Incontri Cavouriani

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Il concetto di Patria in Cavour


Tratto dal secondo capitolo della tesi di laurea “La comunicazione politica italiana ottocentesca. Il caso di Camillo Benso conte di Cavour

di Manuela Garassino

Indice degli argomenti:

Il Conte di Cavour: Patria, lingua e lessico - Il legame tra lingua e Nazione

La lingua preunitaria

Il sentimento patriottico in Cavour

Il rapporto con la lingua italiana

Esempi di scritti Cavouriani

Note

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IL CONTE DI CAVOUR: PATRIA, LINGUA E LESSICO

IL LEGAME TRA LINGUA E NAZIONE

Nel corso dell’Ottocento il nesso tra lingua e principio di nazionalità diventa sempre più stretto ed è un dato riconosciuto sia da studiosi di storia sia da studiosi di letteratura. L’idea di nazione sorge con il diffondersi del Romanticismo, in particolare con il Romanticismo tedesco, il movimento artistico, musicale, culturale e letterario che nasce alla fine del XVIII secolo e si espande poi in tutta Europa soprattutto nel secolo successivo. (1)

L’imporsi del senso di “nazione” è un particolare aspetto del movimento culturale sopracitato, il quale rivendica l’individualità di ogni comunità, il senso della singolarità di ogni popolo, il rispetto per le proprie tradizioni. Tutto ciò porta alle prime forme di riflessione sul rapporto lingua- nazione: la lingua viene riconosciuta come il fondamento spirituale della nazione e il contrassegno della sua individualità storico-culturale. (2) Una figura autorevole che incarna questo nuovo ideale è quella di Johann Gottfried Herder, filosofo, teologo e letterato tedesco di fine settecento, il quale sostiene che la lingua sia il modo attraverso il quale un popolo esprime il proprio modo di pensare e di sentire, un concetto di grande importanza perché sottolinea come l’uso comune di un idioma sia un modo per distinguere un popolo da un altro. (3) Da queste premesse derivano importanti considerazioni: si pensi solo al concetto della poesia popolare, espressione diretta, immediata e spontanea dell’anima di un popolo. (4) Un’altra rilevante considerazione è l’idea, propriamente politica, attraverso la quale la nazione rappresenta un aspetto speciale di un imponente movimento di pensiero che tutto abbraccia, dalla poesia e dall’arte del linguaggio, alle dottrine filosofiche, alla politica. Il legame di nazione e di lingua è dunque da considerarsi anche causa ed effetto di tutta una serie di rivolgimenti storici che hanno segnato l’età moderna, in Europa come in Italia. (5) Non da solo ovviamente ma assieme ad altri fattori.

Dall'inizio del XIX secolo in tutto l’occidente europeo il principio di identità nazionale, ossia il senso di appartenenza ad un determinato gruppo che condivide idee e ideali, diviene lo stimolo dominante della vita politica. L’aderire ad una stessa tradizione linguistica acquista valore politico come indice e simbolo di unità. In Italia, già prima del Risorgimento, è ben presente l’idea che la lingua sia simbolo di unione: una lingua comune – si dice – può creare una migliore comunicazione tra soggetti di diversa provenienza. (6)

Tutto ciò agisce sulla storia linguistica concorrendo all’eliminazione dell’uso del latino medievale, creando le premesse e il bisogno di un tipo linguistico unitario, all’interno dei confini di ciascun stato. (7) E’ così che a poco a poco il latino viene marginalizzato e sostituito dalle rispettive lingue nazionali (in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Germania e, naturalmente, in Italia) negli atti ufficiali e nelle scuole; questo processo viene rafforzato anche attraverso appositi editti statuali (8).

Anche nella penisola italiana, che giunge tardivamente ad un'organizzazione unitaria, la rivendicazione della lingua nazionale come modalità di espressione genuina e autentica svolge un suo ruolo (9). Già nella costituzione democratica bolognese del 1796 non soltanto viene ribadita la bellezza dell'italiano, ma addirittura quest'ultimo viene elevato al rango di lingua ufficiale, per cui è indispensabile che tutti gli atti giudiziari e tutti gli strumenti vengano scritti in tale lingua, non diversamente dal codice civile e criminale (10). Con il Romanticismo si diffonde l’aspirazione a far della nazione la base della vita politica, riconoscendo nel paese l’esistenza di caratteristiche proprie necessarie per costituire uno stato indipendente caratterizzato da individualità storica, proprie peculiarità non soltanto etniche ma anche di tradizione e di pensiero. (11) A partire dall'inizio del XIX secolo si afferma l'idea della speciale bellezza e attrattiva della parola italiana; scrittori francesi e inglesi del periodo ne lodano la particolare sonorità, brillantezza, armonia, bellezza e musicalità (12).

I teorici italiani sostenitori dell’idea “una lingua - una nazione”, nel corso dell’Ottocento si moltiplicano. Vale la pena menzionare Pasquale Stanislao Mancini (13), avvocato, giurista e politico dell’epoca, il quale spiega il concetto di nazione come “fondamento del diritto delle genti” ossia il diritto che regola i rapporti tra le nazioni. Per Mancini la nazione non è stata creata su un patto tra uomini; essa esiste da sempre anche solo nella coscienza umana e, per poter vivere come entità, ha bisogno di una struttura, di leggi, di governo e di poter agire come un corpo politico.

