Incontri Cavouriani
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I Savoia e il Piemonte. Il passaggio dalla Restaurazione alla Primavera dei Popoli
di Irma Genova
Indice
Il regno di Vittorio Emanuele I – 1802-1821
l regno di Carlo Felice – 1821-1831
Regno di Carlo Alberto – 1831-1849
Regno di Vittorio Emanuele II – 1849-1878
Questa sera cercherò di analizzare come avvenne il passaggio - in pochi anni - dalla monarchia sabauda assoluta, ultraconservatrice, a quella costituzionale; passaggio che portò Casa Savoia ad essere capofila del processo di unificazione italiana.
Per capire gli avvenimenti politici e sociali che hanno portato a questo cambiamento, parlerò delle vicende storiche, che vanno dal rientro in Piemonte dei Savoia, nel 1814, fino alla battaglia di Novara del 1849. Trentacinque anni che videro alternarsi tre regni: quello di Vittorio Emanuele I di Savoia, quello di Carlo Felice di Savoia e infine quello di Carlo Alberto di Savoia-Carignano.
Iniziamo quindi dagli anni della Restaurazione.
Vittorio Emanuele I, secondogenito di Vittorio Amedeo III, salì al trono nel 1802, anno in cui suo fratello Carlo Emanuele IV aveva abdicato, senza avere figli maschi. Il nuovo re passò i primi 12 anni del suo regno in Sardegna; poi, alla caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna gli restituì tutti i suoi territori, a cui aggiunse l’ex Repubblica di Genova.
Il 19 maggio 1814 Vittorio Emanuele I rientrò a Torino, scortato nel suo viaggio da un contingente di 2000 soldati austriaci perché Casa Savoia non aveva nemmeno più l’esercito.
Per prima cosa quindi era urgente ricostituire una milizia a protezione del trono e tutte le scarse risorse della Corona vennero destinate alla riorganizzazione militare.
Nel 1814 il primo atto di Vittorio Emanuele I fu l’istituzione dell’Arma dei Carabinieri, per garantire un ordine capillare nei suoi territori e per reprimere ogni forma di dissenso. I carabinieri dovevano saper leggere e scrivere, per essere in grado di riconoscere gli scritti di propaganda sovversiva.
Fin dal 1814 vigeva uno stretto regime poliziesco: per gli spostamenti interni, da una città all’altra del regno, bisognava munirsi di lasciapassare; chi era senza lavoro doveva iscriversi nelle liste di disoccupazione, presso i carabinieri, i quali attivavano una sorveglianza speciale sui disoccupati e sui vagabondi, considerati possibili soggetti sovversivi.
Poi Vittorio Emanuele I si dedicò con ostinazione a cancellare ogni traccia del regime francese.
Abolì tutte le leggi introdotte dopo il 1798, compresi i Codici Napoleonici, e ripristinò le Regie Costituzioni del 1723, ormai del tutto anacronistiche. Reintrodusse gli antichi privilegi nobiliari e anche la vecchia etichetta di corte, tant’è che i nobili dovettero tirar fuori dai bauli le parrucche incipriate.
Licenziò tutti i funzionari civili, reintegrando il personale che era in servizio nel 1798. Lo stesso Michele Benso, padre di Cavour, fu oggetto di questa epurazione. Abolì ogni forma di libertà, compresa la libertà di culto e riaprì il ghetto.
Mantenne soltanto due splendide opere dei francesi: il nuovo ponte in pietra sul Po a Torino e la strada del Moncenisio. In Torino mantenne anche la numerazione civica, perché facilitava il controllo di tutti coloro che abitavano in città.
In campo economico rinforzò le barriere doganali, dimostrando di essere insensibile alle esigenze dei suoi tempi. In sette anni la restaurazione di Vittorio Emanuele I bloccò lo sviluppo economico e sociale del Piemonte, provocando un diffuso malcontento, che sfociò nel Moti del 1821…
… quando studenti, borghesi e militari insorsero chiedendo la Costituzione e la guerra all’Austria.
La mentalità ultraconservatrice del re gli impediva anche solo di immaginare il passaggio ad una monarchia costituzionale. Perciò, di fronte alle richieste dei liberali di una Costituzione (il 13 marzo 1821) abdicò, e lasciò la patata bollente al fratello Carlo Felice.
Carlo Felice, essendo il quintogenito dei sei figli maschi di Vittorio Amedeo III (tre dei quali erano premorti), non ebbe mai l’ambizione di regnare. All’abdicazione di Vittorio Emanuele I si ritrovò re all’età di 56 anni, senza nessuna preparazione di governo.
