Incontri Cavouriani

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Lo sviluppo delle ferrovie dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia. Seconda parte.


di Vittorio Griva

1905-2023

Dunque, eravamo rimasti alla nazionalizzazione delle ferrovie e alla loro riunificazione in un’unica azienda nazionale, Ferrovie dello Stato, azienda dotata di un CDA, con basi organizzative decisamente di natura privatistica, tanto è vero che i salari erano totalmente slegati da quelli pubblici, rendendo i posti di lavoro all’interno di FS molto ambiti.

Per quanto riguarda le dimensioni della rete, stando ai dati del 1905, erano presenti sul territorio nazionale 17.000 km di linee, di cui però soltanto 2300 a doppio binario, sui quali circolava un’enorme quantità di materiale rotabile (parliamo di circa 2.664 locomotive, 52.278 carri merci, 6.985 carrozze viaggiatori) sebbene molto antiquato.

Giolitti, l’autore della riforma (attuata per altro in concomitanza di quella relativa alla nazionalizzazione delle linee telefoniche), designò un ingegnere piemontese, Riccardo Bianchi, alla direzione della nuova azienda; quest’ultimo si impegnò immediatamente nel rinnovamento del parco mezzi, comprando, tra locomotive e carri, un quantitativo di circa 22.000 unità.

Grazie all’azione di Bianchi, nel biennio successivo al 1905, le corse ferroviarie furono incrementate del 20% circa, accompagnate da una forte innovazione sulla rete: nel 1906 comparvero le prime toilette sulla linea Firenze-Roma; fu implementato il riscaldamento sulle carrozze circolanti nelle zone più fredde della penisola (agganciando una carrozza-riscaldamento in coda ai convogli); 3.400 carrozze furono dotate di illuminazione elettrica e cominciò ad essere applicato il dispositivo frenante “Westinghouse”, che migliorò la sicurezza nella circolazione.

Al contempo, l’innovazione toccò anche i motori delle locomotive, portando una di esse, il modello 680, a raggiungere la velocità di 120 km/h nel 1907, e nello stesso anno, fu introdotto il servizio del Simplon Express (l’Orient Express arriverà solo col primo dopoguerra), complice l’apertura del traforo del Sempione.

Fu infine avviato quel lunghissimo processo di elettrificazione delle linee (che coinvolge la rete tutt’oggi) in primo luogo per cercare di affrancarsi dalla dipendenza dei combustibili esteri, anche se con modalità diverse: prima si tentò con le batterie, poi con l’alimentazione detta “presa a terzo binario” (costituita da un filo alimentatore che correva in mezzo ai due binari), poi, nel 1902, nel Comasco, fu la volta dell’alimentazione a corrente trifase su filo aereo, noto successivamente come sistema italiano. Quest’ultima fu immediatamente preferita al terzo binario per ragioni di sicurezza: difatti, se qualcuno cadeva sui binari dotati della presa a terzo binario, c’era l’alto rischio che rimanesse folgorato.

Nel 1905 questo processo di elettrificazione era fermo a 178 km di binari, e anche in questo campo fu il direttore Bianchi a ridare vigore alla riforma: difatti, fin da subito concentrò gli sforzi sulle linee di valico, dove le locomotive a vapore risultavano essere molto poco efficienti, e al contempo portavano alti rischi alla salute dei viaggiatori e del personale quando bisognava attraversare tunnel. A tal proposito, nel 1898, proprio l’inquinamento dovuto ai fumi delle locomotive a vapore nelle gallerie aveva causato un grave incidente all’interno del primo valico dei Giovi, sulla linea Torino-Genova, dove un convoglio merci, spinto da una locomotiva in testa e da una in coda, aveva progressivamente perso velocità e poi, a causa dell’asfissia dei macchinisti nella locomotiva di coda, aveva iniziato la retromarcia all’interno del tunnel, andando a colpire un convoglio passeggeri all’imbocco della galleria, uccidendo in totale 12 persone.

Tra il 1910 e il 1915 furono elettrificate le due linee della Torino-Genova (quella via Busalla, ossia la storica ferrovia cavouriana del 1853, e la cosiddetta “succursale dei Giovi”) le due linee fondamentali dell’approvvigionamento piemontese-lombardo, dato che circa l’80% delle merci del porto di Genova percorrevano poi queste due linee; al contempo venivano elettrificate la linea Savona-Ceva e quella internazionale del Frejus, attivando anche due nuove centrali idroelettriche, a Rochemolles di Bardonecchia e a Morbegno in Valtellina.