Anche secondo Giuseppe Mazzini (14), tra i contrassegni culturali più elevati di una nazionalità, vi è senz'altro la lingua (15).

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LA LINGUA PREUNITARIA

Non va dimenticato nel ragionare di queste connessioni, quanto fosse limitato l’uso di una lingua unica nella penisola. Molto a lungo la lingua italiana, unica tra quelle nazionali dell’Europa moderna, ha vissuto e circolato soltanto o quasi come lingua di dotti” (16); sono solo cerchie ristrette di uomini di cultura ad utilizzarlo, soprattutto, nelle occasioni solenni (discorsi ufficiali, politici ed ecclesiastici, ecc.), oltre che nella produzione letteraria, poetica e prosastica. Risulta essere prevalente l'utilizzo dei dialetti, peraltro non privi di una loro tendenza all’evoluzione, in concomitanza con gli sviluppi storici e sociali del Paese (17). Pertanto, ad un uso ristretto della lingua nazionale, si contrappone il ricorso costante ai dialetti (18) i quali vengono utilizzati non soltanto dai popolani, come è intuitivo, ma anche dai ceti colti, ovviamente al di fuori delle occasioni ufficiali. L’uso diffuso e naturale del dialetto da parte della maggior parte della popolazione fa si che questo goda di “piena dignità sociale” (19).

Particolarmente significativa è la situazione del Piemonte: anche in questa regione ci si esprime ordinariamente in dialetto, lo si utilizza nei salotti di aristocratici e borghesi e non di rado fa la sua apparizione persino nelle arringhe degli avvocati e nelle pronunce dei tribunali (20). Che il dialetto sia di uso comune in tutti gli ambienti aristocratici è confermato dal fatto che persino a corte lo si utilizza comunemente. Lo stesso re Vittorio Emanuele, nelle riunioni con i suoi ministri, lo impiega largamente: si tratta di una abitudine durevole ed ancora testimoniata, nel corso degli anni, dai colloqui tra il monarca e il ministro delle finanze Quintino Sella, in occasione dell’avvenuta liberazione di Roma (21). Celebre, l’aneddoto che vuole Vittorio Emanuele, aver detto – entrando a Roma: “Finalment i suma!” (finalmente siamo arrivati!) (22).

A ciò si aggiunga il fatto che l’uso dell’italiano, anche presso i ceti colti e le classi dirigenti è in chiara concorrenza con l’uso diffusissimo, della lingua francese.

Ancora nei decenni immediatamente successivi all’unità, si può parlare di un primato dell’italiano tutto culturale e politico, ma privo di corrispondenze sul piano della lingua parlata; il paradosso di una lingua celebrata, ma non usata e, per così dire “straniera in patria” (23).

Tornando al tema che qui interessa, l'uso della lingua italiana da parte di Cavour e, in generale, nella comunicazione politica e istituzionale ottocentesca, occorre osservare come “nelle vallate alpine il confine linguistico tra dialetti italoromanzi (liguri e piemontesi) e galloromanzi (provenzali e francoprovenzali) sia straordinariamente frastagliato e non segua né i confini geografici né i confini politici" (24). Sul versante italiano delle Alpi, infatti, sono presenti il francoprovenzale e il provenzale fin da epoche remote, e alquanto antico è anche l'impiego, nelle vallate alpine e in tutto il Piemonte, del francese come lingua di cultura. Le origini storiche di questo fenomeno sono da ricondursi alla persistenza, in Italia, "di antichissime delimitazioni etniche. (25)

La dominazione francese finisce tuttavia in qualche modo con il promuovere la cultura italiana, lingua compresa. Con un decreto del 1809, Napoleone, consente l’uso dell’italiano in Toscana, accanto al francese, negli atti amministrativi; nel 1811, egli ripristina l’Accademia della Crusca come istituzione autonoma, di fatto soppressa dall’ancién regime, alla quale conferisce l’incarico di rivedere il dizionario della lingua italiana e di conservarne la purezza. Istituisce, inoltre, un premio in denaro per gli scrittori le cui opere avessero contribuito a salvaguardare l’integrità di tale lingua (26) L'impronta della dominazione francese conduce a due risultati fondamentali: lo sviluppo dell'istruzione elementare, grazie alla quale iniziano a diffondersi le scuole pubbliche, obbligatorie, gratuite e aperte a tutti, e la nascita del giornalismo politico. La nuova legislazione nel campo dell'istruzione pubblica, però, si interrompe bruscamente con la Restaurazione, quando la scuola ritorna sotto il controllo della Chiesa, la quale sostiene che il monopolio educativo doveva essere posto sotto la sua sorveglianza, diffidando dell'insegnamento organizzato dallo Stato.

