Incontri Cavouriani

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Isacco Artom, il segretario del “Gran Rabbino di Leri” Camillo Cavour


di Gino Anchisi

Un Ebreo riporta la Corona Ferrea in Italia ma il merito non gli viene riconosciuto. Circolano troppi pregiudizi sulla storia dell’Unità d’Italia. Il Risorgimento è stato tutt’altro che un movimento elitario, ma un moto popolare con protagoniste persone delle nuove categorie produttive emergenti. Note di storia patria scritte da un dilettante.

Isacco e Camillo

Camillo Cavour è il principale protagonista della scena europea nel periodo che va dalla rivoluzione del 1848 al 1861. Un lasso di tempo di soli 12 anni, in cui ad una velocità stratosferica, si sostanziò la nascita di un nuovo stato nel cuore dell’Europa e del Mediterraneo. Accanto a lui nel Biennio, cosiddetto dell’Unificazione (1859-1861), c’era Isacco Artom. In quei due anni Camillo e Isacco presero decisioni e realizzarono azioni che trasformeranno completamente il contesto italiano, europeo e mediterraneo. I due erano uniti dalla consapevolezza che l’Unità italiana si poteva ottenere grazie ad una solida politica estera. E infatti, il processo che culminerà nell’Unità d’Italia è una rivoluzione favorita dalle grandi potenze antagoniste dell’Impero Asburgico.

Camillo e Isacco hanno vissuto insieme il tratto finale di una corsa pazzesca prendendo azzardi assistiti dalla fortuna e sorretti dalle loro straordinarie capacità. Vedevano e volevano un’Italia ricongiunta all’Europa occidentale in tutti i campi: tecnologici, infrastrutturali, finanziari, agrari, politici e istituzionali. Nonostante Isacco sia stato uno dei protagonisti dell’impresa è stato spesso messo da parte perché ebreo e perché laico.

Celibe, mingherlino, segaligno, la testa piccola, Isacco non era bello, ma possedeva un certo fascino. Aveva uno sguardo attento, l’occhio vivido e buono. Di solida cultura, schietto, era straordinariamente modesto. Un borghese che ben se la intendeva con un nobile, ma imprenditore, qual era Camillo Cavour. Entrambi, insieme a tanti artigiani, commercianti, operai, agricoltori, avvocati, giornalisti, osti, tessitori, impresari facevano parte di quell’aristocrazia del lavoro che trasformò il sistema sociale della Penisola inserendola nel contesto europeo.

Isacco assunse l’importante e delicato ufficio di segretario particolare di Cavour nel novembre 1858, sostituendo l’amico Costantino Nigra, inviato in missione diplomatica a Parigi.

La scelta fu rapida. Cavour lo fece convocare nel suo studio d’era presente il Generale e Ministro Giuseppe Dabormida. Gli chiese di stendere rapidamente una nota e di tradurre dal tedesco, in dieci minuti, un articolo piuttosto lungo di giornale. Terminata la prova, Cavour gli batté la mano sulla spalla e lo congedò dicendo: “Bravo, giovanotto, venga domattina da me, sarà avvisata questa sera dell’ora”. Isacco diventava il navigatore di un’auto da rally lanciata, a tutta velocità, guidata da Camillo Cavour, lungo un percorso di soli 22 mesi che va dal 26 aprile 1859 al 17 marzo 1861. In pochi giorni entrò in una dimensione di lavoro che abbracciava il quadro politico europeo e mondiale ormai in pieno subbuglio.

A luglio, in gran segreto a Plombières-les-Bains Napoleone III e Camillo Cavour avevano fatto il Patto per muovere la guerra all’Austria e per una nuova spartizione dell’Italia. Un accordo che si realizzerà solo in parte. Nizza e Savoia saranno cedute alla Francia. L’Austria sarà sconfitta. Ma il disegno di sostituire nella Penisola gli Asburgici con i Francesi non decollò perché ormai la spinta all’Indipendenza si univa a quella dell’Unificazione, grazie anche all’iniziativa della Gran Bretagna. Un processo inarrestabile di cui Cavour era consapevole, che Napoleone III dovette accettare, mentre Vittorio Emanuele II stentò a comprenderlo. La lite nella tenda di Monzambano e le dimissioni di Cavour da Primo Ministro furono la logica conseguenza di questa divergenza di vedute.

Isacco, l’Ebreo, figlio di Raffaele e di Benedetta Segre, era nato nella contrada di San Bernardino, in una casa in fronte alla Sinagoga di Asti, il 31 dicembre 1829. Successivamente la famiglia si trasferì in via Aliberti. Fece le elementari a Vercelli, il ginnasio e il liceo a Milano, poi iniziò l’Università a Pisa che però interruppe frettolosamente. Finalmente si laureò in diritto pubblico all’Università di Torino nel 1853. Gli Artom erano una famiglia di scienziati, diplomatici, bottegai, giuristi, economisti. Oltre alla casa di Asti possedevano, nella borgata San Carlo, frazione di Variglie Basse, del Comune di Asti, la villa il Chiossetto, circondata da cascine e posta di fronte al Castello di Bellangero di San Marzanotto.

