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Roma capitale. Il sogno di Camillo Cavour.


di Paolo Brancatelli

L’impero romano fu uno dei più estesi, duraturi e potenti al mondo, ma decaduto ci vollero anni prima che Roma assumesse il ruolo di capitale d’Italia. Desiderio già espresso da Cavour in tempi non sospetti, in un meraviglioso discorso davanti al parlamento italiano nel 1861 e visibile ancor oggi interamente su una parete della stazione Tiburtina.

Indubbiamente Roma è sempre stata una delle città più belle d’Italia, se non la più bella. Come ben sappiamo il problema principale che impediva la realizzazione del desiderio di Cavour era il papa, lo Stato Vaticano, e la sua influenza non solo religiosa e spirituale, ma temporale. Era necessario rompere il principio secondo il quale al pontefice spettavano decisioni sia in campo ecclesiastico sia in ambito politico. Nelle parole di Cavour, bisognava portare avanti la «libertà assoluta della Chiesa», fondamentale per riuscire a costruire una «libera Chiesa in (un) libero Stato».

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Il conte di Cavour, l’11 ottobre 1860, disse nella Camera dei deputati: «Io credo che la soluzione della questione Romana debba essere prodotta dalla convinzione che andrà sempre più crescendo nella società moderna, ed anche nella grande società cattolica, essere la libertà altamente favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso. Io porto ferma opinione che questa verità trionferà fra poco».

Il 17 marzo 1861 avvenne con un atto normativo la proclamazione del Regno di Sardegna sabaudo col quale Vittorio Emanuele II assunse per sé e i suoi discendenti il titolo di Re d’Italia.

Cavour espone il suo punto di vista sulla questione di Roma capitale in più occasioni, nel corso del primo e più famoso dei tre discorsi per Roma capitale, tenuto alla Camera il 25 marzo 1861 (gli altri due furono pronunciati rispettivamente alla Camera il 27 marzo e al Senato il 5 aprile). Nel primo discorso era intervenuto dopo il deputato Audinot che aveva affermato senza riserva: «Roma dev'essere la capitale d'Italia». Cavour pur sostenendolo, precisa che non vi poteva essere soluzione della questione romana, se prima questa necessità non fosse stata accettata dall'opinione pubblica italiana ed europea e che non si poteva concepire l'Italia costituita in unità in modo stabile senza che Roma fosse la sua capitale.

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Cavour condivide le istanze di molti italiani che vedevano nell'unione di Roma al Regno d'Italia il completamento del sogno risorgimentale. Ricorda anche che l'Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per sciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari opponevano al progetto unitario. Proprio per questo ritiene che finché la questione della capitale non sarà definita vi sarà sempre motivo di divisioni e di discordie fra le varie parti d'Italia. «Nella città di Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d'oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè destinata ad essere la capitale di un grande Stato». Con un richiamo «al cospetto dell’Europa» che già riecheggiava in quegli anni nei quali la città Eterna non era neppure parte del neonato stato unitario d’Italia. Profondamente convinto di questa asserzione Cavour proclama più volte in Parlamento la necessità che Roma sia quanto prima capitale d'Italia, affinché cessi ogni discussione e dissidio in proposito.

Questa scelta non è priva di dolore per Cavour che è consapevole che la sua città natale dovrà rinunciare definitivamente ad ogni speranza di conservare la sede del governo. Egli nel suo discorso aggiunge: «per quanto personalmente mi concerne è con dolore che io vado a Roma», ma è con fiducia, che pensa che sarà più efficace un trasferimento della capitale per rafforzare il nuovo Stato. Non tutti erano però della stessa opinione: D’Azeglio per esempio non credeva nel dogma di Roma capitale, giudicando che sarebbe stato preferibile lasciarla al Papa; un'opinione non condivisa e contestata da Cavour, il quale nei suoi discorsi ritiene il trasferimento della capitale una scelta ineluttabile, una necessità, una verità evidente per sé stessa, e che gode del consenso degli italiani.

Il 27 marzo 1861, 162 anni fa, il conte Camillo Benso di Cavour, spiegava nella prima capitale del Regno d'Italia, perché la capitale doveva essere spostata a Roma. E nel suo discorso pronunciò quella frase che sarebbe rimasta a spiegare, da allora in poi, i rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica: "Libera Chiesa in libero Stato".

Roma dev'essere capitale d'Italia, non solo per la sua storia, ma anche perché se Roma non fosse "riunita all'Italia come sua capitale, l'Italia non potrebbe avere un assetto definitivo, la pace non si potrebbe considerare come definitivamente assicurata, non si otterrebbe il consenso del mondo cattolico, e di quella potenza che crede dovere o potere rappresentare più specialmente il mondo cattolico, alla riunione di Roma all'Italia’’ dice Cavour.