Gli storici lo hanno descritto come persona di carattere chiuso, diffidente, vendicativo, inflessibile, suscettibile e impulsivo.
Durante il regno del fratello Vittorio Emanuele I, Carlo Felice fu viceré di Sardegna e – per combattere il brigantaggio nell’isola – instaurò un vero e proprio regime militare, con repressioni di estrema durezza. I sardi lo soprannominarono Carlo Feroce.
Appena salito al trono, dimostrò la sua inflessibilità con la repressione dei moti del 1821: vennero comminate agli insorti pene pesantissime, tra cui 71 condanne a morte. Per fortuna molti congiurati erano riusciti a fuggire all’estero e vissero in esilio.
Carlo Felice non amava Torino: riteneva i torinesi colpevoli di aver appoggiato prima Napoleone e poi i moti del 1821, per cui trascorreva poco tempo nella capitale. Preferiva abitare a Nizza, a Genova o in Savoia. Quando era in Piemonte risiedeva nel castello di Govone o in quello di Aglié.
Manifestò scarso interesse per la politica interna, che delegò in toto ad alcuni vecchi ministri. Massimo d’Azeglio affermava che a corte c’erano solo “quattro vecchi ciambellani e quattro vecchie dame d’onore … con un formicaio di frati, preti, monache e gesuiti”.
In politica estera coltivò una salda amicizia con gli Asburgo e in politica economica adottò un protezionismo molto rigido.
Dimostrò maggior interesse per le opere pubbliche e migliorò le vie di comunicazione interne con numerose infrastrutture. In Sardegna fece costruire la strada che ancora oggi porta il suo nome e che collega il nord col sud dell’isola. In Liguria collegò Genova a La Spezia e a Nizza con una comoda strada litoranea. A Nizza restaurò il porto. A Genova fece edificare il teatro chiamato Carlo Felice.
A Torino – pur abitandoci poco – apportò molte migliorie. Dove fino a vent’anni prima c’erano le porte della cinta muraria, fece realizzare grandi piazze d’accesso alla città. A nord sorse la grande piazza di Porta Palazzo (1825-1830), piazza che negli anni Trenta divenne l’area di un grande mercato. A sud progettò l’attuale piazza Carlo Felice e a est la Piazza Vittorio (1825). Mancava solo Piazza Statuto ad ovest, ma fino a metà Ottocento l’area di Porta Susa era occupata dagli spalti della Cittadella.
A Nord fece anche costruire il ponte Mosca in Borgo Dora, per facilitare l’accesso in città da Milano e da Casale. Si trattava dell’avveniristico ponte in pietra di Corso Giulio Cesare, progettato dall’architetto Carlo Mosca in un’unica campata.
Infine Carlo Felice è ricordato per aver istituito a Torino il Museo Egizio, nato nel 1824 dall’acquisto della collezione archeologica di Bernardino Drovetti.
Tutte queste opere crearono lavoro in tutto il regno e, in Torino, la popolazione aumentò sensibilmente: gli abitanti, che nel 1820 erano circa 90.000, nel 1830 risultavano 122.000 (con un aumento del 35%).
Carlo Felice morì nel 1831. Essendo l’ultimo dei fratelli Savoia e in mancanza di eredi maschi, il regno passò ai Savoia-Carignano.
Vediamo allora chi erano questi parenti dei Savoia. Il padre di Carlo Alberto, Carlo Emanuele di Savoia-Carignano, aveva simpatie liberali. Era un ufficiale dell’esercito francese e visse a Parigi fino al 1797. Dopo le prime vittorie di Bonaparte, durante le Campagne d’Italia, si stabilì a Torino e, nel 1798 a Palazzo Carignano nacque suo figlio Carlo Alberto.
La permanenza a Torino fu breve. Quando i Savoia lasciarono la città per la Sardegna, i francesi preferirono non avere in loco un loro parente, seppure di idee liberali, e invitarono la famiglia a tornare in Francia. Carlo Emanuele morì a Parigi nel 1800, a 30 anni, lasciando il figlio Carlo Alberto di 2 anni e una bimba di 6 mesi, Maria Elisabetta.
Carlo Alberto venne educato nell’ambiente culturale napoleonico, all’insegna delle idee illuministe. È cresciuto libero, senza inibizioni, senza una fede religiosa. A 16 anni era uno spilungone alto due metri, con un’istruzione un po’ rudimentale, che aspirava a diventare ufficiale dell’esercito francese, come il padre.