Nel primo Ottocento i vari territori della penisola sono caratterizzati da profonde differenze culturali e linguistiche; il numero di coloro che sono in grado di parlare italiano è molto basso in quanto circa l’80% della popolazione è analfabeta, non tutto il restante 20% è in grado di servirsi dell’italiano e tra gli alfabeti sono compresi anche quelli che conoscono superficialmente la lingua orale ma non sanno ancora scrivere. (27) Anche in campo lessicografico si confermano profonde differenze nonostante la diffusione di vocabolari utili alla crescita dell’istruzione. Tra questi si possono ricordare alcuni importanti dizionari, prodotti tra il 1830 e il 1842, come il “Vocabolario della lingua italiana” di Giuseppe Manuzzi (28), il “Vocabolario universale italiano” stampato dalla tipografia Tramater di Napoli, il quale si distingue dagli altri per la particolare attenzione alle voci tecniche e il “Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana” di Niccolò Tommaseo (29). In ogni caso, per raggiungere una padronanza accettabile della lingua occorre la frequenza scolastica che risulta essere ancora bassa.

Inoltre, il funzionamento dell'istruzione è alquanto farraginoso perché gli insegnanti scarseggiano e di conseguenza l'orario delle lezioni è molto ridotto. Per un'ora al giorno le famiglie non vedono l'utilità di mandare i figli a scuola, preferendo indirizzarli a lavorare. Tuttavia, l'esigenza dell'istruzione popolare si fa strada nonostante le difficoltà, in tutti gli stati preunitari: nel 1819 si diffondono le scuole cosiddette di mutuo insegnamento, o insegnamento reciproco, le quali consistono nell'insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto ad un gruppo di studenti, generalmente quelli più capaci, che a loro volta impartiscono le nozioni ad altri allievi. Questo metodo viene applicato per far fronte al grande numero di alunni affidati ad un singolo insegnante e anche per sviluppare la solidarietà e la cooperazione tra gli studenti. (30)

Il bilinguismo, costituito da italiano e dialetto continua a convivere. Importante è la riconferma formale avvenuta con lo statuto Albertino del 1848, ove particolarmente rilevante – per il nostro argomento – è l'art. 62, che recita quanto segue: "La lingua italiana è la lingua ufficiale delle Camere. È però facoltativo di servirsi della francese ai membri che appartengono ai Paesi in cui questa è in uso, o in risposta ai medesimi" (31). È degno di nota che tale disposizione sia seguita da una serie di leggi piemontesi prima e italiane poi (dopo l’unificazione e la creazione del Regno d’Italia). Anche la legge Casati sulla Pubblica Istruzione, 13 novembre 1859, n. 3725 negli articoli dedicati all'insegnamento dell'italiano e del francese, contiene disposizioni conformi. In particolare, l'art. 374 recita: "Nei comuni dove si parla la lingua francese, essa verrà insegnata in vece dell'italiano" (32).

Quanto al giornalismo di tipo politico, portato anch'esso dai francesi, si può affermare che lo stesso nasce dalla diffusione della stampa periodica, nonostante la ferrea censura. Tra i fattori che limitano la circolazione della stampa vanno anche ricordati la scarsa acculturazione delle masse e il tipo di linguaggio utilizzato, spesso difficilmente comprensibile. In Piemonte, ad esempio, la censura interviene pesantemente su un testo, eliminando le parole considerate “compromettenti”, come “interessi politici” sostituiti da “interessi civili”. (33)

Coerentemente con questo quadro generale anche Cavour ha un particolare e non facile rapporto con l'uso dell'italiano. Egli lo conquisterà progressivamente solo in età adulta, dopo averlo praticato come se fosse una lingua straniera.

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IL SENTIMENTO PATRIOTTICO IN CAVOUR

L'interrogativo che ci si pone è “come si forma nel giovane Camillo Benso il sentimento di patria?”. Gli studiosi che hanno esaminato la formazione e la giovinezza del conte, sono portati ad evidenziare l'influsso profondo del già ricordato barone Severino Cassio, nei confronti del quale Cavour contrae anche un importante debito in termini di formazione intellettuale e politica in generale. (34) L'amicizia tra i due, nata durante gli anni dell'accademia militare, si mantiene anche dopo e a lui Cavour è solito rivolgersi altresì per ottenere indicazioni e suggerimenti in fatto di studi.

Fino alla metà degli anni Trenta dell'Ottocento, i riferimenti di Cavour all'indipendenza nazionale sono frequenti ma la sua è un'idea di tipo culturale e non politica; vede la penisola italiana come un luogo infelice, desolato, oppresso civilmente e religiosamente. Essa deve essere affrancata da questa situazione, deve diventare un faro di civiltà e libertà. Questo sentimento di tipo nazionale si ritrova in una lettera indirizzata all’amico William Brockedon, pittore, scrittore e inventore britannico, che opera a lungo in Italia e che con la sua pittura aveva illustrato i passi alpini del bel Paese:

“Mentre tutta l'Europa marcia con passo fermo sulla via progressiva, l'infelice Italia è sempre curva sotto lo stesso regime d'oppressione civile e religiosa. Compatite coloro i quali, avendo l'animo atto a sviluppare i generosi principi della civiltà, sono ridotti a contemplare la loro patria dalle baionette austriache.” (35)