L'appello di Cavour a Pio IX: «Santo Padre, il potere temporale per voi non è più problema di indipendenza. Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche…; noi siamo pronti a proclamare per l'Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato»

Il 27 marzo 1861, dopo il discorso di Cavour, la Camera proclama Roma capitale d'Italia: in realtà, lo diventò dieci anni dopo, nel 1871, quando i Savoia vi si trasferirono con l'intera corte. Ma prima di approdare alla Città Eterna, l'Italia unitaria ebbe, tra rivolte e invidie, altre due capitali: Torino e Firenze.

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Nonostante l'orgoglio dei suoi abitanti, tutti sapevano che Torino non sarebbe stata capitale per sempre. l'Italia unita era nata a Torino, ma Roma doveva esserne la capitale. In seguito alla convenzione di settembre del 1864 con Napoleone III, il governo italiano presieduto da Marco Minghetti decise il trasferimento della capitale del Regno d'Italia da Torino a un'altra città situata in posizione più centrale e protetta nella penisola, prendendo anche atto del profilarsi della terza guerra d'indipendenza contro l'Impero austriaco (scoppiata poi nel 1866) e in attesa che Roma, all'epoca capitale dello Stato della Chiesa, potesse essere unita all'Italia. Dopo aver vagliato l'ipotesi di trasferire la capitale italiana a Napoli, alla fine venne scelta Firenze.

Scoppiarono tumulti, alla notizia del trasferimento della capitale a Torino il 21 e 22 settembre 1864, poi ripetutisi il 30 gennaio 1865 in occasione di una festa a Palazzo Reale di Torino, che furono repressi con la forza ad altissimo prezzo: il bilancio fu di 52 morti e 187 feriti. Il re osservò direttamente dalle finestre di Palazzo Reale i suoi ospiti fischiati e ingiuriati da centinaia di manifestanti. Il re convocò il Consiglio dei ministri per il 2 febbraio e, deluso dalla mancanza di una chiara condanna degli ennesimi tumulti da parte del municipio di Torino, decise di partire alla volta di Firenze il giorno successivo per eliminare ogni dubbio sulla possibilità di tornare sulle decisioni già prese in merito.

La Gazzetta Ufficiale del 3 febbraio 1865 così comunicò il viaggio del re: “Questa mattina alle ore otto, S.M. il Re è partito da Torino per Firenze, accompagnato da S.E. il Presidente del Consiglio dei Ministri, Generale Alfonso La Marmora”. Vittorio Emanuele II, percorrendo in treno la ferrovia per Piacenza e Bologna, valicati gli Appennini per la via Porrettana da poco inaugurata, giunse a Firenze alle 22.30 circa. La stazione era sfarzosamente addobbata e illuminata: le autorità cittadine lo stavano attendendo. Le cronache narrano di un clima particolarmente festoso. Le carrozze del corteo percorsero le vie del centro fino a Palazzo Pitti, fra due ali di folla festante; le torce illuminavano a giorno l'intero percorso.

Il re scelse come residenza privata Palazzo Pitti, precisamente il lato della Meridiana, che consentiva libertà di movimento e anche riservatezza durante le uscite e le entrate dall'edificio. Dal balcone salutò più volte la folla che inneggiava. Firenze ospitò la capitale per sei anni, Palazzo Vecchio accolse la Camera dei Deputati (nel salone dei Cinquecento) e il Ministero degli esteri; gli Uffizi il Senato del Regno; Palazzo Medici Riccardi la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell'interno.

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Mentre il Regno d'Italia armonizzava la legislazione e uniformava la macchina amministrativa con quella dei territori annessi, nei primi mesi del 1865 avvenne un esodo che aggiunse 30.000 nuove unità ai 118.000 residenti di Firenze.

Dopo le elezioni del 22 ottobre, il 18 novembre del 1865 il nuovo Parlamento si insediò nel salone dei Cinquecento, dando il via alla IX legislatura del Regno d'Italia.

A presiedere la Camera dei deputati fu chiamato l'avvocato Adriano Mari, deputato eletto a Campi Bisenzio, molto stimato per equilibrio e rigore.

Lo spostamento della capitale dette il via al cosiddetto risanamento di Firenze. La città cambiò volto, adeguandosi al nuovo ruolo, attraverso l'opera urbanistica di Giuseppe Poggi: furono abbattute le antiche mura di Firenze e al loro posto, sul modello di Parigi, si realizzarono i viali di circonvallazione, culminanti nel piazzale Michelangelo.