Ma il crollo dell’impero napoleonico cambiò i suoi piani. Sul trono di Francia tornò un Borbone, Luigi XVIII, fratello del re ghigliottinato. Per i Savoia-Carignano non tirava più una bella aria. Era meglio allontanarsi da Parigi.
Intanto il Congresso di Vienna aveva indicato Carlo Alberto come possibile erede al trono del Regno di Sardegna. I Savoia pretesero che il giovane venisse a Torino per educarlo alle future responsabilità di governo.
Quindi nel 1814 il ragazzo si stabilì a Palazzo Carignano. Qui cominciò la sua rieducazione e la sua vita cambiò radicalmente. Gli zii Savoia volevano trasformare questo ragazzo di idee libertarie in un reazionario inflessibile. Volevano convertire il giovane ateo in un cattolico convinto. Lo circondarono di precettori e cappellani, che lo indottrinavano e lo sorvegliavano continuamente. Le sue giornate erano scandite da preghiere, lezioni di morale, studio della Bibbia, con scarse frequentazioni esterne e nessuna vita mondana.
Una noia mortale!
La sua giovane personalità (non troppo salda di natura) venne annientata da questa forzata rieducazione e il principe ne ricavò una profonda insicurezza. Nella sua vita sarà sempre indeciso, oscillante tra scelte opposte e passerà alla storia come Re Tentenna e come Italo Amleto (come lo definì Carducci).
Nel 1817, a 19 anni, lo ammogliarono con Maria Teresa d’Asburgo-Lorena, ragazza timidissima e un po’ insulsa, religiosissima. Carlo Alberto, che era pur sempre un Savoia, in amore era focoso. La moglie apatica gli venne subito a noia. Allora portò la sua amante a palazzo Carignano, come dama della principessa consorte: si trattava della contessa Maria Antonietta di Robilant. Negli anni successivi ebbe poi molte relazioni amorose, ma Antonietta fu per lui l’amore della sua vita, come in seguito la Bella Rosina per suo figlio Vittorio Emanuele. Tuttavia, dato il suo carattere, i momenti di passione si alternavano a rimorsi e pentimenti. Anche in piena notte chiamava il cappellano per confessarsi. Arriverà addirittura a portare il cilicio per fare penitenza.
Veniamo ai fatti del 1821.
Durante i moti piemontesi, Carlo Alberto si trovò ad affrontare la scelta più difficile della sua vita. Quando Vittorio Emanuele I abdicò, il nuovo re Carlo Felice era a Modena e Carlo Alberto (23 anni) venne nominato reggente.
Nel clima teso di quei mesi dimostrò tutta la sua indecisione. Dapprima emersero le sue idee liberali giovanili e Carlo Albero diede il suo appoggio a Santorre di Santarosa e ai congiurati piemontesi, ma poi lo ritirò. In seguito, temendo un tumulto di popolo, concesse la Costituzione, ma lo zio da Modena la annullò. Carlo Alberto dovette lasciare Torino: i Savoia non si fidavano più di lui e i liberali lo consideravano un traditore.
Negli anni successivi visse a Firenze, ospite di suo suocero Ferdinando III Granduca di Toscana.
Dopo i fatti del 1821 accentuò la sua posizione conservatrice, per timore di compromettere la sua successione al trono, e poi – per mostrare a Carlo Felice il suo pentimento – nel 1823 partecipò alla repressione dei moti liberali spagnoli: è famoso il suo intervento nella Battaglia del Trocadero.
Lo zio Carlo Felice gli concesse il ritorno in Piemonte l’anno successivo, nel 1824. Il principe visse in quel periodo un po’ a Racconigi e un po’ a Palazzo Carignano a Torino. Tra le sue amicizie di quell’epoca ricordiamo Jean-Louis d’Auzèrs, zio di Camillo Cavour (marito della zia Enrichetta), che pensò bene di raccomandare il nipote quattordicenne come paggio di Carlo Alberto. Sappiamo che Camillo riteneva troppo servile il suo incarico e che le sue lamentele giunsero al principe, il quale lo licenziò. Questo episodio, seppur minimo, spiega la duratura antipatia reciproca tra Cavour e Carlo Alberto.
Ora veniamo agli anni del suo regno.
Mi scuso per questa lunga premessa, ma mi sembrava corretto tratteggiare la biografia di Carlo Alberto, per capire meglio l’operato di un sovrano un po’ controverso, ma che ha saputo tracciare la strada verso l’Unità d’Italia.