Proprio nel 1915, complice il temporaneo ritiro di Giolitti dalla vita pubblica, Bianchi dovette dimettersi, in seguito alle pressioni da parte del nuovo esecutivo per il continuo aumento del budget, dovuto in parte alle riforme e in parte agli aumenti delle buste paghe dei ferrovieri, che peraltro erano in continuo sciopero.

Durante la grande guerra, il contributo che le ferrovie diedero allo sforzo bellico fu determinante: con ben 294.000 treni effettuati, circa 270 al giorno, le ferrovie trasportarono truppe per un totale di 15,5 milioni di uomini, più 4 milioni tra feriti e quadrupedi. Sempre durante la Grande Guerra ci fu il ritorno in grande stile di Riccardo Bianchi, che fu nominato ministro dei trasporti nel governo di unità nazionale di Vittorio Emanuele Orlando.

Nel dopoguerra, l’organico del personale di FS aveva ormai raggiunto la cifra incredibile di 226.000 unità; lo Stato, già impegnato nel risanamento dei debiti di guerra, dovette agire con forti tagli, che portarono al licenziamento di circa 50.000 persone.

Con la contemporanea instaurazione del fascismo, si procedette poi all’ammodernamento di molte stazioni ferroviarie, che dovevano essere “cattedrali littorie”; è questo il caso di Milano Centrale, Firenze Santa Maria Novella e Napoli Piazza Garibaldi.

Negli anni ‘30 dello scorso secolo, iniziò quella che storicamente è la grande battaglia delle ferrovie: lo scontro di supremazia con il trasporto su gomma. Infatti dopo un decennio particolarmente positivo per la crescita del trasporto su ferro (dal 1923 al 1929 i viaggiatori trasportati in un anno erano passati da 112 a oltre 139 milioni, e le merci nello stesso periodo da 48 a 64 milioni), erano iniziati gli anni trenta, dove ci fu la fulminea avanzata dell'autotrasporto merci; si parla di una quota dell'autotrasporto che nel 1931 valeva il 3%, ma l'anno successivo si era raggiunto già il 13% e quello dopo ancora il 20%.

Per alleviare i problemi finanziari, dal dicembre 1931 le Ferrovie dello Stato vennero autorizzate a sostituire in alcune linee il servizio ferroviario con quello automobilistico; in quella data si parla di una rete che copre 22.571 km e, nello stesso periodo, si parla di circa 70.000 km di servizi automobilistici extraurbani; si può quindi fin da subito notare come la lotta fosse già impari poco dopo il lento e graduale inizio della motorizzazione di massa.

Questi anni, tragicamente noti per altro, segnano però un notevole miglioramento tecnologico delle ferrovie: dell'inizio del ventennio all'inizio della guerra, le linee elettrificate aumentarono dai 689 km a 5173, così come fu importante il progresso tecnologico relativo alla produzione di locomotive. Si pensi che abbiamo anticipato la Gran Bretagna, la Germania e il Belgio, nella cessazione di produzione di locomotive a vapore, tanto era avanzata la produzione di quelle ad alimentazione alternativa; è di questi anni, infatti, l'introduzione delle locomotive E626, dove E sta per elettrico, che saranno in funzione sulla rete italiana fino agli anni ‘90.

A fianco del progresso sulle locomotive, vi era quello sulle linee ferroviarie; è di questi anni l'esperimento dell'installazione sulla linea da Benevento a Foggia della corrente continua a tremila volt, anche se, per un breve momento, continuò a essere preferita l'elettrificazione trifase, che aveva già dato ottimi risultati sulle linee con forti pendenze.

In uno dei suoi lavori dedicati alla poesia della Tecnica, l'ingegnere è scrittore Carlo Emilio Gadda tracciava nel 1936 un affresco efficace del treno sulla linea del Ponente Ligure, da poco tutta elettrificata a trifase:

“Sbucato dalla galleria delle Pievi, l'elettrico scivola giù col pantografo dentro il fornice buio della successiva, portandovi la sua corsa inderogabile illividita da scintille violette... isolatori bianchi, alle sandaline de sostegni, fanno un’allineata di perle: come a voler agghindare la Riviera”.