Camillo, nato il 10 agosto 1810 a Torino, nel 1829 aveva 19 anni ed era ufficiale del Genio militare. Un ufficiale frustrato, depresso dal clima noioso e reazionario della Restaurazione. Nel 1831 Camillo aveva lasciato l’esercito e aveva intrapreso una brillante carriera di agronomo, agricoltore, allevatore, viticoltore. Tra gli altri impegni, fino al 1840, soggiornava a Bellangero, una tenuta di proprietà degli zii in linea materna: Enrichetta de Sellon e Luigi d’Auzers. Da lì scrisse nel 1819 la famosa lettera al padre Michele nella quale si menzionavano le solide relazioni con gli Alfieri di Sostegno di San Martino sul Tanaro, oggi San Martino Alfieri, e, tramite essi, con il Principe del Chiablese, il futuro Re Carlo Felice.

Tra le residenze degli Artom e del D’Auzers, nella valle, scorre il Tanaro. Il fiume che separa le terre gastronomiche ed enologiche delle Langhe-Monferrato-Roero. Terre con le quali Santena, il centro direzionale delle aziende agricole dei Benso, intratteneva forti relazioni grazie all’attività e alla aristocrazia contadina formata da validi collaboratori: i Bosco, i Tosco e altri.

Per la cronaca va detto che lo Statuto Albertino era ancora di là a venire. Gli Ebrei non erano ancora considerati fratelli maggiori dei Cattolici, ma deicidi da chiudere nei ghetti. Non potevano frequentare l’Università di Torino, né fare carriera nell’esercito.

E poi scoppiò il Quarantotto.

La Rivoluzione investi tutta l’Europa ed entrò in tutte le case, compresa quella degli Artom. A diciotto anni, senza avvertire la famiglia, insieme ai colleghi studenti dell’Università di Pisa, Isacco si arruolò tra i volontari di Curtatone e Montanara. Voleva combattere contro gli occupanti austriaci. Studiava in Toscana, rifugio di Vittorio Alfieri e riferimento culturale-linguistico di Alessandro Manzoni, perché l’Università di Torino allora era preclusa agli Ebrei.

Seppur giovanissimo era già un uomo del Risorgimento, pronto a pagare di persona il proprio impegno. Giunto nei luoghi di combattimento, lo scontro avvenne il 29 maggio, purtroppo o per fortuna stette male e cadde svenuto. Il fisico non reggeva la tensione. Dovette lasciare il fronte e rientrare in famiglia.

Peggiore sorte toccò ai Cavour.

In quegli stessi giorni a Goito, il 31 maggio, moriva sul campo di battaglia Augusto Benso, nipote ed erede di Camillo. Augusto (1828-1848) voleva a tutti i costi combattere in prima linea contro gli austriaci. Aveva lasciato perdere gli esami da ufficiale del Genio Militare per arruolarsi come volontario. Di mezzo ci fu lo zampino dello Zio, intervenuto su sua sollecitazione, con una potente raccomandazione indirizzata direttamente al Primo Ministro, Cesare Balbo, suo amico, collega e socio in affari. La lettera era chiara “Carissimo, il mio nipote a nome degli ufficiali della Brigata delle Guardie desidererebbe esporvi l’ardente desiderio di essere mandati dei primi alla frontiera. Ascoltatelo benignamente, e degnatevi prendere in considerazione questa domanda di un corpo altre volte privilegiato, ma che ora non chiede che altro favore che di combattere nelle prime file per la causa dell’indipendenza italiana. Addio, non più collega carissimo, ma presidente rispettatissimo”. La lettera è databile tra il 16 e il 25 marzo. Augusto fu inquadrato come Sottotenente nel Reggimento Granatieri della Brigata Guardie e avviato al fronte, il 31 marzo 1848, due giorni dopo che l’esercito aveva “varcato il Ticino”. La “raccomandazione” era andata a buon fine. Per questo Cavour si sentì in colpa per tutti i giorni che gli rimasero da vivere.

Quel lutto fu un’ulteriore molla che lo spinse a entrare in politica. Cavour era un riformista, voleva la Costituzione a garanzia delle istituzioni e della libertà delle persone. La pensava diversamente dai movimentisti. Non voleva la guardia civile. La sua politica era alternativa a quella di Giuseppe Mazzini. Cavour aveva visitato e studiato i sistemi sociali, economici ed istituzionali di Francia, Inghilterra, Irlanda, Belgio, Lombardo-Veneto e Trieste. Grazie a Tocqueville, conosceva bene e scriveva con competenza articoli sugli Stati Uniti e sull’influenza che essi esercitavano nel contesto mondiale. Era un affermato imprenditore impegnato nel sociale, agricoltura, chimica, ferrovie, battelli a vapore. Era membro dell’Associazione Agraria, moderna palestra politica, in cui era entrato al fianco dell’astigiano Cesare Alfieri di Sostegno, l’uomo che lo introdurrà nella grande scena politica. Nel 1847 aveva fondato un giornale “Il Risorgimento”, organo del partito dell’opinione riformatrice.

Sul primo numero pubblicò il 15 dicembre 1847 quello che si può considerare il manifesto del riformismo italiano uscito più di due mesi prima del “Manifesto del Partito Comunista” di Carlo Marx e Federico Engels, pubblicato a Londra il 21 febbraio 1848.

Influenza delle riforme sulle condizioni economiche dell'Italia.