Carlo Alberto salì al trono, come abbiamo detto, nel 1831, anno che viene ricordato per i moti mazziniani. Un’ondata di tumulti sconvolse il Centro Italia: Modena (Ciro Menotti), Bologna, Parma, Roma…
Il nuovo re, fedele alla politica di Carlo Felice, iniziò il suo regno col pugno di ferro, rafforzando il regime poliziesco e rinnovando il patto difensivo con l’Austria. Temeva le azioni dei patrioti italiani, ma temeva anche una possibile invasione da parte della Francia, dal momento che – in seguito alla Rivoluzione di Luglio del 1830 - i francesi avevano cacciato i Borboni e avevano instaurato la monarchia costituzionale del re Luigi Filippo.
Carlo Alberto ebbe modo di dimostrare la sua inflessibilità quando Mazzini, con un centinaio di congiurati, tentò l’invasione della Savoia nel 1834. L’insurrezione fallì e la repressione fu pesante, con 26 condanne a morte e molte condanne al carcere duro o all’esilio. Tra i condannati a morte in contumacia c’era anche Garibaldi, che sfuggì all’arresto imbarcandosi per l’America del sud, dove visse fino al 1848.
Tuttavia Carlo Alberto era conscio che la società stava cambiando e che mutava l’equilibrio tra i ceti sociali. Capiva che servivano riforme economiche e sociali per ammodernare lo Stato. Cominciò ad introdurre alcuni timidi cambiamenti, adottando il motto “Conservare svecchiando”.
Negli anni Trenta istituì asili infantili e migliorò l’ospizio per i poveri. In campo culturale istituì la Pinacoteca Regia a Palazzo Madama (poi Galleria Sabauda). Rifondò l’Accademia delle Belle Arti, che in suo onore divenne Accademia Albertina.
Fece abbellire le piazze di Torino con monumenti notevoli come il Caval ‘d Bronz in piazza San Carlo e la colonna del Colera in via della Consolata. Prima di allora Torino non aveva monumenti pubblici; o meglio, l’unico era la Guglia Beccaria, nell’attuale piazza Statuto, eretto dal regime francese. Fu proprio Carlo Alberto a dare il via a questa pratica celebrativa dei monumenti nelle piazze.
A proposito di colera … il morbo circolò in l’Europa per un paio d’anni, poi nel 1835 giunse a Torino. Carlo Alberto nominò Vicario di polizia il marchese Michele Benso, che prese tutte le precauzioni per arginare l’epidemia. Tra le misure adottate per ridurre gli assembramenti, il Marchese di Cavour spostò il mercato delle Erbe dalla piccola piazza davanti al Municipio alla nuova grande piazza Emanuele Filiberto (oggi piazza della Repubblica).
Nel 1837 Carlo Alberto promulgò il Nuovo Codice Civile, che si ispirava in parte al Codice napoleonico, e nel 1839 emanò il Nuovo Codice Penale, limitando al massimo la pena di morte.
Intanto, nel primo decennio del suo regno, la sua salute peggiorava. Aveva frequenti attacchi di fegato e veniva sottoposto a continui salassi, che certamente non lo rinvigorivano. Era sempre più magro, chiuso in sé stesso, di umore cupo. D’altra parte a palazzo era circondato da una cinquantina di sacerdoti, cappellani, chierici, elemosinieri … Nessun dialogo con la moglie e con i figli. Si alzava all’alba, poi due messe al giorno, pochissimo cibo, e tante ore ininterrotte di lavoro, tutto immerso nelle sue buone intenzioni innovatrici.
Bisogna dire che, pur in questo clima cupo, appariva chiaro che il suo regno era molto diverso da quello di Carlo Felice. I suoi Stati diventavano sempre più progrediti e moderni.
All’inizio degli anni Quaranta i rapporti di Carlo Alberto con l’Austria erano ancora ottimi, tant’è che nel 1842 scelse come moglie per il suo primogenito, Vittorio Emanuele, la giovane Maria Adelaide, figlia di Ranieri d’Asburgo-Lorena, che era Viceré del Lombardo Veneto. (Maria Adelaide era cugina prima di Vittorio Emanuele, perché sua madre era Maria Elisabetta, sorella di Carlo Alberto). Alle nozze di Vittorio Emanuele era presente anche il maresciallo Radetzky, che nel 1820 aveva tenuto a battesimo lo sposo.