La prima rilevante manifestazione pubblica di importanza nazionale nella stagione di Firenze Capitale fu rappresentata dall'inaugurazione del monumento a Dante Alighieri nel seicentesimo anniversario della sua nascita, realizzato dallo scultore ravennate Enrico Pazzi per Piazza Santa Croce. La cerimonia si svolse il 14 maggio del 1865 alla presenza del re Vittorio Emanuele II, preceduta da un folto corteo partito da Piazza Santo Spirito, con la partecipazione dei Gonfaloni delle principali città italiane tra cui Roma, Torino e Venezia, con bande musicali, delegazioni istituzionali, accademie, università, sodalizi culturali testimonianti la presenza di tutta Italia. (fonte Wikipedia)

Il sogno di Cavour sta per avverarsi

Era già stato prefissato che Roma sarebbe diventata capitale d’Italia: aveva tutte le caratteristiche ed era voluta dal popolo, si doveva solo aspettare il momento adatto. Nel 1864 la capitale era stata trasferita da Torino a Firenze per motivi geografici e strategici. Lo Stato della Chiesa rivendicava la sua indipendenza, l’alleanza tra il papa Pio IX e Napoleone III rendeva la situazione complicata. Perciò un’ipotetica invasione dello Stato della Chiesa avrebbe comportato l’intervento della Francia, che rappresentava un avversario forte e temibile, nel frattempo continuavano le guerre per l’indipendenza dei territori italiani, che non erano ancora inclusi nel Regno d’Italia.

Dopo Mentana (teatro dello scontro tra garibaldini e i pontifici/francesi in difesa di Pio IX), c'era stato uno stallo nei rapporti tra Italia e Francia sulla questione romana, i francesi erano assoluti sostenitori della chiesa, a difesa del papa e Napoleone aveva istituito un presidio permanente su Roma. Poi, tra il 1868 e il 1869 erano avvenuti numerosi contatti diplomatici tra Italia, Austria e Francia, con l'obiettivo di stipulare un'alleanza in funzione antiprussiana, iniziativa a cui aveva dato impulso il capo del governo austriaco Federico von Beust, timoroso della crescente egemonia di Berlino sugli Stati tedeschi, e disponibile per raggiungere tale accordo anche a cedere il Trentino. Ma queste trattative non avevano prodotto risultati perché in esse l'Italia aveva posto la questione di Roma, scontrandosi con l'intransigenza della Francia.

Nel 1870 Napoleone III venne sconfitto definitivamente nella Guerra franco-prussiana e questo provocò la caduta del Secondo Impero francese, con l’indebolimento di questo prezioso alleato dello Stato Pontificio.

La preparazione diplomatica

Il 29 agosto 1870 il ministro degli affari esteri, il marchese Emilio Visconti Venosta, inviò al ministro del Re a Parigi una lettera con cui espose i punti di vista del governo italiano da rappresentare al governo francese. Visconti Venosta rileva come le condizioni che hanno a suo tempo portato alla “Convenzione di settembre” del 1864 tra Italia e Francia (che prevedeva il ritiro delle truppe francesi che presidiavano Roma per proteggere il papa in cambio dell'impegno dell'Italia a non invadere lo Stato pontificio e a trasferire la capitale da Torino a Firenze) siano completamente cadute.

“Firenze, 29 agosto 1870.

…. L'obiettivo che il Governo imperiale ha perseguito, cioè di facilitare una conciliazione tra il Santo Padre, i Romani e l'Italia, conformemente ai punti di vista espressi dall'Imperatore nella sua lettera a M. de Thouvenel del 26 maggio 1862, è stato non solo mancato, ma è addirittura completamente fallito a causa di circostanze sulle quali è inutile insistere…»

Lo stesso giorno Visconti Venosta diramò a tutti i rappresentanti di Sua Maestà all'estero una lettera circolare con la quale si esponevano alle potenze europee le garanzie che venivano offerte al Pontefice a tutela della sua libertà; contemporaneamente si sottolineava l'urgenza di risolvere un problema che, secondo l'opinione del governo italiano, non poteva essere rimandato. Il 7 settembre inviò un'altra lettera in cui le intenzioni del governo vengono nuovamente esplicitate e le motivazioni rafforzate. L'8 settembre il ministro del Re a Monaco, il genovese Giovanni Antonio Migliorati, risponde a Visconti Venosta esponendo i risultati del colloquio con il conte di Bray: «Il Ministro degli Affari Esteri mi disse che le basi che porrebbe l'Italia alla Santa Sede [...] gli sembrerebbero tali da dover essere accettate da Roma...».

Simili considerazioni arrivano da Berna spedite da Luigi Melegari, Ministro d’Italia a Berna. Anche i rappresentanti a Vienna, a Karlsruhe, presso il governo del Baden e a Londra esprimono opinioni simili. L'unico governo che esita in qualche modo a prendere posizione è quello di Bismarck che si trova a Parigi assieme al suo re, che in questi giorni sta per essere incoronato imperatore. Solo il 20 settembre da Berlino esprime una posizione di stretta non ingerenza. Jules Favre ministro del nuovo governo francese invia il 10 settembre all'incaricato di Francia a Roma un'indicazione in cui afferma che il governo francese «ne peut approuver ni reconnaître le pouvoir temporel du Saint-Siège» («non può approvare né riconoscere il potere temporale della Santa Sede»).