La lettera è datata 2 dicembre 1830 e Cavour la scrive da Genova ai tempi in cui è stato assegnato alla direzione del Genio militare. La città ligure, in quel periodo, è ricca di fermenti giovanili aperti alle nuove idee politiche. Le letture che hanno forgiato in lui il sentimento politico e patriottico non derivano dalla letteratura classica ma scaturiscono dalle idee liberali dei grandi pensatori europei dell'epoca, ad esempio Benjamin Constant. (36)

È fondamentale precisare che l’universo al quale Cavour fa riferimento quando esprime le proprie idee di libertà e indipendenza, non è rappresentato dall’intera penisola ma dal Piemonte. (37)

Il regno sabaudo è stato per lungo tempo il centro e il fondamento della visione politica di Cavour. Su questo punto, la sua opposizione nei confronti dei movimenti rivoluzionari democratici e repubblicani non poteva essere più netta: questi ultimi, infatti, - si pensi anzitutto a Mazzini - ponevano come premessa, come centro e fine rivoluzionario della propria azione politica l’unificazione, oltre che l’ordinamento repubblicano dell’Italia. Cavour, invece, fu a lungo indotto a considerare questi movimenti esclusivamente in subordine alla volontà espansionistica sabauda. Né può passare sotto silenzio – ed è parte integrante di un patriottismo che, per lungo tempo, fece coincidere il suo ideale con i confini geografici sabaudi – che lo stesso Mezzogiorno rimase a lungo marginale se non addirittura estraneo rispetto all’intuizione politica originaria di Cavour. Si può sostenere, infatti, che il sud Italia diviene parte integrante della volontà unificatrice di Cavour soprattutto a causa del succedersi di una serie di eventi che, concatenandosi l’un l’altro, finiscono per sottrarsi al suo controllo e costituire una potenziale minaccia.

Negli anni in cui egli scrive sul “Risorgimento” mostra un’attenzione crescente per il movimento patriottico che mobilita la penisola nel 1848. L'interesse nei confronti dei moti, che da diverse parti d'Italia domandano a gran voce l'unificazione è in qualche modo subordinato ad una visione in cui il regno sabaudo rappresenta il centro degli interessi di Camillo Benso. (38) La nazione, evocata più volte negli articoli è intesa come Piemonte; un assetto della penisola implicante l’unione dei vari stati presenti è per lui ancora lontana. La sua idea di patria è dunque legata principalmente al regno sabaudo e alle opportunità che lo scenario europeo può offrire a questo piccolo Stato per ottenere vantaggi territoriali ai danni dell'Austria; tutto ciò non deve essere il risultato di una guerra ma piuttosto dovrebbe provenire da un “inorientamento dell'Austria”.

Quest'ultimo concetto deriva dalla condivisione delle idee già espresse da Cesare Balbo (39): l'Austria avrebbe dovuto abbandonare i possessi italiani, definiti un peso morto, per volgere il proprio interesse e le proprie energie verso oriente. Cavour si stava dunque muovendo attraverso l'idea di dar vita ad un Regno dell'Alta Italia. In questa maniera, però, il concetto di nazione resta ancora relegato al mondo settentrionale; solo più tardi – sulla scia dei nuovi fatti che scuoteranno la vita politica della penisola – inizierà un processo di ripensamento. (40)

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IL RAPPORTO CON LA LINGUA ITALIANA

Come già osservato, per il conte di Cavour non è affatto naturale parlare e scrivere in italiano. È il francese la lingua ufficiale parlata dagli aristocratici; viene poi utilizzato il dialetto piemontese ma non l’italiano che rimane per lo più una lingua scolastica praticabile in poche occasioni. Sullo studio di tale lingua, Cavour è costretto a tornare negli anni della vita parlamentare, senza mai giungere, peraltro, ad acquisirne un sicuro dominio (41). La scarsa padronanza dell’italiano può essere collegata, almeno in parte, a quelle che sono le sue attitudini. Sappiamo, infatti, che egli ha interesse in particolar modo per la matematica e l’economia politica, innanzitutto, oltre che per la storia e, in generale, per le scienze politiche e morali; tutto ciò che attiene alla lingua e alla letteratura per lui è d’interesse secondario. L’italiano rimane, quindi, in una sorta di posizione di limbo. Perché ciò accade? Perché egli non giunge mai ad impadronirsi perfettamente dell’italiano? Verosimilmente, oltre che per l’influenza degli usi e dei costumi della nobiltà piemontese del tempo, è ipotizzabile che Cavour non avvertisse la necessità di apprendere un qualcosa che non reputasse utile: ai suoi obiettivi sono già rispondenti il francese e il piemontese. Infanzia e adolescenza non favoriscono un interesse per la lingua e non ne incoraggiano al tempo stesso l’apprendimento e la pratica.

Inoltre, alcuni studiosi hanno evidenziato come, all’accademia militare che Cavour frequenta, i programmi scolastici fossero alquanto modesti, con la sola significativa eccezione delle scienze matematiche (42). Certamente gli allievi studiavano da subito grammatica italiana, latino e francese; tuttavia, il loro effettivo progresso in tali discipline non era mai considerato come centrale da parte dei docenti, a loro volta concentrati fondamentalmente sulla formazione dei loro giovani allievi unicamente in campo militare. Ne scaturì una sostanziale sottovalutazione degli uni come degli altri: allievi e docenti.