La nuova vita pubblica che si va rapidamente dilatando in tutte le parti d'Italia, non può non esercitare un'influenza grandissima sulle sue condizioni materiali. Il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico. Un popolo governato da un benefico Principe che progredisce nelle vie della civiltà, deve di necessità progredire in ricchezza, in potenza materiale. Le condizioni dei due progressi sono identiche. Le virtù cittadine, le provvide leggi che tutelano del pari ogni diritto, i buoni ordinamenti politici, indispensabili al miglioramento delle condizioni morali di una nazione, sono pure le cause precipue de' suoi progressi economici.
Là dove non è vita pubblica, dove il sentimento nazionale è fiacco, non sarà mai industria potente. Una nazione tenuta bambina d'intelletto, cui ogni azione politica è vietata, ogni novità fatta sospetta e ciecamente contrastata, non può giungere ad alto segno di ricchezza e di potenza, quand'anche le sue leggi fossero buone, paternamente regolata la sua amministrazione.
La storia degli ultimi tre secoli, come anche lo stato presente delle nazioni europee, porgono molte ed incontrastabili prove di questa grande verità.
In tutti i paesi dove dal cadere degli ordini feudali non vi furono progressi politici, o l'industria non sorse, o languì appena sorta, e non di rado indietreggiò. In quelli le cui sorti politiche andarono migliorando, in cui la nazione fu chiamata a partecipare dell'opera governativa, l'industria crebbe di continuo; in alcuni ingigantì a segno da riempiere il mondo delle sue meraviglie. Infatti si paragoni la Spagna coll'Inghilterra. Sul principio del secolo scorso, la prima, già declinante da oltre cent'anni, pareggiava tuttavia la seconda in ricchezze ed in potere. Se più energicamente operoso era il popolo britannico, più esteso, più ricco era l'ispano, più numerose e fiorenti erano le colonie che esso aveva fondate nelle quattro parti del mondo. Entrambi, dopo il trattato d'Utrecht, godettero di pace interna non interrotta, e se furono turbati da guerre estere, soggiacquero egualmente a varia fortuna. Se gloriosa e proficua per l'Inghilterra fu la guerra dei sette anni, retta dall'ingegno potente di lord Chatham, disastrosa tornò per essa quella dell'indipendenza americana. Eppure sul finire del secolo decimottavo la condizione economica relativa delle due contrade era intieramente mutata. Mentre l'impero britannico, dove largo era stato il viver pubblico, dove gli ordinamenti politici erano andati di continuo progredendo, trovavasi cresciuto d'industria, di ricchezze, di forze a tal segno da poter resistere quasi solo alla furia della rivoluzione francese ed alla soverchiante potenza di Napoleone; la Spagna di rincontro, ad onta dei non ancora diminuiti suoi Stati, ad onta dell'indole energica de' suoi abitanti, ad onta delle ricchezze naturali del proprio suolo e di quelle che le sue colonie le fornivano in copia, era, per colpa di un governo nemico acerrimo delle novità, caduta si basso da non poter più esercitare sulle cose d'Europa la menoma influenza.
Dalla storia delle altre nazioni civili si potrebbero desumere nuovi argomenti al nostro assunto: restringendoci tuttavia all'Italia, faremo notare che se fra i vari Stati che la compongono, il Piemonte andò quasi sempre distinto per i suoi progressi economici, questo si debbe massimamente al savio e mite governo de' suoi principi, i quali, secondando lo spirito dei tempi, seppero introdurre nello Stato opportuni cambiamenti; si debbe all'aver avuto nel decimottavo secolo, come nel decimonono, due principi entrambi riformatori; si fu perché il gran re Carlo III apparecchiò le vie dell'opera riformatrice al magnanimo Carlo Alberto.
Le condizioni economiche di un popolo sono favorevoli quant'è possibile, sempreché il moto progressivo si operi in modo ordinato. Tuttavia l'industria per isvolgersi e prosperare abbisogna a segno tale di libertà, che non dubitiamo affermare essere i suoi progressi più universali e più rapidi in uno Stato, inquieto si, ma dotato di soda libertà, che in uno tranquillo, ma vivente sotto il peso di un sistema di compressione e di regresso. Così la Spagna, ad onta delle guerre civili, degli sconvolgimenti politici, dei disordini amministrativi, che la travagliano da quasi vent'anni, ha progredito assai più dal lato economico in questo periodo di tempo, che non avesse fatto durante i regni pacifici e quieti dei successori di Filippo II e dei re della stirpe borbonica. Ond'è che i moti violenti sono stati meno funesti all'industria ispana, che la calma dell'oscurantismo. Essa crebbe in mezzo alle tempeste civili, giacque prostrata sotto il tranquillo dominio di un despotismo avverso ad ogni cambiamento.
Pienamente convinti di queste verità, proclamiamo con franchezza essere il risorgimento politico italiano, che si celebra con fratellevole entusiasmo in Romagna, in Toscana ed in Piemonte, segno indubitabile di un'era novella per l'industria ed il commercio della nostra patria.
Noi abbiamo fede intera nelle sorti future dell'industria italiana; non tanto per le benefiche riforme operate dai principi nostri, non tanto per quella massima della lega doganale, per le condizioni interne ed esterne dell'Italia avviantesi a rapidi miglioramenti; ma principalmente perché confidiamo veder ridestarsi nei nostri concittadini, animati da generoso e concorde spirito, chiamati a nuova vita politica, quell'ingegno, quell'operosità, quell'energia, che fecero i loro maggiori illustri, potenti e ricchi nei tempi di mezzo, quando le fabbriche fiorentine e lombarde, quando i navigli di Genova e Venezia non avevano rivali in Europa. Si, abbiamo fede nell'ingegno, nell'energia, nell'operosità italiana, più atti a far progredire il commercio e l'industria che non le protezioni eccessive e gl'ingiusti privilegi.
Questo giornale s'adoprerà con ogni suo potere a spingere e propagare questo moto di risorgimento economico. Ricercherà i fatti che possono essere utili al commercio ed all'industria agricola e fabbrile. S'applicherà a diffondere le buone dottrine economiche, combattendo le false, figlie d'antichi pregiudizi, o pretesto a particolari interessi. Avrà cura di svolgere ogni questione che, direttamente od indirettamente, si riferisca alla produzione ed alla distribuzione delle ricchezze.