Il 20 agosto il Cardinale Segretario di Stato Antonelli a sua volta aveva inviato una richiesta ai governi stranieri affinché si opponessero «alle violenze minacciate dal governo sardo». La maggior parte dei governi si limitò a non rispondere, altri invece espressero l'opinione che la cosa non li riguardava.

20 Settembre 1870

L'apertura della breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870, è un episodio chiave del Risorgimento: sancì infatti l'annessione di Roma al Regno d'Italia e la fine dello Stato pontificio.

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Fu un'azione di guerra molto veloce e poco pericolosa, data la scarsa resistenza opposta dai soldati del pontefice: vista l'inutilità di uno scontro armato, il papa ordinò alle truppe pontificie un'opposizione solo formale, allo scopo precipuo di evitare spargimenti di sangue e di rendere comunque evidente la violenza subìta, con il proposito «di aprire trattative per la resa ai primi colpi di cannone».

Il cannoneggiamento delle mura iniziò alle 5e20 di mattina del 20 settembre. Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse comandato di aprire il fuoco sulla città. La minaccia non sarebbe comunque stata un valido deterrente per l'attacco. Giacomo Segre, (Saluzzo, 1839 – Chieri, 1894) comandante della 5ª batteria del IX° Reggimento, che, essendo ebreo, non sarebbe incorso in alcuna scomunica, sferrò il primo colpo d'artiglieria che, andando a buon fine, permise la breccia di porta Pia senza problemi ai cinquantamila soldati al seguito. (L’esercito papalino contava appena 15mila uomini).

Le perdite furono per il Regno d’Italia 49 morti e 143 feriti; per lo Stato Pontificio 19 morti e 68 feriti, questo fu il prezzo umano per l’annessione della Città Eterna all’Italia.

La data della presa di Roma, uno degli ultimi capitoli del Risorgimento, venne celebrata rinominando in molte città italiane una via centrale in via XX Settembre, rigorosamente scritta in numeri romani; fu anche proclamata festa nazionale, prima di essere abolita nel 1929 dai Patti Lateranensi stipulati tra l’Italia fascista e la Santa Sede.

Tra i tanti motivi, che portarono alla scelta della Breccia (il 20 settembre 1870), nel tratto delle mura Aureliane, proprio vicino la Porta Pia, certamente uno si ricollega a Cavour. Camillo Benso conte di Cavour nasceva a Torino nel 1810 e deve il proprio nome al padrino che lo battezzò, il Principe Camillo Borghese, Governatore del Piemonte per Napoleone, marito di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, proprietario della splendida Villa Bonaparte Borghese, situata nei pressi dove fu aperta la Breccia.

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Intanto a Santena…

Il giorno dopo la fatidica data, mentre ci si preparava alla vendemmia, a Santena, come in Italia e in Europa, l’aria si tagliava col coltello. Giuseppina Benso, nipote di Camillo Cavour e moglie di Carlo Alfieri di Sostegno, era in evidente difficoltà nei confronti del Parroco e dei parrocchiani. Lei, così pia, si trovava nell’occhio del ciclone. I Bersaglieri, braccio armato dell’anticlericalismo, avevano cannoneggiato le sacre mura di Roma. Il Papa, infallibile, era arrabbiato. Faceva i bagagli per ritirarsi da prigioniero tra le mura Vaticane e schierava la Chiesa contro il giovane e fragile Stato italiano, nato solo nove anni prima. Chi era ancora più in difficoltà era il Ministro degli Esteri in carica, Emilio Visconti Venosta, marito di Luisa Alfieri di Sostegno, figlia primogenita di Giuseppina. Doveva gestire la nuova patata bollente lasciata in eredità dal Prozio. Il sogno di Roma capitale si realizzava, creando dissidi gravidi di funeste conseguenze. Ai fedeli, il Papa proibì di partecipare alla vita politica. Fu un grave errore sottrarre dalla scena politica per anni cruciali la parte più fedele al Papa. Non a caso l’infallibilità papale e la libertà religiosa si infransero brutalmente sotto i colpi dei Patti del Laterano e del fascismo. Solo con il Concilio Vaticano II, cento anni dopo la Presa di Porta Pia, la Chiesa nuovamente universale avrebbe rimesso ordine nel libero rapporto con lo Stato Italiano.

(Gino Anchisi, 23 giugno 2019 - Rossosantena)

Sulle ragioni per cui il Papa Pio IX non esercitò un’estrema resistenza sono state fatte varie ipotesi; la più accreditata è l’ipotesi della rassegnata volontà da parte della Santa Sede di mettere da parte ogni eventualità di una violenta risposta militare all’offesa. E’ noto che l’allora Segretario di Stato, il cardinale Giacomo Antonelli, abbia dato l’ordine al generale Kanzler di ritirare le truppe entro le mura e di limitarsi ad un

puro atto di resistenza simbolico.