Ma negli anni successivi Carlo Alberto accentuò a poco a poco le sue aperture liberali, concedendo il suo assenso a nuove forme di associazionismo. In Torino fiorirono Associazioni culturali e artistiche, che divennero anche sede di ritrovi politici.
Nel 1841 Cavour fondò il Circolo del Whist e nel ’42 nacque la Società Promotrice delle Belle Arti. L’Accademia Filarmonica, che esisteva già dal 1814, si trasferì nel Palazzo Solaro del Borgo in Piazza San Carlo e divenne anch’essa luogo di incontro e discussione politica. Nel 1843 Carlo Alberto rifondò la settecentesca Società Agraria, alla quale riconobbe il titolo di Reale Accademia di Agricoltura. L’attività di questa Associazione fu preziosa per l’economia piemontese, perché faceva sperimentazione in campo agrario e forniva agli agricoltori insegnamenti pratici, finalizzati a migliorare le coltivazioni, stimolando l’utilizzo delle nuove tecniche e dei nuovi macchinari. Ad essa aderirono molti politici e possidenti terrieri come Camillo Cavour e Cesare Alfieri.
Infine nel 1847 nacque il Circolo degli Artisti, come luogo d’incontro di artisti, letterati e uomini di cultura. Anche questa Associazione vide la partecipazione dei personaggi più illustri di Torino: da Camillo Cavour a Massimo d’Azeglio, da Francesco Gonin a Rodolfo Morgari, … fino al principe Umberto di Savoia.
La maggior libertà d’espressione incoraggiò anche la nascita dei primi giornali. Uno dei primi fu “Il Risorgimento” di Camillo Cavour e Cesare Balbo. Il boom della stampa continuò poi negli anni Cinquanta.
Nel campo dell’istruzione nel 1847 sottrasse la scuola al monopolio del clero, istituendo il Ministero di Pubblica Istruzione, che affidò a Cesare Alfieri.
Carlo Alberto si occupò anche di infrastrutture per migliorare le comunicazioni all’interno del suo regno. Gli anni Quaranta videro la nascita del primo nucleo delle strade ferrate sabaude. I lavori per la ferrovia Torino-Genova iniziarono nel 1846 e la linea venne poi ultimata nel 1853.
Si preoccupò non solo di facilitare la circolazione delle merci, ma anche di agevolare il credito alle manifatture, al commercio e all’agricoltura. Con regie patenti nel 1846 autorizzò la nascita della Banca di Genova e nel 1847 della Banca di Torino (di cui era socio lo stesso Cavour). Nel 1849 i due istituti poi si fusero, dando vita alla Banca Nazionale del Regno Sardo.
Nel complesso l’operato di Carlo Alberto si può giudicare molto positivo. Il suo regno coincise con un periodo di crescita economica e di progresso sociale. Si affermò sempre più il nuovo ceto della borghesia e anche l’aristocrazia tendeva a trasformarsi in ceto produttivo.
La popolazione aumentò in tutto il regno. In particolare gli abitanti di Torino passarono dai 122.000 del 1830 ai 138.000 del 1849.
In politica estera assistiamo ad un cambiamento di rotta nella seconda metà degli anni Quaranta. I rapporti con l’Austria si fecero più tesi. Piemonte e Lombardia si facevano una concorrenza spietata a livello commerciale, in particolare per il rifornimento di sale ai Cantoni svizzeri e per il commercio dei vini. Aumentarono addirittura i dazi negli scambi tra le due regioni. Si arrivò persino alle rimostranze a livello diplomatico.
Forse a causa di queste continue frizioni, nella mente di Carlo Alberto si affacciò l’idea di una possibile guerra all’Austria, in vista di un’espansione territoriale. Quando nel 1846 venne eletto papa Pio IX, che esordì con l’amnistia per i prigionieri politici, le speranze dei patrioti si riaccesero in tutta la penisola e anche Carlo Alberto trovò il coraggio di evocare le sue idee giovanili. Sembrava prendere corpo la possibilità di unificare la penisola italiana in uno Stato federale sotto la guida del pontefice (questa era la teoria di Gioberti, conosciuta come Neoguelfismo).
Le aperture liberali di Pio IX e di Carlo Alberto aprirono la strada ad un progetto vagheggiato dalla borghesia imprenditoriale e commerciale: l’abbattimento delle barriere doganali. Qualche anno prima, nel 1839, la Confederazione Germanica, costituita da 39 Stati, aveva istituito l’Unione Doganale Tedesca, per abbattere i dazi interni e favorire la circolazione delle merci. Un’idea simile prese corpo anche in Italia. Pio IX, Carlo Alberto e Leopoldo II di Toscana avviarono il tentativo di abolire le barriere doganali tra i loro regni, per agevolare il commercio, creando un mercato più vasto. Il progetto era conosciuto col nome di Lega Doganale Italiana.