Sono tematiche che vari autori dell’epoca hanno posto in risalto; ricordiamo, tra essi, Luigi Chiala (43), il quale, avendo attentamente studiato l’Accademia militare di Torino nel periodo anteriore al 1870, osserva come “nell’istruzione dataci all’Accademia la parte letteraria era affatto insufficiente e che le lezioni di lingua e letteratura francese (…) e quelle di lettere italiane (…) non bastarono certo a far diventare valenti scrittori nemmeno quelli che, come Camillo Cavour, erano dotati di attitudini particolari per ogni cosa” (44).

L’Accademia, dunque, pur introducendo l’italiano nel novero delle materie di insegnamento, non irrobustisce la preparazione degli allievi. L’ordinamento statutario dell’Accademia prescrive che l’italiano sia la lingua d’uso ma gli scambi tra gli allievi avvengono sempre in piemontese o in francese. Il dialetto piemontese viene usato sistematicamente anche da studenti provenienti dalle più varie realtà linguistiche: da savoiardi, sardi, nizzardi, genovesi e novaresi (45).

La lontananza di Cavour dalla lingua italiana non è dunque questione che riguarda solo il suo ambito familiare e culturale. Solo successivamente, come risulta da una missiva ad un cugino del 1843, si rammarica di aver compreso tardi l’importanza dell’educazione letteraria per la formazione intellettuale di una persona – e naturalmente lo esprime in francese, riferendosi a sé stesso -: “Faire de l’étude des lettres la base de tout l’éducation intellectuelle” (46). La lettera anzidetta assume verosimilmente un significato più ampio di quello letterale: Cavour, molto probabilmente, non sostiene soltanto che qualsiasi formazione scientifica e tecnica deve essere preceduta da un’educazione letteraria e linguistica, ma intende affermare che, per gli italiani la formazione e l’educazione linguistico-letteraria in italiano è semplicemente imprescindibile e rappresenta anzi il presupposto di ogni ulteriore formazione e cultura. (47)

Con il trascorrere del tempo, in Cavour finisce però per prevalere il linguaggio dell'uomo d'affari: in campo finanziario, agricolo, ferroviario e commerciale fino ad arrivare alla politica, nondimeno inizia ad esprimersi in italiano pur mantenendo un'ortografia approssimativa e un'italianizzazione dei termini dialettali. (48)

Ciò è dovuto anche al diffondersi dell'uso della lingua unitaria tra gruppi. A questo proposito è interessante riportare un aneddoto: durante il congresso annuale del 1844 dell'Associazione agraria, di cui Cavour ne fu uno dei fondatori, quando il conte di Salmour propone ai soci di utilizzare il dialetto per comunicare tra i presenti la maggioranza si oppone argomentando come segue:

“……non convenire ad una così numerosa e scelta adunanza un uso qualunque che possa condurre all'abbandono della lingua italiana, patrimonio e vincolo di tutti gli abitanti d'Italia, doversene anche con ogni sforzo, anche all'Associazione agraria a cui sono ammessi gl'Italiani tutti senza distinzione di sorta, mantenere ed estendere l'uso.” (49)

Nel 1847 nasce il quotidiano “Risorgimento”, fondato da Cavour e Cesare Balbo, in cui il conte compone il suo primo articolo in lingua italiana, con l’aiuto decisivo di Balbo. Gli articoli pubblicati sul quotidiano incarnano la visione del suo liberalismo e analizzano gli interessi politici ed economici delle potenze estere. Questa analisi è condotta con molta sicurezza, frutto della profonda preparazione culturale che ha conseguito negli anni tra studi e viaggi. I temi affrontati nei vari articoli si riveleranno utili negli anni successivi in quanto verranno inseriti nei discorsi tenuti alla Camera riguardo la politica estera.

Compone anche tre saggi nei quali esprime la sua maturità di pensatore politico: “Considerations sur l'état actuel de l'Irlande et sur son avenir”, “Des chemins de fers en Italie” e “L'influenza che la nuova politica commerciale inglese deve esercitare sul mondo economico e sull'Italia in particolare”.

Il primo riscuote un buon successo tra i lettori; il secondo racchiude la prospettiva di una futura penisola italiana il cui sviluppo è legato principalmente alla nuova rete ferroviaria. Tutti e due sono stati composti a Ginevra e chiaramente in lingua francese. Il terzo articolo, scritto nel 1847, è invece, redatto in italiano incontrando non poche difficoltà lessicali. (50)

Lo ricorda bene Giuseppe Torelli, collaboratore di spicco de “Il Risorgimento” che definisce come segue il rapporto di Cavour con la lingua:

“Essendogli poco famigliare la lingua italiana, avveniva talvolta che la forma plastica dei suoi scritti non corrispondesse al loro valore metafisico. In quei casi abbandonava la forma a noi, commettendoci di curarla, se la giudicavamo ammalata. Fra il fondo e la forma il conte di Cavour non si da va nemmeno la pena di scegliere. Nel suo cervello il concetto formavasi rapidamente completo e netto come un sillogismo, e naturalmente doveva esprimerlo nella lingua in cui il suo cervello era stato educato a pensare: allora la forma era degna del fondo. La dinamica mentale che gli era necessaria per esprimere lo stesso concetto in una lingua nella quale non l'aveva formato, gli riusciva incresciosa e malagevole. Si ebbero con lui frequenti dispute intorno alla questione della forma che egli dapprima considerava siccome un affare meccanico, un mestiere da tornitore, e il suo culto pel fondo divenne meno esclusivo. E non andò guari che il Cavour diventò abile e destro anche nel mestiere di tornitore, e con meravigliosa rapidità imparò la lingua della nazione che era chiamato a fare.” (51)

Grazie all’esperienza giornalistica ed alla tempistica del mezzo, l’efficacia espressiva di Cavour in italiano ne esce rafforzata e migliorata. Successivamente, con l'ingresso nel mondo politico, la scrittura burocratica e professionale gioca un ruolo importante nella definizione delle strutture linguistiche possedute e adoperate da Cavour. Il linguaggio amministrativo rappresenta l'unico modello alternativo alla lingua formale e questo settore proprio dell'Ottocento si avvia a diventare la nuova voce dello stato unitario. (52)

Cavour, a dispetto delle iniziali difficoltà, giunge quindi a imparare l'italiano e a padroneggiarlo con una certa proprietà, sfruttando abilmente anche elementi assai innovativi nel quadro del sistema linguistico. Nella conversazione tra parlamentari, egli risulta ancora impacciato, come testimonia anche Angelo Brofferio, politico a capo dell'opposizione.

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ESEMPI DI SCRITTI CAVOURIANI

Come già precedentemente accennato, la mole di materiale prodotta dal conte è molto ampia: lettere, appunti vari, diari, componimenti, articoli stilati durante la breve carriera giornalistica, discorsi pronunciati ai banchetti o nell’aula del Parlamento subalpino prima e nazionale poi. L'epistolario viene definito uno dei capolavori involontari della letteratura italiana ottocentesca, per la maggior parte è composto da scritti in lingua francese. È un capolavoro “involontario” in quanto non è un libro ma è un'opera costruita a posteriori, dopo la morte del conte, grazie ad una minuziosa ricostruzione da parte di storici e archivisti. (53) L’analisi dell'epistolario di Cavour conferma quanto già osservato sull’uso vacillante della lingua italiana, sull’impiego del francese e del dialetto che però rimane confinato in ambito agricolo (54).

Ad incoraggiarlo nello studio della lingua italiana è l'amico Cassio con il quale Cavour studia anche l'inglese. L’amico, consapevole delle difficoltà, lo incoraggia a perseguire l'obiettivo. (55) Cassio manifesta anche il suo apprezzamento per il metodo di studio scelto che parte dal latino per arrivare all'italiano e ritiene che il latino sia uno strumento utile per risalire alle radici delle parole. (56)

Un documento ritenuto importante ma scritto in francese è l’opuscolo redatto nel 1834 nel quale Cavour analizza il problema del pauperismo inglese. Tale componimento attira l'attenzione di Cesare Balbo, il quale riserva al libretto una recensione elogiativa che compare nella “Gazzetta Piemontese”: “…una vera e distinta facoltà di pensare e scrivere, annunciano al paese uno scrittore in più, e uno scrittore serio, sodo, non di materie leggere od oziose, uno scrittore utile e quali li debbe desiderare e desidera il paese”. Così scrive Balbo, e aggiunge: “Ci duole che il libretto sia molto ben scritto in francese, in vece d’essere scritto bene, od anche, se mai, mediocremente, in italiano.” (57)

Segue un accorato appello all’autore a voler avvalersi di una lingua che stava abbandonando gli arcaismi e il vecchio convincimento alfierano, secondo cui l’aver scritto e letto molto francese nuocesse allo scrivere bene l’italiano e a voler essere uno scrittore in più in Italia e non in Francia dove abbondano. Camillo Benso risponde a Balbo che il documento è redatto in francese perché è l’unica lingua che padroneggia e riconosce che “la langue italienne est restée jusqu'à présent tout à fait étrangère”, ma si propone di recuperare il tempo perduto e “d'acquérir les moyens de rendre en italien ses idées, et le résultat de ses travaux”; buoni propositi ma espressi in francese. Inevitabili anche in altri scritti, come ad esempio in una lettera inviata a Salmour, l'uso di piemontesismi spontanei, legati a realtà locali come “broppe pali” (piantare tutte le broppe di salice). (58)

Al 1830 risale una lettera in italiano, indirizzata al prelato Antonio Tosti, incaricato d'affari della Santa Sede a Torino fino al 1829, nella quale si individuano chiaramente alcune significative imperfezioni:

“Monsignore,

Quantunque dal momento che ha lasciato Torino non abbia mai osato indirizzarmi direttamente a lei, per impedire che perdesse ogni memoria d'una persona per cui è stato così buono, pure ho sempre nudrito il vivo desiderio di fargli sapere quali erano per lei i miei sentimenti di riconoscenza e di divozione, ma nissuna occasione s'era finora presentata. Sempre sentivo a dire “Monsignor Tosti è continuamente lavorando, non ha pace tutta la cristianità posa sulle sue spalle”. Sarei stato dunque ben ardito di derubargli qualche prezioso momento per dirgli che avevo paura che mi dimenticasse, o credesse che avessi perduta la memoria delle sue infinite gentilezze. (…) Un mio intimo amico Mr Huber Saladin di Ginevra va a Roma per la sua sanità. (…) sicuramente parleremo ben spesso di lei (...)” (59).