Dall'esperimento avvenuto nel meridione sull'elettrificazione a corrente continua, che aveva peraltro dato ottimi risultati, deriva il notevole impulso alla conversione a corrente continua delle principali linee ferroviarie del paese: è il caso della Firenze-Roma, Milano-Bologna, Ancona-Roma, Livorno-Roma e tante altre; complice di questo fulmineo cambiamento fu senz'altro l'embargo sul carbone e sui combustibili liquidi, inflitto dalla Società delle Nazioni all'Italia per l'attacco all'Etiopia.

È giunto il momento di parlare dell'argomento ferroviario sicuramente più interessante, per quanto riguarda il periodo del ventennio fascista, ossia le littorine.

Queste automotrici termiche avevano una caratteristica e rivoluzionaria testata aerodinamica, ed erano colorate con il tipico "Castano-Isabella". Queste littorine nacquero dalla volontà di realizzare un autobus su rotaia per contrastare la concorrenza automobilistica; si trattava infatti di carrozze automotrici dotate di due cabine di guida alle estremità in grado di muoversi da sole e di essere reversibili; si annullava, quindi, il problema del giro di locomotiva.

È molto interessante l'etimologia della parola Littorina: quest'ultima prende sì il nome dal periodo in cui è stata concepita, ma indirettamente; difatti quando entrarono in servizio, una di esse effettuò la corsa di prova per l'inaugurazione della città di Littoria; in cabina prese posto addirittura Mussolini. Recita la voce di un cinegiornale luce contemporaneo: "Sua eccellenza il capo del governo si è recato nell'agro pontino su di una nuova autovettura ferroviaria, che può raggiungere la velocità oraria di 118 km".

Lo sviluppo e la produzione di questi treni fu estremamente variegata; si partì infatti da locomotive a vapore, si proseguì con la produzione di automotrici elettriche di grande stazza è successivamente anche con quelle di ingombro minore, di cui se ne fece uso massiccio sulle linee minori.

Sempre in epoca fascista si iniziò il massiccio rinnovamento della rete ferroviaria italiana per quanto riguarda le cosiddette direttissime. Queste, come noto anche oggi, furono intese come linee di scorrimento veloce, che andavano ad aggiungersi a collegamenti già esistenti tra due località, presentando percorsi abbreviati con aumento delle potenzialità di traffico.

Come infatti ho detto nella mia precedente relazione, quando trattai il primo sviluppo delle Ferrovie italiane, al momento dell'Unità si procedette in maniera grossolana e superficiale al congiungimento dei singoli tronchi progettati negli Stati preunitari, con tutti gli svantaggi che ciò comportava per una veloce connessione fra le grandi città.

Fu così che nel corso degli anni Venti, si inaugurarono le direttissime Genova-Tortona e la Roma- Napoli. Quest’ultima ridusse il percorso di 35 km e permise una velocità di crociera di 120 km orari. Fu anche l’occasione per inaugurare il primo passante ferroviario della storia italiana, che tutt’oggi va a costituire la linea 2 della metro di Napoli.

Sicuramente la più interessante fu la direttissima dell'Appennino Bologna-Prato, che era all'epoca un capolavoro di ingegneria ferroviaria, con tracciato in larga misura su opere d'arte: viadotti, trincee e soprattutto gallerie, le più lunghe delle quali misuravano 3,7 e 18,5 km [galleria di valico].

Durante i funesti anni della guerra, le linee funzionarono a pieno regime, trasportando un quantitativo di persone pari a 194 milioni di passeggeri e 64 mln di merci; proprio durante uno dei massicci spostamenti di sfollati, si verificò il più tragico disastro ferroviario della nostra storia: il 2-3 marzo del ‘44, sulla linea Battipaglia-Potenza, un treno merci di 47 vagoni, che trasportava anche 600 civili, rimase bloccato all’interno di una galleria, dove tutti i passeggeri trovarono la morte per asfissia a causa dei fumi emessi dalle due locomotive che trainavano il convoglio.

Gli effetti della guerra furono devastanti sulla nostra rete ferroviaria: si pensi che furono distrutti circa 7.000 km di binari (cioè il 30% dell'intera lunghezza della rete), 4.750 ponti (il 32% del totale), 64 km di gallerie (il 7%), 4.700 fabbricati (il 47%), nonché quasi tutti gli impianti per la trazione elettrica, cosa che comportò la necessità di tornare all'utilizzo esclusivo del vapore.

