere gli italiani che hanno bisogno di un dittatore, sceglierebbero Garibaldi e non me. E avrebbero ragione. (…)”

In questa lettera vi è l’esaltazione del regime parlamentare che Mussolini più volte, nei suoi discorsi, oltraggiò, a cominciare dalla prima presentazione del suo governo alla camera dei deputati. Tuttavia il regime non poteva, dati i richiami continui ai valori del Risorgimento, ignorare completamente Cavour.

Durante il ventennio Alfredo Panzini, uno dei firmatari del manifesto Gentile, pubblicò una biografia di Cavour, oggi dimenticata; riguardo alla poca considerazione ricevuta dallo statista piemontese rispetto a Garibaldi, si giustificò dicendo che gli statisti sono sempre più ignorati degli uomini di azione.

Nel campo dell’antifascismo moderato Benedetto Croce, che era rimasto in Italia e ricopriva ancora la carica di senatore, scrisse la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (pubblicata nel 1928) e la Storia d’Europa del secolo decimonono (pubblicata nel 1932), opere entrambe in difesa delle libertà calpestate dal fascismo.

Un importante lavoro sullo statista piemontese, pubblicato nel 1942, fu “L’opera politica del Conte di Cavour, 1848-1857”, scritta da Adolfo Omodeo, storico idealista vicino a Croce.

Essendo stato imposto nel 1931 il giuramento dei professori universitari al fascismo, Omodeo, su consiglio di Croce, come molti altri docenti antifascisti (uno su tutti: Luigi Einaudi), giurò affinché l’università italiana non finisse tutta in mano ad elementi fascisti. Fu in seguito esponente del partito d’azione e ministro dell’educazione nazionale nel secondo governo Badoglio. Non poté continuare la sua opera su Cavour per la morte prematura avvenuta nel 1946.

Infine, si ritiene opportuno fare un richiamo ad un testo scritto da Roberto Vivarelli in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia e pubblicato nel 2013dal Mulino con il titolo di “Italia 1861”. Vivarelli, già docente della Scuola Normale Superiore di Pisa, è stato uno storico del fascismo scomparso nel 2014.

La tesi di Vivarelli è la seguente: nel Risorgimento convissero due idee di nazione: una romantica, rappresentata da Mazzini, ed una liberale, rappresentata da Cavour

“(…) Da un lato una realtà ideale, che vedeva nella nazione una comunità di credenti, uniti dalla religione della patria; dall’altro una realtà concreta, che vedeva nella nazione una comunità di persone libere, unite dal rispetto reciproco. (…) A sua volta – il punto è importante- queste due diverse idee di nazione, una comunità di credenti ed una comunità di cittadini, implicavano due diverse idee di stato: da un lato uno stato etico, che in quanto titolare di fini propri tendeva necessariamente ad essere autoritario; dall’altro uno stato liberale (…), cioè uno stato che si proponeva di formare dei liberi cittadini e alla loro volontà affidare le proprie sorti. In altre parole si proponeva di fare dell’Italia una democrazia. (…) (pag. 27/28).”

Più oltre (pag.80), Vivarelli pronuncia una frase destinata a far discutere: “(…) Limitiamoci a ricordare che l’avvento del fascismo corrispose effettivamente all’affermazione dell’idea di nazione come comunità di credenti (…).” Insomma, per Vivarelli, il fascismo, tra Mazzini e Cavour, scelse decisamente il primo.

Santena, 12 ottobre 2022