La Lega Doganale sarebbe stata il primo passo verso una integrazione economica, in vista dell’unificazione politica federale degli Stati aderenti. Ma il progetto della Lega Doganale Italiana (così come il neoguelfismo) fu presto superato dagli eventi del Quarantotto.
Alla fine del 1847 i liberali e il ceto medio premevano per ottenere una Monarchia Costituzionale. I progressi nel settore manifatturiero, commerciale e agricolo davano voce al ceto produttivo, che rivendicava un ruolo più attivo nel governo.
Carlo Alberto si rendeva conto che i tempi erano maturi per questa trasformazione. Il suo Consiglio di Stato, formato da 14 membri a nomina regia, non era in nessun modo rappresentativo delle nuove forze sociali. Tuttavia Carlo Alberto era refrattario alla parola “Costituzione”. Lo zio Carlo Felice gli aveva fatto giurare di non concedere mai la Costituzione. Ma alla fine del 1847, poiché persino i suoi ministri lo pressavano, Carlo Alberto non ebbe più la forza di resistere e decise di concedere lo Statuto. Nella sostanza tra Statuto e Costituzione c’è poca differenza, ma nella forma il re poteva affermare di non aver tradito la sua promessa.
Sicuramente Carlo Alberto concesse lo Statuto a malincuore, ma lo concesse lealmente, risoluto a mantener fede al patto.
In vista dello Statuto esisteva ancora un ostacolo da ripianare. Lo stato sabaudo era costituito dal Regno di Sardegna e dai cosiddetti Territori di terraferma, cioè dal Principato di Piemonte, dal Ducato di Savoia, dalla Contea di Nizza, dal Ducato di Aosta, dal Genevese (Ginevra e Annecy), dal Chiablese (a nord della Savoia, tra Francia e Svizzera), dai Marchesati di Saluzzo e Monferrato e dalla ex Repubblica di Genova. In ognuno di questi Stati, i Savoia erano di volta in volta, re, principi, duchi, marchesi, conti, …
In vista dell’introduzione dello Statuto era necessario unificare tutti gli stati sabaudi dal punto di vista politico e amministrativo, per poter istituire un unico parlamento, con uniche leggi valide in tutti i territori.
Nel mese di novembre del 1847 Carlo Albero realizzò la Fusione Perfetta unificando tutti i suoi Stati in un unico regno, chiamato Regno di Sardegna. I nuovi Codici Civile, Penale e Militare vennero estesi a tutto il Regno e il 4 marzo 1848 tutto era pronto per la firma dello Statuto.
Arriviamo allora al 1848, l’anno fatidico della Primavera dei Popoli. Tra gennaio e marzo tutta l’Europa era in ebollizione. Le insurrezioni dilagavano come una epidemia. Persino a Vienna il vecchio Metternich, già in carica ai tempi del Congresso di Vienna, dovette dimettersi e fuggire.
Nella penisola italiana sembrava prevalere ovunque la volontà di cacciare gli austriaci e imboccare la strada dell’unificazione. Quando anche Venezia e Milano insorsero, cacciando gli austriaci, a Carlo Alberto si presentò un’occasione imperdibile per espandere il suo regno, includendo la Lombardia.
Il sovrano esitava ancora e valutava i pro e i contro di una guerra all’Austria; poi, trascinato dai suoi stessi consiglieri, accelerò la mobilitazione e la concentrazione dell’esercito sul confine orientale.
Il 23 marzo 1848 varcò il Ticino e iniziò la prima guerra d’indipendenza.
Tralascio qui la descrizione della prima guerra d’indipendenza (argomento ampio, che meriterebbe una serata ad hoc).
Voglio invece accennare ai cambiamenti essenziali introdotti dallo Statuto.
Lo Statuto Fondamentale della monarchia sabauda introduceva un nuovo ordinamento sociale e realizzava la separazione dei poteri. Con lo Statuto, la Corona veniva affiancata da due Camere con cui il sovrano divideva i poteri dello stato. Lo Statuto quindi attribuiva il potere esecutivo al re, che lo esercitava attraverso i ministri di sua nomina; il potere legislativo andava al Senato (di nomina regia, con carica vitalizia), alla Camera dei Deputati (eletti con suffragio ristretto in base al censo) e al re, che manteneva il diritto di veto sulle leggi varate dal Parlamento. Il potere giudiziario alla magistratura, costituita da giudici nominati dal re.