Grazie in parte all'illuminata dirigenza del nuovo Ministro dei Trasporti l'ingegner Guido Corbellini, che completò la stesura del programma tecnico per la ricostruzione, e in parte grazie ai soldi americani, furono riattivati circa 6000 dei 7000 km distrutti, e fu anche rimodernata la stazione di Torino Porta Nuova, così come venne completata la nuova stazione di Roma Termini, con uno stanziamento totale di 133,8 miliardi di lire in un periodo che va dal 1948 al 1950.

La Ricostruzione venne completata nel 1952.

Finiti gli anni della Ricostruzione si arrivò alla progettazione e realizzazione di nuovi treni di lusso: i cosiddetti Settebello e Arlecchino. I due, rispettivamente un ETR 200 e un ETR 250, avevano una particolarità unica: la sopraelevazione delle cabine di guida, in modo da creare al di sotto dei salottini belvedere, dotati di undici posti ciascuno, dai quali si poteva ammirare il panorama e godere l'ebbrezza della velocità.

Il Settebello era dotato di sette vetture, di cui quattro destinate ai viaggiatori, una al bagagliaio e servizi, una per le cucine e dispense e una era destinata al ristorante e bar; gli allestimenti del rapido di lusso erano i migliori dell'epoca, con il condizionamento dell'aria, il servizio di audio diffusione e l'isolamento termico- acustico.

Il Settebello rappresentava l’ammiraglia dei treni italiani.

Nell'aprile del 1961 si svolse una gara, promossa dal giornale automobilistico Quattro Ruote, che simboleggiò in qualche modo il passaggio dal treno all'automobile nei trasporti sulle lunghe distanze: una Giulietta dell'Alfa Romeo sfidò Il Settebello tra Milano e Roma, impiegando soltanto 5 ore e 59 minuti, contro le sei ore e 37min dell’elettrotreno; la macchina aveva vinto, nonostante l'Autostrada del Sole non fosse ancora completata.

Proprio l’Autostrada del Sole rappresentò la divergenza tra i massicci investimenti statali su nuove opere per trasporto su gomma, a scapito di quelle dedicate al trasporto su ferro.

Con in mente l'immagine dell'autostrada e delle veloci auto che la percorrevano, a partire dagli anni sessanta, buona parte dell’opinione pubblica riteneva che il treno fosse un mezzo di trasporto superato e qualcuno proponeva persino di adibire le stazioni a luoghi di pubblico spettacolo. Si era ipotizzata persino la trasformazione in carreggiabile della sede di alcune linee ferroviarie, idea poi scartata perché la piattaforma utile era la metà circa dei sette metri di larghezza indispensabili per realizzare una strada e sarebbero state quindi necessarie forti spese per adeguare i ponti e le gallerie.

L’eliminazione della terza classe sui treni è da imputare proprio agli anni del miracolo economico. Infatti, in questo periodo, il reddito medio raddoppiò nel giro di 14 anni, e il fenomeno fu accompagnato da un rapido aumento dei consumi (l’8,5% annuo), unito al forte cambiamento nel comparto settoriale economico: stiamo parlando di una popolazione che nel 1951 per il 44% lavorava nel settore primario e per il 30% nel settore secondario, mentre 19 anni dopo il 18,9% era occupato nel primario è il 42,2% nel secondario.

La considerevole immigrazione interna al paese portò alla creazione di enormi nuovi quartieri dormitorio nell’hinterland delle grandi città. Il nuovo pendolarismo, conseguente a questa urbanizzazione su larga scala, fece salire fortemente la domanda di posti su quelli che erano i treni adiacenti ai grandi centri urbani; questo fenomeno, che ha coinvolto tutta l’Europa, portò ad una modifica all’interno di quella che era la divisione dei treni in classi, tant’è vero che nel 1956 venne eliminata la terza classe. Calarono anche i prezzi della prima classe e per la seconda vennero applicati i prezzi della precedente terza classe.

Per quanto riguarda la sopracitata emigrazione interna italiana durante gli anni del miracolo economico, è presente nell’immaginario collettivo l’immagine degli emigrati meridionali, con le valigie di cartone, stipati sui vagoni ferroviari nelle grandi stazioni del Nord Italia, come Milano Centrale o Torino Porta Nuova.