Il giornale non dubiterà di dichiararsi apertamente per la libertà dei cambi; ma cercherà di muovere prudente nella via di libertà; adoprandosi acciò la transizione si effettui gradatamente e senza gravi perturbazioni. Epperò, se darà quanto può efficace cooperazione, affinché, tolta ogni dogana interna italiana, costituiscasi l'unità economica della penisola; consiglierà dall'altro lato un procedere continuo, ma energicamente moderato nelle riforme dei dazi che gravano i prodotti esteri.
Prevedendo che a poco a poco l'adito dei nostri mercati dovrà farsi libero alla concorrenza forestiera, sarà debito del giornale il ricercare i mezzi più acconci per combatterla e vincerla. Ond'è che si farà a promuovere le istituzioni di credito, le scuole professionali, le onorificenze industriali; mezzi, che, adoperati accortamente, daranno un rapido sviluppo ai vari rami d'industria che mirabilmente si confanno alle condizioni dell'Italia, che fra breve forse l'innalzeranno a prender posto fra le prime potenze economiche del mondo.
Ma l'aumento dei prodotti nazionali non sarà il solo scopo economico che il giornale prenderà di mira: esso metterà eguale o maggior cura nella ricerca delle cause che influiscono sul benessere di quella parte della società, che più direttamente contribuisce a creare la pubblica ricchezza: la classe degli operai. Gli è perciò che tutti coloro che intrapresero volonterosi la pubblicazione di questo foglio, unanimemente dichiarano che non avrebbero per buono, per veramente utile al paese alcuno aumento di ricchezze, se ai benefici di esso non partecipassero coloro che vi ebbero parte, la massima parte, gli operai. L'edificio industriale che per ogni dove s'innalza, è giunto e giungerà ancora a tale altezza da minacciare rovine e spaventose catastrofi, se non se ne afforzano le fondamenta, se non si collega più strettamente colle le altre parti di esso, la base principale su cui poggia la classe operante col renderla più morale, più religiosa; col procacciarle istruzione più larga, vivere più agiato.
Pronti a combattere tutto ciò che potrebbe sconvolgere l'ordine sociale, dichiariamo però considerare come stretto dovere della società il consacrare parte delle ricchezze che si vanno accumulando col progredire del tempo al miglioramento delle condizioni materiali e morali delle classi inferiori.
L'Inghilterra, quel paese dei grand'insegnamenti, troppo a lungo trascurò questo sacro dovere. Mentre i suoi grandi empori commerciali, i suoi immensi centri industriali crescevano giganti; mentre Liverpool e Manchester, in poco più di settant'anni, da umili borgate trasformavansi in città colossali; mentre nelle contee di Lancaster, di York ed altre vicine, i capitali si accumulavano a milioni, nulla si facea dal Governo, e poco dai privati, per sovvenire ai bisogni intellettuali e morali delle nuove popolazioni, che il commercio e l'industria concentravano in quelle parti del regno. Gli effetti di questa consapevole trascuranza, quantunque funestissimi, rimasero lungo tempo inosservati. Ma quando furono fatti palesi dai crescenti disordini popolari, e dai moti minacciosi delle associazioni cartiste, il Parlamento ed il pubblico furono costretti d'indagarne le cause e di appurare lo stato degli operai nei gran centri industriali e commerciali.
Uno spaventevole spettacolo risultò da queste investigazioni. L'Inghilterra s'accorse con terrore, che se in cima dell'edifizio sociale splendeva una classe illuminata, energica, doviziosa, nelle basse regioni i più giacevano privi di lumi, di cognizioni morali, orbi d'ogni sentimento religioso, ed alcuni in si abbietto stato, da ignorare persino il nome di Dio, quello del divin Redentore!
Il Governo ed il pubblico, commossi a tanto disordine sociale, s'accinsero a portarvi rimedio con quella mirabile energia, che distingue la forte schiatta anglo-sassone. Questi sforzi basteranno essi a sanare del tutto l'orribile piaga? Noi vogliamo sperarlo.
Ma l'esempio dell'Inghilterra ci stia di continuo avanti gli occhi. Impari da esso l'Italia, ora che sta accingendosi a percorrere le vie industriali, ad avere in gran pregio le sorti delle classi popolari, ad adoprarsi con sollecite cure ed incessanti al loro miglioramento.

Per andare esenti dai mali che travagliano la Gran Bretagna, procuriamo di svolgere quegl'istinti [sic] benefici, i quali onorano la storia nostra passata e presente, sottoponendoli tuttavia a quelle regole scientifiche, l'osservanza delle quali è indispensabile a rendere efficaci e veramente fruttiferi i provvedimenti diretti al sollievo delle umane miserie. Facciamo si che tutti i nostri concittadini, ricchi e poveri, i poveri più dei ricchi, partecipino ai benefici della progredita civiltà, delle crescenti ricchezze, ed avremo risolto pacificamente, cristianamente il gran problema sociale, ch'altri pretenderebbe sciogliere con sovversioni tremende e rovine spaventose. Camillo Cavour”. Il Risorgimento, Anno I, n° 1, 15 dicembre 1847”.