Nella lettera, dal punto di vista della sintassi, si nota l'uso brillante del galateo epistolare ma Cavour incappa in un errore caratteristico di chi abbia scarsa dimestichezza con l'italiano formale: la confusione tra i pronomi gli e le (“fargli sapere” e “derubargli”); questo sarà un errore che si trascinerà anche negli anni in cui sarà al governo del Regno.

È possibile citare un altro esempio di missiva espressa in italiano, dove al posto dei francesismi si notano inserimenti di carattere dialettale o comunque in uso nella regione piemontese. Si tratta di un documento indirizzato al proprietario agricolo, Lorenzo Salino, su questioni di diritto privato, redatta nel 1837:

“Ill.mo Signor Pad. Col.mo,

Avendo letto attentamente la copia della citatoria che il marchese di San Giorgio ha intimato alla S.V. Ill.ma, ed esaminati tutti i titoli posseduti dall'antica società di Lucedio relativi alla goldita delle acque provenienti dalla roggia di Bianzé, come pure l'istromento di divisione passato fra i membri di detta società, sono rimasto pienamente convinto che le proposizioni che ho avuto l'onore di trasmettergli nell'ultimo mio foglio (…).” (60)

I termini “goldita” (godimento) e “roggia” (canale artificiale) fanno parte del dialetto piemontese; da notare nuovamente “trasmettergli” anziché “trasmetterle”. (61)

Altro componimento significativo è il necrologio in ricordo di Anna Giustiniani nel 1841; si tratta di una ulteriore testimonianza in lingua italiana nel quale Cavour rende omaggio alla memoria della compagna più influente della sua gioventù. Lo scritto, pur essendo creato con una piena autonomia e dignità espressiva, manifesta esplicitamente la consapevolezza di Cavour nei confronti del problema linguistico. (62)

Anche dall’analisi condotta sui suoi diari emerge un continuo passaggio da una lingua all’altra. Degno di nota un appunto trascritto da Cavour nel 1831, ma risalente al 1821, in cui una appassionante considerazione patriottica viene espressa in italiano: “E cinque giorni dopo ad onta dei suoi juri Carlo Alberto s'en fuggia ad implorare perdono da quei che aveva giurati combattere, ch'egli pagava col tradire quei stessi che per la maggior parte strascinati aveva sull'orlo del terribile precipizio cui non havean più mezzi di sfuggire” (63) Questa annotazione è riferita al “Giuramento di Carlo Alberto” ed è particolare l'uso che il conte fa di termini italiani con toni altisonanti.

Successivamente il lessico italiano si evolve in lessico politico, il quale è in continuità con il profondo rinnovamento dell'epoca. (64)

Cavour, negli anni della politica, diventa un abile scrivente, non tanto dal punto di vista grammaticale perché avrà sempre necessità di aiuto da parte dei suoi collaboratori, ma dal punto di vista strategico: in una lettera inviata a Nigra si trova uno sfruttamento consapevole e ricercato della ripetizione del pronome a fini retorici: “Rassicuri l'Imperatore sul conto di Garibaldi. Egli venne, non richiesto, a mettersi a nostra disposizione, non adesso ma sino dal 1856. Egli fece le piu (sic) esplicite dichiarazioni, assunse gli impegni i piu (sic) precisi.” (65)

Non mancano, dunque, nella sua produzione occasioni nelle quali Cavour ricorra alla lingua italiana. Trascrive poesie e prose di autori classici che non di rado offrono testimonianza di libertà e riscossa contro l’oppressore (trascriveva, infatti, Alfieri, Manzoni, Machiavelli, ecc.). Anche la liberazione della Grecia, per la quale persero la vita tanti giovani liberali italiani ed europei, ispira a Cavour una poesia in italiano “Il leone acheo si scosse” (66).

Lettere bilingue si ritrovano in relazione agli accordi di Plombières, destinate al suo collaboratore Costantino Nigra (67).

In conclusione, si osserva che il percorso linguistico di Cavour, parte dall'incertezza dei primi passi compiuti in un ambiente francofono e dialettofono, caratterizzato da diverse tappe che confermano la sostanziale difficoltà del conte a rapportarsi con l’idioma del Paese di cui diverrà Primo Ministro, fino ad arrivare alla conquista di un italiano che testimonia il senso di una scelta politica perseguita con tenacia e grande determinazione.