Pio IX condannò aspramente gli atti conseguenti alla «Breccia di Porta Pia», con cui la Curia Romana vide sottrarsi il secolare dominio su Roma, si ritirò in Vaticano, dichiarandosi «prigioniero» politico fino alla morte. Questa situazione, indicata come Questione romana, perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929, sottoscritti in accordo col governo fascista

Il governo del Regno aveva «nei memorandum diramati all’estero», alle Nazioni Europee, proclamato il diritto dei romani di scegliersi il governo che desideravano, così come era stato fatto per le altre provincie italiane, anche a Roma fu quindi indetto un referendum, per sancire l’avvenuta riunificazione della città con il Regno d’Italia. La domanda posta fu: «Vogliamo la nostra unione al Regno d’Italia, sotto il governo del Re Vittorio II e dei suoi successori».

Il plebiscito si svolse il 2 ottobre 1870. I risultati videro ufficialmente la vittoria dei si, 40.785 a fronte dei 46 no. Il risultato complessivo della Provincia di Roma fu di 77.520 si, contro 857 no. In tutto il territorio annesso i risultati furono 133.681 si, contro 1.507 no.

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La capitale trasferita da Firenze a Roma

Il 4 febbraio a Firenze, Il Senato e la Camera dei Deputati approva il disegno di legge che sanziona Roma capitale del Regno.

Il 9 febbraio 1871, Roma proclamata capitale d’Italia.

Il sogno di Cavour è diventato realtà

L’insediamento ufficiale di Vittorio Emanuele II a Roma avviene il 2 luglio del 1871, lo stesso giorno in cui il ministro degli esteri Emilio Visconti-Venosta annuncia a tutto il mondo che Roma è la nuova capitale del Regno d’Italia.

Lungo il tragitto che lo porta al Quirinale, il Sovrano di Casa Savoia è accolto da un festoso lancio di fiori da parte dei romani accorsi per l’occasione. Entrato nel palazzo del Quirinale il re si affaccia più volte dal balcone per ricevere il saluto dei suoi sudditi e il giorno seguente una grande festa viene organizzata in Campidoglio in suo onore.

Il desiderio, il sogno e l’aspirazione di porre Roma, Città Eterna da oltre 26 secoli, a capitale del nuovo regno d’Italia, era già stato esplicitato in forma determinata da Cavour, nello storico discorso al Parlamento italiano l’11 ottobre 1860, a Torino.

Il disegno risorgimentale di Cavour: Roma Capitale del nuovo Regno d’Italia, il 3 febbraio 1871 si è infine avverato, ma la sua improvvisa e prematura morte, purtroppo non gli ha permesso di assistere alla realizzazione del suo ambizioso desiderio.

Dopo il 1871, bisognava creare anche una città che potesse svolgere le funzioni di una importante capitale: Roma era sprovvista sia di edifici che potessero accogliere adeguatamente i ministeri e gli apparati burocratici, sia di persone che potessero essere impiegate in quei ministeri e in quegli apparati. Perciò nel giro di due decenni, tra il 1870 e il 1890, a Roma furono costruiti interi quartieri e ci fu un’intensa immigrazione da tutte le parti d’Italia. Dal Nord arrivava principalmente personale qualificato per formare il ceto impiegatizio, dal Sud arrivavano soprattutto gli operai che dovevano costruire le case, i palazzi e gli uffici.

Roma nel 1871 conta 212.000 abitanti;

(10 anni dopo, nel 1881, sono 274.000 e nel 1901 ben 422.000).

Nel 1871 questa la popolazione in altre grandi città:

Napoli 489.000; Milano 291.000; Genova 267.000; Palermo 224.000; Torino 211.000; Firenze 201.000; Venezia 164.000; Bologna; 148.000; Messina 112.000.

La velocità con cui avvenne questa espansione fu dovuta a diverse cause. Sicuramente contribuì l’esigenza politica di dotarsi di una capitale al più presto, ma ci furono anche forti pressioni speculative dovute agli interessi economici dei proprietari dei terreni dove si doveva costruire. Tra il 1870 e il 1880 il valore di quei fondi è aumentato del 5mila per cento. Quindi è chiaro che c’erano forti interessi a costruire tanto e in fretta. Dal punto di vista archeologico, però, l’espansione di quegli anni fu devastante.

Il Palatino – che era di proprietà dell’ex imperatore Napoleone III e lo donò allo stato italiano nel 1870 – fu reso parco archeologico insieme a tutta la zona intorno al Colosseo, mentre l’Esquilino e quello che oggi è il rione Ludovisi non ebbero lo stesso trattamento, nonostante quelle campagne fossero piene di monumenti, testimonianze della Roma antica e della storia che essi contengono.

Quello del conflitto tra progresso e conservazione del passato è un dibattito complesso, che per certi versi a Roma non si è mai chiuso.