Dopo il Quarantotto.

Il 4 luglio 1853, passati 5 anni, Isacco si laureò in giurisprudenza, all’Università di Torino. Con lo Statuto Albertino, finalmente si erano aperte le porte della facoltà anche agli Ebrei. Passarono ancora altri due anni e il 20 novembre 1855, vinse il concorso ed entrò come volontario nel Ministero degli Affari Esteri dove strinse amicizia con Costantino Nigra. La Guerra di Crimea stava cambiando gli assetti preesistenti. Finalmente la Santa Alleanza tra Russia e Austria era entrata in crisi. Il Congresso di Parigi (1856) sanciva la leadership del Regno di Sardegna sulla Penisola e nelle relazioni con le potenze occidentali. L’incontro segreto di Plombières-les-Bains tra Cavour e Napoleone III, del luglio 1858, apriva uno scenario nuovo. La Pianura Padana doveva formare un Regno guidato dai Savoia. L’Italia passava sotto la “tutela” francese. L’inorientamento dell’Austria spingeva gli Asburgo verso i Balcani dove il panslavismo russo si sarebbe scontrato con il multinazionalismo austriaco.

Il Mediterraneo era un’area di interesse mondiale su cui governava la Regina dei Mari, la Gran Bretagna. Cavour e Artom sapevano che l’Impero inglese era sotto pressione, perché la sua ex colonia, gli Stati Uniti d’America, aveva scatenato una concorrenza insostenibile sull’Atlantico e soprattutto sul Pacifico: l’oceano aperto sulla ricca Asia.

A completare il quadro, nel 1869 fu inaugurato il Canale di Suez governato dai Britannici che creò una nuova autostrada del mare verso l’Oriente, verso la Cina, domata dalla Guerra dell’Oppio, verso l’India, l’Australia e l’Africa Orientale.

Il Biennio dell’Unificazione 1859-1861

All’inizio del 1859, il ventinovenne Artom fece il grande balzo. Il 10 gennaio il discorso della Corona lanciò “il grido di dolore”. Il 18 si firmò a Torino il trattato di alleanza Franco-Sardo. Il 30 gennaio fu celebrato il matrimonio di Clotilde di Savoia con il principe Gerolamo Napoleone, detto Plon-Plon, nipote di Napoleone III. Isacco ormai lavorava giorno e notte a fianco di un frenetico Cavour. Alle prime ore del mattino era già dietro il paravento della camera da letto del Primo Ministro ad annotare le conversazioni e a stendere relazioni e articoli. Tra febbraio e marzo tutto sembrava a posto. Si raccoglievano i soldi per la guerra contro l’Austria.

Poi all’improvviso il mondo sembrò fermarsi. Napoleone III era titubante, tergiversava. Le potenze avviavano trattative pacifiste. Il disegno cavouriano stava per saltare. Artom assistette alla grande crisi di Camillo Cavour. Sembrava impazzito. Prima pensò di suicidarsi. Poi si ribellò, decidendo di fuggire negli Stati Uniti e da lì vuotare il sacco sulle nefandezze e i tradimenti di Napoleone III. Poi la ruota girò.

Per fortuna il 23 aprile 1859 l’Austria mandò l’Ultimatum. Scoppiò la II guerra d’Indipendenza. Gli Austriaci però erano in vantaggio sull’arrivo degli alleati dei Gallici. Allora Camillo decise di fare ciò che facevano gli Olandesi per fermare Spagnoli e Austriaci nel XVI secolo. Dette ordine all’ingegnere Carlo Noè di allagare la Pianura vercellese. Gli Austriaci si impantanarono. Il 30-31 maggio i Franco-Piemontesi vinsero a Palestro. L’8 giugno entrarono in Milano. Il 24 gli Austriaci uscirono sconfitti dal grande massacro di Solferino e San Martino, la carneficina che ispirò Henry Dunant a fondare la Croce Rossa. Intanto le porte per arrivare a Venezia erano aperte. Ma Napoleone III si fermò. Capì che il disegno egemonico concepito a Plombières-les-Bains sull’Italia non si poteva realizzare. Cavour, contrario a fermare le operazioni di guerra, partì per il quartier generale chiamato dal Re. Deluso dalle incertezze di Vittorio Emanuele II rientrò infuriato a Torino. Il 9 luglio di sua iniziativa – ne aveva parlato a lungo con Isacco – ripartì per rincontrare il Monarca. I due nella tenda di Monzambano litigarono. Volarono parole grosse. Il Re non capiva il cambiamento di fase. Si accontentava della Lombardia e rinunciava al Veneto. Eppure il processo avviato era inarrestabile. Lo si sarebbe visto da lì a poche settimane con le Annessioni e i plebisciti dei Ducati e della Toscana. L’11 luglio a Villafranca si firmò l’armistizio. Cavour diede le dimissioni, prontamente accettate dal Re.

Dopo 7 anni non era più Primo Ministro. Si ritirò a Leri (Trino Vercellese).

L’Unità d’Italia si fa ma Camillo muore.