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NOTE

1 F. Chabod, L’idea di nazione, Roma-Bari, Laterza, 2019, p. 17.

2 Ivi.

3 Ivi, p. 22, 23.

4 Cfr., sul concetto di poesia popolare in rapporto al Romanticismo il classico volume di B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari, Laterza 1946; anche, A. Rigoli, La poesia popolare italiana. Tipologie e forme, Milano, Garzanti, 1991, M. Barbi, Poesia popolare italiana. Studi e proposte, Firenze, Sansoni, 1974, p. 116 e ss.

5 F. Chabod, L’idea di nazione, cit. p. 47.

6 T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 3 e ss.

7 Ivi, p. 273.

8 A. Dauzat, L'Europe linguistique, Parigi, PUF, 1993, p. 139 e ss.

9 E. Sestan, Stato e nazione nell'alto medioevo. Ricerche sulle origini nazionali in Francia, Italia, Germania, Napoli, Ricciardi, 1982, p. 32 e ss.

10 Cfr. D. Bertoni-Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino, Utet, 1979, p. 58 e ss.

11 F. Chabod, L'idea di nazione, cit., p. 23.

12 Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, cit., p. 276,277.

13 Su Pasquale Stanislao Mancini, cfr. la voce in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 68, 2007.

14 Su Giuseppe Mazzini, cfr. la voce di Giuseppe Monsagrati, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 72, 2008.

15 Vedasi sulla questione linguistica in Mazzini, S. Mastellone, Mazzini e gli scrittori politici europei (1837-1857), Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2005, p. 177 ss.

16 T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, cit., p. 27.

17 B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani, 1994, p. 106 ss.

18 T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, cit., p. 31,32.

19 Ivi, p. 32.

20 S. Lanuzza, Storia della lingua italiana, Roma, Newton Compton, 1994, p. 106.

21 F. Chabod, La politica estera italiana dal 1870 al 1896, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 326.

22 T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, cit., p. 33.

23 Ivi, p. 14.

24 Ivi, p. 286. Cfr. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine. Introduzione alla filologia romanza, Bologna, Patron, 1989, p. 358 e ss.

25 Ivi.

26 L. Serianni, Storia dell’italiano nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2013, p.20.

27 C. Marazzini, La lingua italiana, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 288 e ss.

28 Su Giuseppe Manuzzi, cfr. la voce di Antonio Carrannante, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 69, 2007.

29 Su Niccolò Tommaseo, cfr. la voce di Gabriele Scalessa, in Dizionario Biografico degli italiani, volume 96, 2019.

30 Ivi, p. 27 e ss.

31 T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, cit., p. 286.

32 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia (1849-1948), cit., p. 316 e ss.

33 L. Serianni, Storia dell'italiano nell'Ottocento, cit., p.43,44.

34 A. Viarengo, La formazione intellettuale di Cavour, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 119 e ss.

35 A. Viarengo, Cavour, cit., p. 43.

36 Ivi, p.43 e ss.

37 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 458 e ss.

38 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, cit., p. 243.

39 Su Cesare Balbo, cfr. la voce di Ettore Passerin d'Entréves, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 5, 1963, consultabile all'indirizzo.

40 U. Levra, Cavour, l'Italia e l'Europa, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 150 e ss.

41 R. Romeo, Vita di Cavour, cit., p. 12.

42 G. Falco, Cavour accademista, in Pagine sparse di storie di vita, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, p. 207 e ss.

43 Su Luigi Chiala, cfr. la voce di Maria Fubini Leuzzi, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 24, 1980.

44 F. I. Koban, Cavour e l’italiano. Analisi linguistica dell’epistolario, Firenze, ETS, 2017, p. 18.

45 R. Romeo, Cavour ed il suo tempo, cit., p. 205 e ss.

46 Ivi, p. 195.

47 Ivi, p. 181.

48 A. Viarengo, Camillo Benso di Cavour autoritratto, Milano, Mondadori, 2010, p. 29,31.

49 Ivi, p. 315, 316.

50 A. Viarengo, Camillo Benso di Cavour autoritratto, cit., p. 36,37.

51 M. Marazzi, “Le roi cachè” lo scrittoio di Cavour, Firenze, L. S. Olschki, 2004, p. 138.

52 Ivi, p. 311 e ss.

53 M. Marazzi, Le Roi caché Lo scrittoio di Cavour, cit., p. 1.

54 A. Viarengo, Camillo Benso di Cavour autoritratto, cit., p. XXVIII.

55 D. Berti, Il conte di Cavour avanti il 1848, Roma, Voghera, 1886, p. 237.

56 F.I. Koban, Cavour e l’italiano. Analisi linguistica dell’epistolario, cit., p. 26.

57 A. Viarengo, Cavour, cit., p. 68.

58 L. Serianni, Per l'Italiano di ieri e di oggi, Bologna, Il Mulino, 2018, p. 744.

59 Ivi, p. 748.

60 Ivi, p.748,749.

61 Ivi.

62 M. Marazzi, Le roi caché lo scrittoio di Cavour, cit., p. 137.

63 F.I. Koban, Cavour e l’italiano. Analisi linguistica dell’epistolario, cit., p. 23.

64 Ivi, p. 279.

65 Ivi, p. 312.

66 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, cit., p. 123.

67 F.I. Koban, Cavour e l’italiano. Analisi linguistica dell’epistolario, cit., p. 40.