I lavori che sono stati fatti in quel periodo sono stati seguiti dalla Soprintendenza archeologica appena creata e dall’archeologo Rodolfo Lanciani, ma era un periodo in cui le influenze tardo-positiviste erano forti e non c’era un metodo per far coesistere archeologia ed edilizia pubblica. In pratica è andato distrutto quasi tutto, ma non dobbiamo guardare solo alla perdita dell’oggetto in quanto tale, ma alla perdita dell’informazione che ci avrebbe potuto dire molte cose che non sappiamo.

Qualche traccia di ciò che c’era nell’Ottocento nel rione Ludovisi è rimasta: una villa con un enorme giardino, grande come una città, che arrivava fino a piazza Barberini e descritto da molte fonti dell’epoca come bellissimo e suggestivo. Nella prestigiosa villa d’epoca nel cuore di Roma, si trova l’unico soffitto conosciuto dipinto da Caravaggio.

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LA QUESTIONE ROMANA – PAPA PIO IX NON CI STA’

Il Parlamento italiano, per cercare di risolvere la questione, promulgò nel 1871, la Legge delle Guarentigie, che riconosceva alla Santa Sede “libertà assoluta della Chiesa, indipendenza e riconoscimento dei beni’’, ma il Papa non accettò la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal governo e non mutò il suo atteggiamento.

Nel 1874, Pio IX emanò il celebre decreto «Non expedit» (non conviene), espresse parere negativo sulla partecipazione dei cattolici italiani alla vita politica.

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Queste situazioni vennero indicate e chiamate «la questione romana» e soltanto in età giolittiana (dal 1903 al 1914), tale divieto sarebbe stato eliminato progressivamente. Il completo rientro dei cattolici «come elettori e come eletti» nella vita politica italiana avvenne nel 1919, con la fondazione del Partito Popolare Italiano di Don Luigi Sturzo: i cattolici furono presenti nel mondo politico italiano ufficialmente.
La situazione venne sistemata definitivamente l’11 febbraio del 1929, con i Patti Lateranensi, mediante i quali si giunse ad una effettiva composizione bilaterale della vicenda e venne confermato il principio di «libera Chiesa in libero Stato».

Pio IX morì il 7 febbraio 1878 e Fu sepolto temporaneamente nell'apposito "loculo provvisorio" della Basilica di San Pietro in Vaticano, (nel proprio testamento, il pontefice aveva designato come luogo definitivo di sepoltura la basilica di San Lorenzo al Verano). Esattamente un mese prima, il 9 gennaio, era morto Vittorio Emanuele II. I due protagonisti dei loro giorni si spegnevano insieme, dando modo alla storia d’Italia di voltare decisamente pagina.

Pio IX fu una figura controversa: un Papa scomodo sia politicamente, poiché avversò il Risorgimento italiano, profondamente anticlericale quando non antireligioso; sia teologicamente, poiché sostenne l’ortodossia cattolica, con la promulgazione solenne del dogma dell’Immacolata Concezione (1854), con la conferma del primato di Pietro e dell’infallibilità papale nel Concilio Vaticano I (1870) e soprattutto con la condanna, contenuta nel Sillabo (1864), dei “principali errori del nostro tempo”.

Le relazioni tra papa Pio IX e gli ebrei ebbero esordi positivi all'inizio del pontificato, ma si incrinarono dopo la breccia di Porta Pia che vide il papa privato del potere temporale in un'atmosfera di aperto anticlericalismo. Sebbene Pio IX avesse rigettato personalmente le accuse di antisemitismo, il clamore creato del caso Mortara compromise almeno parzialmente la sua immagine internazionale e presso gli ebrei.

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Nel 1858, Edgardo Mortara ,un bambino ebreo di sei anni, fu sottratto alla potestà dei genitori dalla polizia dello Stato pontificio. Era stato riferito che aveva ricevuto il battesimo da una serva cristiana durante una sua malattia, perché la serva temeva che potesse andare all'Inferno se fosse morto senza battesimo. Secondo la legge del tempo, i cristiani non potevano essere allevati dagli ebrei. Gli appelli per restituire il bambino ai suoi genitori, furono declinati. Lo stesso bambino voleva stare sotto la tutela papale e scrisse a sua madre: "Sono battezzato. Mio padre è il Papa, vorrei vivere con la mia famiglia, se solo diventassero cristiani e prego che lo diventino".

Nel 1870 fu ordinato sacerdote, assunse il nome di don Pio Mortara, in omaggio al Papa, entrò in un monastero di Poitiers, in Francia e successivamente intervenne a favore della beatificazione di papa Pio IX, chiamandolo ancora "mio padre". Durante l'infanzia, Edgardo Mortara poteva essere liberamente visitato dai suoi genitori, i quali, tuttavia, non potevano mai rimanere da soli con il figlio.