Leri diventò la seconda Capitale del Regno, di lì passavano, all’andata e al ritorno gli emissari che si recavano a Torino, dove al governo c’era adesso Alfonso La Marmora. Artom visse i sei mesi di distacco, collaborando con il ministro degli Esteri Giuseppe Dabormida e ovviamente con Cavour. Poi finalmente il 21 gennaio 1859 il Re dovette cedere. Richiamò Cavour al Governo come Primo Ministro, ministro degli Esteri, con l’interim dell’Interno. Bisognava gestire le annessioni, i plebisciti dei Ducati di Parma e di Modena, delle Legazioni –Bologna e Romagna– e del Granducato di Toscana. Nizza e Savoia dovevano diventare francesi. Camillo e Isacco lavoravano di nuovo uno a fianco dell’altro alla luce del sole.

La corsa all’Unificazione era inarrestabile. Il 6 maggio il generale Garibaldi partì per la Sicilia. Non è vero che Nino Bixio sequestrò le navi con un colpo di mano. I due bastimenti per la traversata Genova-Marsala erano di proprietà della società Rubattino di cui era socio Cavour e furono noleggiati su garanzia di Alessandro Antongini, imprenditore tessile di Borgosesia, uno dei Mille, per 510.000 lire. E Giuseppe La Farina, segretario della Società Nazionale, comprò le armi e finanziò le operazioni. Il 7 settembre l’Eroe dei Due Mondi, entrò a Napoli trionfalmente. Non si parlava che di lui. Si diceva che volesse invadere anche lo Stato della Chiesa e prendere Roma, ma non fu così. Qualcuno lo scavalcò. Cavour preoccupato della situazione prese su di sé la responsabilità di assumere la guida del processo in corso.

La corsa era sempre più folle. Non si poteva lasciare ai Garibaldini la leadership dell’unificazione. E allora Cavour dichiarò guerra al Papa e insieme al Re diede ordine di invadere lo Stato Pontificio. Al Papa sarebbero rimasti il Lazio e Roma. Marche e Umbria facevano parte dell’Italia Unita. A quel punto tutto il gruppo dirigente nazionale fu colpito da scomunica maggiore. Il 18 settembre l’esercito sconfisse i papalini a Castelfidardo. L’effetto fu enorme. Il 26 ottobre 1860, a Teano, o a Vairano, nel Regno di Napoli, il Re proveniente dal nord, dal territorio del Papa incontrò Garibaldi proveniente dal Sud. La loro mitica stretta di mano suggellò la leadership di Cavour sul processo di Unificazione. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d’Italia. Il 23 marzo Artom festeggiò. Adesso era il segretario del primo Primo Ministro dell’Italia Unita. La fama di Camillo Cavour era mondiale. Bisognava però pensare alla Capitale. Troppe tensioni pesavano su un Paese intriso di eccessivo municipalismo, indebolito dal brigantaggio e dall’ostruzionismo delle gerarchie ecclesiastiche. Camillo e Isacco prepararono due discorsi epocali pronunciati il 25 e il 27 marzo in Parlamento. Roma era la naturale capitale d’Italia. Camillo compromise tutta Italia su una decisione che si concretizzò quasi dieci anni dopo, il 20 settembre del 1870. Lui però era mancato 9 anni prima.

Il 18 aprile 1861 Isacco fu testimone in Parlamento della brutta reprimenda di Garibaldi contro Cavour. Cavour stavolta la prese molto male. Lui stimava Garibaldi.

Il 29 maggio, Camillo non si sentì bene. Si trattava solitamente di forti febbri che duravano due giorni e poi cessavano. Stavolta però non si riprese. I medici erano perplessi, non davano speranze. I famigliari consentirono a Bianca Ronzani, la sua ultima amica, di entrare per la prima e unica volta a palazzo Benso, nella sua camera da letto e da lavoro per salutarlo. Anche Vittorio Emanuele II si recò al capezzale. La mattina presto, il 6 giugno 1861, a cinquant’anni, Cavour morì. Nessuno se l’aspettava. L’artefice dell’Unità d’Italia veniva a mancare pochi giorni dopo il compimento dell’impresa.

Isacco, stravolto dal dolore, organizzò il funerale religioso e di Stato. Su tutto aleggiava un interrogativo. Cavour era colpito da scomunica. Se non faceva ammenda pubblica non poteva essere assolto. E se non era assolto non c’era funerale religioso.

Per ore e nei giorni successivi rimase il dilemma. Se Cavour era stato assolto era perché aveva ammesso tutti i suoi errori compiuti verso Santa Romana Chiesa. Se così fosse stato voleva dire che chi aveva guidato tutto il processo di unificazione sconfessava il suo operato e quello dei suoi amici e collaboratori. Questo significava che nella ultima notte era avvenuta una ritrattazione, un rinnegamento, quasi un colpo di Stato, da cui difficilmente l’Italia appena unita, avrebbe potuto risollevarsi. Per fortuna non andò così. Padre Giacomo da Poirino, il confessore di Cavour, decise di disubbidire agli ordini di Pio IX. In coscienza ritenne che ci fossero le condizioni per dare l’assoluzione al moribondo. Nonostante il Papa volesse il pieno e consapevole pentimento davanti a testimoni, per il male fatto alla Chiesa, il frate francescano minore, che aveva simpatizzato per il Quarantotto, aprì la strada del funerale solenne e della distensione.

Nella costernazione, italiana ed internazionale, Isacco seguì la cerimonia del 7 giugno 1861 per le vie di Torino, iniziata e conclusa nella chiesa di Santa Maria degli Angeli di Via Carlo Alberto. Quella stessa sera, diligentemente, accompagnò con i famigliari la salma a Santena, il luogo della sepoltura dei Benso.