In particolar erano due le linee ferroviarie denominate “Treno del Sole” e “Freccia del Sud”, che rispettivamente servivano il Piemonte, la Liguria, la Lombardia e l’Emilia-Romagna. I treni della speranza, che collegavano il Sud al Nord con il loro carico umano, rappresentarono il simbolo della fuga dal disagio e dalla miseria verso il mondo industrializzato, ritenuto più ricco e progredito.

Le scene di tali migrazioni, prima verso l’estero e poi all’interno del Belpaese, furono efficacemente immortalate nei film che concentravano la loro attenzione su un’Italia minore, fatta di gente comune, nell’ambito della corrente cinematografica conosciuta come neorealismo (ad esempio: “Il cammino della speranza” di Pietro Germi oppure “Rocco e suoi fratelli” di Luchino Visconti).

Fu quindi il miglioramento delle condizioni di vita degli italiani e l’aumento della presenza delle automobili che comportò la forte riduzione del trasporto ferroviario, non solo per il traffico passeggeri, ma anche per quello merci. Questo fenomeno si accentuò col passare del tempo: già nel periodo del miracolo economico viaggiava su rotaia soltanto il 24% dei prodotti, ridotto il 16,7% del 1970 e il 10,5% del 1980. Oggi siamo circa al 10%.

Non riuscì a decollare pienamente neppure il cosiddetto trasporto intermodale, di cui si parlò molto tra gli anni ’60-‘70, inteso come integrazione operativa e gestionale fra diversi modi di trasporto, attraverso l’impiego in sequenza mediante unità di carico, senza dover ricorrere alla manipolazione delle merci in esse contenute; da ciò nacquero quelli che oggi noi chiamiamo Interporti.

Il trionfo dell’autotrasporto prosegui sempre di più con il passare degli anni, tant’è che a partire dal 1964 si iniziò a tagliare i rami secchi della rete ferroviaria italiana. Il primo taglio riguardò una delle linee ferroviarie più affascinanti del pianeta: la Cortina d’Ampezzo-Calalzo-Dobbiaco.

Nello stesso periodo si lasciò irrisolta una questione fondamentale proprio per il trasporto di massa: quella dei grandi centri con le ferrovie metropolitane; l’Italia, che era in ritardo di circa cent’anni sulla prima metropolitana del mondo, quella di Londra inaugurata nel 1863, e cominciò ad inaugurare le sue line a partire da quella romana del 1955 e quella milanese del 1964.

In questo contesto di catabasi delle ferrovie italiane, si assistette nel mondo a una grandissima invenzione: quella dei treni ad alta velocità; la tecnologia e il brevetto giapponese di questi treni avevano destato vivo interesse nel nostro ministero dei trasporti, così come in quello francese.

Negli anni ‘70 iniziò la costruzione della direttissima Roma-Firenze; difatti, dopo le direttissime realizzate nel periodo fascista, nel secondo dopo guerra si diede priorità alla costruzione di linee ferroviarie alternative a quelle ottocentesche, nate – come si è detto – dal collegamento dei tronconi esistenti nei vari Stati pre-unitari.

Al primo tratto della pontificia Roma-Orte-Ancona si era infatti aggiunto da Orte il tracciato per Orvieto-Chiusi- Siena, e da Terontola verso nord il collegamento di Perugia con Arezzo e Firenze, il tutto saldato all’ultimo tronco Terontola-Chiusi del 1875. Si trattava di un tragitto assai tortuoso, con 97 km di curve sui 316 km di lunghezza; si pensi che la distanza ferroviaria era del 35% superiore alla distanza in linea d’aria tra Roma e Firenze.

La direttissima Roma-Firenze, la cui costruzione iniziò nel giugno del 1970, ultimata il 31 maggio 1992, era priva di passaggi a livello e di stazioni; inoltre era dotata di una distanza ben più ampia tra i due binari, per neutralizzare gli effetti dinamici in caso di incrocio tra i treni. Con questi accorgimenti la linea consentì di raggiungere i 250 km/h. Il definitivo completamento, vide la distanza totale tra le due città passare da 316 a 255 km. Nonostante la sua travagliata costruzione, con la nuova linea diminuivano di molto i tempi di percorrenza, passando da tre ore ad appena un’ora e 35 minuti

Mentre l’Europa sfrecciava (in Francia si andava da Parigi a Lione in due ore), nel periodo immediatamente antecedente alla inaugurazione della direttissima Roma-Firenze, in Italia la maggior parte dei mezzi rotabili risaliva al periodo anteguerra: stiamo parlando del 25% delle locomotive e dei vagoni.