Bisogna ricordare che Pio IX agì nel pieno rispetto sia della legge civile sia del diritto canonico; di suo aggiunse l'affetto, ricambiato per tutta la vita, per il piccolo Edgardo, che a ventitré anni assunse il nome di Pio in suo onore, mentre per la famiglia Mortara, Pio IX ha perpetrato un atto di intolleranza inaccettabile e un abuso di potere.

Pio IX, in un'udienza alla Pia Unione delle donne cattoliche di Roma il 24 agosto 1871, dopo la Presa di Roma che il Papa aveva vissuto come un oltraggio, si espresse così: «Or gli Ebrei, che erano figli nella casa di Dio, per la loro durezza e incredulità, divennero cani. E di questi cani ce n'ha pur troppi oggidì in Roma, e li sentiamo latrare per tutte le vie, e ci vanno molestando per tutti i luoghi. Speriamo che tornino ad essere figli».

Nel luglio del 1881 avvenne la traslazione della salma. Fu organizzata una cerimonia pubblica, che cominciò alla mezzanotte tra il 12 e il 13 luglio, secondo l'uso dell'epoca. Ad accompagnare la salma del pontefice lungo le strade si accalcarono migliaia di cittadini. Memori di quanto successo nel caso Mortara, numerosi elementi anticlericali prepararono manifestazioni di protesta. Nonostante fossero prevedibili scontri, non fu organizzato un visibile dispiegamento di polizia. Il governo italiano era restio a organizzare un servizio di sicurezza adeguato per, così si argomentava, non creare l'impressione di un omaggio a una figura che aveva ritardato l'Unità d'Italia. D'altro canto gli ambienti ecclesiastici non vollero utilizzare le forze di sicurezza vaticane perché sarebbe stato un implicito riconoscimento della legge delle Guarentigie che le aveva istituite.

La cerimonia fu interrotta da un gruppo di anticlericali che tentarono di impossessarsi del feretro, al grido di «al fiume il papa porco», attaccando il corteo funebre con sassi e bastoni nell'evidente intento di gettare la salma di Pio IX nel Tevere. I fedeli, tranne pochi animosi, rimasero sostanzialmente passivi. Solo la pronta reazione della polizia evitò gravi incidenti; furono richiamati rinforzi provenienti dall'esercito (ai militari, infatti, era stato imposto di restare consegnati in caserma in via precauzionale). Solo dopo alcune ore il corteo funebre poté riprendere la processione sino a San Lorenzo in una situazione di relativa tranquillità.

Pio IX portò con dignità e con fermezza la sua croce: sovrano senza più regno, prigioniero nella sua stessa casa, adulato e calunniato al tempo stesso.

Difese il potere temporale.....che ha appesantito e compromesso la vita della Chiesa cattolica; ma è stato il prezzo che essa ha pagato per non finire serva di palazzo di potenti della terra, come è invece accaduto alle chiese riformate e ortodosse.

Il Papa aveva nutrito nei confronti di Cavour un’antipatia viscerale, sia a motivo della legislazione duramente anticlericale applicata con rigore dal suo governo nel regno di Sardegna, sia perché lo considerava, in materia religiosa, più vicino alle idee dei protestanti che dei cattolici. In realtà, la formazione giovanile del conte di Cavour, in particolare negli anni ginevrini, lo aveva indirizzato verso una concezione molto libera e personale del fatto religioso. Cavour immaginava una Chiesa cattolica rinnovata, o meglio «ammodernata», ringiovanita, in un regime di separazione, cioè di libertà; una Chiesa non più nemica ma alleata dell’Italia e protetta dalle armi italiane e non già da quelle straniere. invece Pio IX considerava ogni cosa, anche le questioni di natura politica, innanzitutto sotto il profilo religioso e all’interno della millenaria tradizione della Chiesa: approcci diversi e incompatibili da ogni punto di vista. Ecco perché la missione piemontese, che pretendeva di convincere il Papa ad abbandonare il potere temporale in cambio di garanzie sulla propria indipendenza e libertà di azione e a convertirsi al liberalismo, era destinata al completo fallimento. L'episodio ebbe risonanza internazionale: l'Italia apparve come un paese in cui era possibile attaccare una persona anche oltraggiandone le spoglie mortali.

Cavour è considerato uno dei padri fondatore dell’Italia Unita, insieme al Re Vittorio Emanuele II, al Generale Giuseppe Garibaldi e al Vate Giuseppe Mazzini e Roma volle ricordare degnamente questa importante figura attraverso il Monumento e alla piazza a Lui dedicati.

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Il Monumento venne inaugurato il 22 settembre 1895 durante le celebrazioni del 25° Anniversario dell’Annessione di Roma al Regno d’Italia. lo stesso giorno, oltre al Monumento a Cavour, fu inaugurato il vicino Ponte Umberto I, mentre nei giorni successivi furono inaugurati il Monumento a Garibaldi sul Gianicolo, il Monumento a Mario Minghetti, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, a Piazza San Pantaleo, la Colonna commemorativa ai Fratelli Cairoli a Villa Glori e la Colonna trionfale davanti alla Breccia di Porta Pia.