Lo Statuto, come è evidente, riservava ancora ampi poteri al sovrano costituzionale, ma rappresentò un cambiamento sostanziale rispetto alla monarchia assoluta.
Ma la differenza effettiva tra Statuto e Costituzione consiste nel fatto che lo Statuto impone al re la condivisione dei suoi poteri; la Costituzione invece impone una vera separazione dei poteri. Oggi il Presidente della Repubblica non può mettere il veto alle leggi del Parlamento.
Lo Statuto sanciva anche l’eguaglianza di tutti i “regnicoli” e riconosceva loro uguali diritti civili, politici e militari: come la libertà individuale, la libertà di stampa e di riunione, la libertà di culto. Con lo statuto arrivò quindi l’emancipazione dei valdesi e degli ebrei; per questi ultimi decadde l’obbligo di abitare nel ghetto.
In seguito ai moti del ’48 molti sovrani in Italia e in Europa si videro costretti dagli eventi a concedere la Costituzione, (In Italia lo avevano già fatto Ferdinando II di Borbone e Leopoldo II di Toscana. E subito dopo Carlo Alberto anche Pio IX concesse lo Statuto. Venne emanata la Costituzione anche in Austria, in Prussia, in Belgio e nei Paesi Bassi,) ma – come vedremo – furono tutte Costituzioni effimere, che durarono pochi mesi. L’unica eccezione fu proprio lo Statuto Albertino.
Il 27 aprile 1848 nel Regno di Sardegna si svolsero le prime elezioni politiche. Votò, su base censitaria, meno del 2% della popolazione. Poi il re nominò i senatori. Il giorno 8 maggio 1848 venne inaugurato il primo Parlamento Subalpino. A palazzo Madama venne allestita la Camera del Senato, mentre la Camera dei Deputati trovò sede a Palazzo Carignano, nel salone che un tempo fungeva da sala delle feste dei Savoia-Carignano (il palazzo apparteneva al demanio dal 1831).
Sui banchi dei deputati sedevano rappresentati giunti da tutti i collegi del regno; in maggioranza erano persone di tendenza moderata, ma c’era anche una frangia democratica.
La Prima Legislatura del Regno di Sardegna non ebbe vita facile. Solo nel 1848 si alternarono ben cinque governi (quello di Cesare Balbo, di Gabrio Casati, di Cesare Alfieri, di Ettore Perrone di San Martino e di Vincenzo Gioberti). Il rodaggio del nuovo sistema costituzionale avvenne in un periodo difficilissimo: quello della prima guerra d’indipendenza.
Nel 1849, il 21 febbraio, il generale Agostino Chiodo sostituì Gioberti in un nuovo governo e fu anche Ministro della Guerra quando maturò la ripresa delle ostilità contro l’Austria.
Ma del ’49 parleremo tra poco.
Vorrei ancora accennare ad una novità legata all’adozione dello Statuto Albertino: la nomina dei Consiglieri Comunali. Mi rifarò in particolare a Torino.
Il Consiglio Comunale pre-statuto era costituito da 62 decurioni con carica vitalizia, i quali ogni anno designavano per chiamata, con beneplacito del re, nuovi decurioni per sostituire quelli deceduti. I decurioni poi nominavano al loro interno 2 sindaci e sceglievano 24 colleghi per costituire il Consiglio Ristretto, cioè la Giunta. Questo sistema restò in vigore con pochi cambiamenti dal 1563 al 1848.
Con lo Statuto anche la carica di Consigliere Comunale divenne elettiva. Le prime elezioni comunali si svolsero il 7 novembre 1848. L’elettorato era composto da maschi maggiori di 21 anni, appartenenti a classi facoltose, ma comprendeva anche il ceto medio: negozianti, artigiani, impiegati, accademici, militari …
Il nuovo ordinamento comunale prevedeva 80 consiglieri, in carica per 5 anni, al cui interno il re avrebbe scelto il sindaco. L’elezione comunale del 1848 fu caotica. Ogni elettore poteva dare fino a 80 preferenze, per cui la compilazione della scheda elettorale creò gran confusione e fu difficile interpretare l’assegnazione dei voti. Dieci anni dopo, forse per semplificare, i consiglieri comunali furono portati a 60. La Sala Rossa ancora oggi ha 60 posti, anche se i Consiglieri Comunali oggi sono solo più 40.