Si prese perciò un prototipo già esistente dall’ottobre del 1971, chiamato Pendolino, la cui novità era rappresentata dal cosiddetto assetto variabile, con il corpo della vettura che poteva inclinarsi verso l’interno della curva, indipendentemente dal carrello, e diminuiva in tal modo la forza centrifuga patita dei passeggeri, permettendo la marcia del 20% più elevata rispetto ai treni ordinari.

Inoltre il convoglio con profilo aerodinamico, con cassa in lega leggera anziché in acciaio, al fine di contenere il peso, poteva raggiungere una velocità mai toccata in Italia: i 250 km/h sulla direttissima.

Nell’aprile dell’89 comparve poi l’ETR 500, un ulteriore treno italiano ad alta velocità, senza la cassa oscillante del Pendolino, il quale poteva viaggiare a 300 km/h. Stiamo parlando del Frecciarossa, che viaggia tutt’oggi sui nostri binari.

Per rilanciare il treno e per inserirsi a pieno titolo nella rete europea, si propose il progetto infrastrutturale delle ferrovie ad alta velocità (300 km/h) sulle maggiori direttrici: Torino-Venezia, Milano-Napoli e Genova-Milano. Con questo progetto si adottò in pratica il modello francese, cioè ferrovie il più possibile rapide, caratterizzate da pochissime fermate, dedicate esclusivamente ai viaggiatori, escludendo il traffico merci. Era un modello opposto rispetto a quello che aveva ispirato la direttissima Roma-Firenze, concepita invece per un traffico misto viaggiatori e merci, legata ai centri principali con interconnessioni.

Nel luglio del 1991 veniva fondata la società TAV, acronimo di Treno ad Alta Velocità, con un capitale sociale di 100 miliardi di lire; la TAV otteneva dallo Stato la concessione per progettare e gestire per cinquant’anni il sistema ad alta velocità, la cui costruzione era affidata ad alcuni General Contractors garantiti dai maggiori gruppi industriali italiani, come Iri, Eni e Fiat, liberi di appaltare le attività con trattativa privata, senza obbligo di gare ad evidenza pubblica.

Partiti i lavori nel 1994, le opere venivano ostacolate da pressioni politiche a livello nazionale e da tante proteste a livello locale; inoltre i lavori sono stati intralciati da vicende giudiziarie legate a infiltrazioni criminali, dato che l’alta velocità costituiva di gran lunga il maggior investimento di fine secolo.

Intanto si muoveva anche la Comunità Europea che definì il piano sulla crescita, la competitività, l’occupazione, e la creazione di nuovi collegamenti tra i paesi comunitari e anche verso gli Stati dell’Europa orientale; a tal fine furono individuati 34 progetti classificati in tre gruppi a seconda del loro grado di maturità. Nel primo gruppo rientra la maggioranza dei progetti ferroviari che interessavano l’88% dell’investimento a medio termine. Tra i progetti di ferrovie classificati prioritari, ce n’erano due riguardanti l’Italia: l’asse ferroviario del Brennero e la linea ad alta velocità Lione-Torino, di cui si parla tutto oggi.

Gli assi Genova-Rotterdam per la galleria del Sempione e Verona-Berlino per il valico del Brennero prevedevano collegamenti veloci in lunghe gallerie sotto le montagne, attraverso l’Austria e la Svizzera, la cui necessità risultava evidente per il continuo aumento dei traffici fra Italia e Germania e per il fondamentale impatto ambientale del trasporto su camion del territorio alpino.

La ferrovia ad alta velocità Lione-Torino, con la lunga galleria del Moncenisio, era invece finalizzata a migliorare le connessioni tra Italia e Francia, come tratto di un più vasto itinerario verso gli Stati europei orientali, il cosiddetto Corridoio Cinque Lisbona-Kiev.

In entrambi i casi, si prevedeva la costruzione di maxi tunnel, lunghi oltre i 50 km, con un risultato finale di alta capacità di trasporto e di tempi di percorrenza dimezzati. Anche la questione della diversa alimentazione elettrica veniva finalmente affrontata, prevedendo per le linee ad alta velocità, sia interne che internazionali, una tensione di 25.000 volt a corrente alternata, in grado di semplificare gli impianti e la manutenzione.

Comunque da lì al 2016, ci fu la connessione in alta velocità completa degli assi Milano-Salerno e Torino-Brescia.

22 novembre 2023