La stagione degli asparagi tanto amati dallo Statista stava per finire. Riportava Camillo nella casa dei ricordi e degli affetti più intimi e cari. Rivide il campanile e gli stupefacenti platani secolari del parco Cavour di Santena, che ancora oggi resistono al tempo.

La mattina dell’8 giugno, con i famigliari, era presente quando iniziò l’inumazione nella Tomba. Ma ci fu un intoppo. Isacco raccontò che il loculo si rivelò piccolo. Fu necessario scavarlo a colpi di martello. Il compito fu svolto da un muratore e dal fedele amico santenese Francesco Rey. Quel Francesco Rey la cui tomba, vero monumento della storia risorgimentale da tutelare a tutti i costi, con i simboli massonici ormai scomparsi per furto, è collocata contro la parete est del cimitero di Santena.

Come collaboravano

Isacco Artom fu il fedele braccio destro di Cavour. Di lui, Camillo disse: “Ha un’intelligenza superiore, essenziale, capace di esprimersi nel peso e nella responsabilità della parola scritta. Non è un gran parlatore, ma è un abile giornalista”. Isacco scriveva sull’Opinione di Torino diretta dall’ebreo Giacomo Dina e sul “Crepuscolo” di Milano, fondato da Carlo Tenca. Era duttile, grande annotatore, usava una prosa breve, chiara, essenziale, che esprimeva concetti complessi impiegando il minor numero di parole. Non poteva non piacere al giornalista che aveva fondato e diretto il Risorgimento.

In Isacco, Camillo ritrovava i suoi stessi schemi concettuali. Lavoravano aggiustando e ritoccando vicendevolmente documenti, relazioni, lettere, articoli di giornale. Tra i due c’era piena e totale sintonia. Artom ascoltava la prima lettura in privato dei discorsi che poi si sarebbero tenuti in Parlamento. Esprimeva impressioni e osservazioni sui nodi politici più delicati attento alle manifestazioni degli interessi dei ceti emergenti. Conosceva e condivideva i pensieri più intimi e i risvolti privati della vita di Cavour.

I tempi erano complessi. Era in corso una rivoluzione che stava riconvertendo l’agricoltura nella Pianura Padana e in tutta Italia. Qualcosa di simile a ciò che succede oggi nella Penisola, nel Pianalto e nel territorio del Chierese-Pianalto- Carmagnolese. Lo stesso valeva per l’industria, il commercio, l’esercito, i servizi di pubblica utilità.

Cambiavano le istituzioni, si costruivano nuove infrastrutture, in particolare linee ferroviarie che mobilitavano merci e persone. La crescita della popolazione comportava un aumento della domanda di alimenti e di altri beni di consumo. La competizione a livello globale imponeva l’incremento della produttività. Produzione e lavoro favorivano l’emersione di nuove categorie sociali che domandavano nuovi servizi e che imponevano il cambiamento degli assetti di potere. Questo era il terreno in cui operavano i contemporanei di Camillo Cavour.

E Cavour era colui che rappresentava al meglio gli interessi, gli ideali e le aspettative dei nuovi italiani.

Il fidato braccio destro

I due lavorano gomito a gomito. Significativa è una scena successa durante un viaggio da Genova a Torino in treno da cui risulta, grazie alla testimonianza di Isacco, che Cavour, particolare poco noto, fosse un grande lettore di romanzi. Passando da Asti, Artom scese dal treno per sceglierne uno. Ma dovette ritornare due volte in libreria perché Camillo aveva già letti i primi due acquistati.

E ancora, nel maggio 1860, di ritorno da Bologna e da Genova, Cavour a un certo punto sporgendo la testa dal finestrino del treno espresse un preciso e premonitore desiderio: “vedete il campanile in mezzo agli alberi. È la chiesa di Santena. Là voglio riposare dopo morte”.

Da notare, i due com’è naturale, visti i caratteri, si davano del Voi.

Morto Cavour, Artom a fine giugno 1861 accompagnò Francesco Arese a Parigi. Napoleone III riconosceva il neonato Regno d’Italia, ma bisognava reimpostare le relazioni tra i due Stati, nel Mediterraneo e in Europa. Le alleanze dovevano essere adattate al nuovo contesto interno e mondiale. L’Austria si era indebolita. Il Regno Unito si era rafforzato. La Prussia aumentava il suo peso nella Confederazione germanica. La Russia puntava l’attenzione sui Balcani. La Turchia aveva crescenti difficoltà a tenere unito il suo Impero. Gli Stati Uniti d’America espandevano i loro interessi all’Asia e all’area del Pacifico e nel 1867 acquistavano l’Alaska dalla Russia.

Isacco era adesso il più diretto custode e interprete dell’operare cavouriano. Nel 1862 ritornò a Parigi come segretario di legazione. A fine anno, però, rientrò a Torino come Capo di Gabinetto del Ministro degli Esteri, Emilio Visconti Venosta. Carica che conservò fino all’ottobre 1864, quando il governo cadde per l’eccidio di Torino conseguente al trasferimento provvisorio della capitale a Firenze. Il neonato stato unitario era subissato dalle difficoltà interne, prima di tutte il Brigantaggio, seconda il basso livello di istruzione, soprattutto al sud.