Il primo Consiglio Comunale eletto si insediò il 1° gennaio 1849. Comprendeva una quarantina di neofiti della politica e gli aristocratici passarono dall’80% al 28%. Tra gli eletti comunque figurarono personaggi illustri come Camillo Cavour, Roberto d’Azeglio, Pietro di Santarosa, Cesare Balbo, Cesare Alfieri, Vincenzo Gioberti, Carlo Mosca, Luigi Cibrario … per nominarne alcuni.
Carlo Alberto nominò Sindaco l’avvocato Luigi De Margherita, che rinunciò all’incarico dopo soli 3 mesi per assumere quello di Ministro di Grazia e Giustizia. Venne sostituito da Carlo Pinchia, che a tutti gli effetti è considerato il primo Sindaco di Torino.
Questa dunque era la situazione di Torino nel 1848. Il Piemonte all’epoca era costituito da 4 province: Torino, Cuneo, Alessandria e Novara. Aosta si trovava in provincia di Torino; diventerà provincia a sé nel 1927, insieme a Vercelli. La provincia di Asti è del 1935, mentre Biella e Verbano-Cusio-Ossola risalgono al 1992.
In questa relazione, volutamente, non ho fatto cenno agli eventi del ’48, tema che abbiamo già trattato l’anno scorso. Tuttavia, poiché quest’anno ricorre il 175° anniversario dei fatti del 1849, voglio accennare ai primissimi passi del regno di Vittorio Emanuele II.
La sera del 23 marzo 1849, dopo la tragica sconfitta di Novara, Carlo Alberto abdicò in favore del figlio primogenito, il quale a 24 anni dovette affrontare una situazione disastrosa.
Nell’immediato si trovò a gestire un armistizio non facile con l’Austria. Il 24 marzo in una cascina vicino a Novara, a Vignale, il giovane re si incontrò col suo padrino, l’82enne maresciallo Radetzky. Le condizioni poste dal vecchio maresciallo si limitarono a una richiesta di 200 milioni come indennizzo di guerra e alla decisione di tenere un presidio austriaco nella fortezza di Alessandria fino alla firma della pace. Poteva andare peggio.
Vittorio Emanuele II rientrò a Torino in un clima cupo. La sconfitta subita a Novara impedì ai suoi sudditi di festeggiare il nuovo re. Inoltre la situazione era difficile anche a livello parlamentare, perché molti deputati erano contrari a firmare la pace con l’impero asburgico. Come primo atto il re sciolse le Camere, ma le nuove elezioni portarono in Parlamento molti deputati democratici, che ancora si opponevano alla pace.
Il 6 agosto 1849 Il re firmò ugualmente la Pace di Milano, perché lo Statuto gli attribuiva il potere di sottoscrivere trattati internazionali. Ma serviva comunque l’approvazione del Parlamento.
Vittorio Emanuele sciolse ancora una volta le Camere e, simultaneamente, rivolse agli elettori un discorso – scritto dal Primo Ministro Massimo d’Azeglio – conosciuto come “Proclama di Moncalieri” (perché venne emanato dal castello di Moncalieri).
Con questo proclama il re invitava gli elettori a mandare in Parlamento deputati moderati, disposti ad approvare il Trattato di Pace di Milano. Il suo appello andò a buon fine. La nuova Camera dei Deputati approvò a maggioranza dei 2/3 il trattato con l’Austria.
Ma la cosa più importante del Proclama di Moncalieri fu che Vittorio Emanuele confermò la sua ferma volontà di mantenere lo Statuto Albertino. Il Proclama è del 20 novembre 1849, quando già in Italia e in Europa la Primavera dei Popoli era stata soffocata nel sangue e tutti i sovrani avevano ritirato le Costituzioni del ’48.
Il Regno di Sardegna fu l’unico stato a mantenere lo Statuto e questo gesto cambiò la storia, indirizzandola verso l’epilogo dell’Unità d’Italia. Nel decennio successivo, anche grazie alla politica di Camillo Cavour, Casa Savoia diventerà capofila del processo di unificazione italiana.
Santena, 20 marzo 2024
Bibliografia
Gianni Oliva, I Savoia, edizione A. Mondadori, 1998
Silvio Bertoldi, Il re che tentò di fare l’Italia. Vita di Carlo Alberto di Savoia, Rizzoli editore, 2000
Silvio Bertoldi, Il re che fece l’Italia, Rizzoli editore, 2002 (N.D.R. Vittorio Emanuele II)