Tutti questi monumenti avevano un unico fine, quello di ricordare alle future generazioni eventi fondativi e personaggi importanti della Storia d’Italia.

Il luogo scelto per l’erezione del Monumento a Cavour è significativo del ruolo avuto dal grande statista nelle relazioni Italo-Vaticane, nel tentativo di risolvere la “Questione Romana”, secondo il motto “Libera Chiesa in libero Stato”.

Il Monumento, sorge nel Quartiere Prati, edificato subito dopo il 1870, area che si trova nei pressi delle mura leonine, a ridosso del Vaticano, detta dei Prata Neronis, una zona allora poco abitata e spesso coinvolta nelle esondazioni del Tevere. Le strade e le piazze sono dedicate agli Eroi del Risorgimento e ai personaggi storici che ebbero nei confronti dello Stato Pontificio relazioni di forza, auspicandone la fine con la conseguente autonomia del potere temporale dal potere spirituale.

Sull’elegante Piazza Cavour si trovano l’imponente Palazzo di Giustizia dell’architetto Guglielmo Calderini, il Palazzo De Parente di Gaetano Koch, dove ha sede il Cinema-Teatro Adriano e la Chiesa Evangelica Valdese. Nel giardino centrale, realizzato da Nicodemo Severi tra il 1895 e il 1911, con palme e allori, simboli di Gloria e di Vittoria, si impone alla vista il Monumento dedicato a Cavour, ideato dallo scultore Stefano Galletti, realizzato tra il 1885 e il 1895.

La Prima Pietra fu posta alla presenza del Re Umberto I e della Regina Margherita il 15 marzo 1885, pochi giorni dopo, il 22 marzo 1885 fu posta la Prima Pietra del Vittoriano.

Il monumento, alto 17 metri e largo 14, è costituito da un imponente basamento in granito, su cui si erge un alto piedistallo in marmo barbiglio, con gruppi scultorei bronzei, il tutto sormontato dalla statua bronzea, di oltre 5 metri, di Cavour, in abiti moderni e rivolto verso il Palazzo di Giustizia (per chi lo desidera, altri dettagli sono consultabili su internet).

In occasione dei lavori di scavo per la costruzione di un parcheggio sotterraneo e del ripristino dell’area nel 2010, anno del Bicentenario della Nascita di Cavour, fu trovata una cassettina di travertino, con dentro un tubo metallico, che custodiva una pergamena firmata dal Re Umberto I, insieme a delle monete d’oro e d’argento.

Questo tesoro fu deposto dal Re durante la cerimonia della posa della Prima Pietra. Sul tubo era ancora leggibile l’incisione “S.P.Q.R. A Camillo Benso Conte di Cavour 1885”. Tra le monete è stata ritrovata una lira d’argento del 1884, con lo stemma sabaudo e l’effige del Re Umberto I.

Un particolare significativo si ricorda: in occasione dei festeggiamenti dei 140 anni di Roma Capitale, alla presenza dell’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, il 20 settembre 2010, il quale ha pronunciato parole nette sulla centralità della Città Eterna.

Era presente, per la prima volta, alle celebrazioni, il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato del Vaticano che dichiarò: «La nostra presenza a questo avvenimento rappresenta un riconoscimento dell’indiscussa verità di Roma Capitale d’Italia, ma anche come sede del successore di Pietro».

Oggi a 152 anni, da quel famoso giorno, si è ritrovata da tempo, concordia tra le comunità civili e quelle ecclesiastiche, ed è giusto ricordarlo in una fase in cui, in molti paesi del mondo, si manifestano gravi forme di intolleranza, di fondamentalismo e di fanatismo religioso: le vie del dialogo e del confronto, in tutte le situazioni, devono essere sempre presenti e ricercate.

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Santena custodisce le spoglie di Camilo Cavour, massimo fautore dell’Unità d’Italia, ’’Padre della Patria’’ e promotore di ‘’Roma capitale’’. Qui ogni anno viene celebrata la ricorrenza del «XX Settembre» con una significativa cerimonia:

Il 20 settembre, di ogni anno, anniversario della fine del potere temporale dello Stato della Chiesa (1870), si celebra a Santena la cerimonia di conferimento del ‘’Premio Camillo Cavour’’, istituito nel 2007 in collaborazione tra la Fondazione Cavour e l’Associazione Amici della Fondazione Cavour. Il Premio consiste in una riproduzione in oro degli occhiali del celebre statista piemontese ed è destinato alle personalità eminenti nel campo della politica, della scienza, della cultura e del giornalismo. Primo assegnatario, nel 2007, l’ex Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

Santena, 23 aprile 2023