Nel luglio 1866, finita la III guerra d’Indipendenza contro l’Austria, non a caso, Isacco era a Ferrara nel quartier generale dell’esercito. Bisognava fare gli accordi per il passaggio delle Venezie al Regno di Sardegna. Fu inviato a Vienna insieme al generale, ministro, ingegnere idraulico Luigi Menabrea. Una persona straordinaria, che aveva avuto tra i suoi allievi nientemeno che Sommelier, Grandis e Grattoni.

Gli ingegneri che, attuando l’idea di Medail e con l’indispensabile collaborazione degli operai e muratori biellesi della Valle Cervo, la terra di Pietro Micca, stavano scavando a crescente velocità il Tunnel del Frejus. Quello della alta velocità. Operai e i tecnici, esperti nella lavorazione della pietra, consapevoli di far parte dell’aristocrazia dei lavori e dei mestieri. Tanto da costituire, in quel di Bardonecchia, una Società Operaia di Mutuo Soccorso, trasferita nella loro terra di provenienza, al termine dei lavori, nel 1871, nelle montagne alle spalle di Biella, a Campiglia Cervo. Il paese che oggi ne custodisce le preziose memorie e i cimeli. Un patrimonio stupefacente, un singolare museo risorgimentale e dell’orgoglio professionale, che ha bisogno di qualcuno che se ne faccia carico e lo valorizzi perché ricorda i nuovi soggetti protagonisti dell’Unità d’Italia, almeno quanto i combattenti e il notabilato. Orgogliosi perché contemporaneamente al Canale di Suez stavano costruendo una delle meraviglie del Mondo. Il tunnel più lungo della Terra scavato nella viva roccia, 12.847 metri. Il secondo che perforava le Alpi dopo quello sul Monviso, lungo 75 metri, aperto nel 1480, usato per il trasporto del sale e delle acciughe, tra versante italiano e francese. Una galleria di grande valore logistico, commerciale e economico che ha fatto la fortuna dei tanti acciugai cuneesi esportatori e commercianti in tutta Europa. Una cosa è certa. La storia di quelli della Valle Cervo dimostra che il Risorgimento non è stato un movimento élitario, bensì un moto popolare che vide la scesa in campo di nuovi soggetti sociali costituiti da un crescente numero di persone appartenenti alle nuove categorie produttive.

La vittoria nella battaglia dell’Oidio del 1850, vinta grazie allo zolfo, per quanto sottovalutata, è un altro esempio della partecipazione popolare al movimento risorgimentale. Rilevante per la cura degli interessi dei viticoltori e per il consenso acquisito alle politiche del governo in cui Cavour era ministro dell’agricoltura, del commercio e della marina. Altro caso è la costituzione dell’Associazione Generale della Irrigazione delle Terre all’Ovest della Sesia, approvata dalla Legge 3 luglio 1853, che affidava ai proprietari di terra del Torinese, Vercellese, Novarese, Lomellina la gestione e il governo delle acque. L’Associazione più grande d’Europa che prevedeva il pagamento di un canone annuo allo Stato. Una vera ed estesa base sociale di consenso e sostegno per la successiva realizzazione del Canale Cavour, lungo 82 km. Una meraviglia ammirata in tutto il Mondo, che dava prestigio alla neonata Italia, realizzata in tre anni dal 1863 al 1866, col lavoro di 14.000 lavoranti il giorno. E che dire dei muratori, mezzadri, tessitori, lavandaie, meccanici, particolari, scrivani, pesatori, esattori, ciabattini, gasisti, postali, commercianti, artigiani, stiratrici, tipografi, facchini, traboccanti, cappellai, liquoristi, lattai, modelliste, sacerdoti, suore, traghettatori, sellai, scalpellini, mandriani, bachicoltori, camerieri, carradori, sarte, ferrovieri, Cavallanti, idraulici, capomastri, insegnanti, orologiai, medici, catramisti, avvocati, levatrici, tramvieri, giornalisti, ceramiste, fabbri, osti, filatrici, telegrafisti, falegnami, mietitori, macchinisti, geometri, fonditori componenti di emergenti categorie sociali, impegnati nelle prime linee del lavoro, della produttività e delle barricate, di cui purtroppo si è snaturata e sottovalutata la memoria. Categorie di poveri e ricchi, un’aristocrazia del lavoro che chiedeva garanzie e regole condensate nella Costituzione, lo Statuto Albertino e incardinate nelle moderne istituzioni.

Il corriere della Corona Ferrea

Menabrea e Artom, dopo la sconfitta dell’Austria da parte della Prussia, avevano il compito di trattare la pace e il passaggio delle Venezie all’Italia.

La III guerra d’Indipendenza per l’Italia, nonostante Custoza e Lissa, finiva in gloria, grazie alla Prussia. In quel 1866, come già nel 1859 per la Lombardia, il passaggio avveniva transitando dalla Francia di Napoleone III, che ne avrebbe riconosciuta l’unione con l’Italia, salvo plebiscito. Isacco aveva l’esperienza necessaria a gestire un’operazione che aveva già curato nel 1859. Clausole a parte, gli Asburgo e gli Austriaci perdevano il governo, la gestione e il controllo di una bella fetta dell’Adriatico. Soprattutto uscivano definitivamente dalla Pianura Padana, allora come oggi, una delle aree più ricche del Mondo. Cambiava il contesto geopolitico europeo. L’Austria era indebolita dai nazionalismi interni e all’esterno dalla pressione esercitata dalla Prussia e dalla Russia. In questo quadro si esplicitò l’equidistanza tra Francia e Austria: il “Capolavoro di Artom” in politica estera.

Il 3 ottobre 1866 a Vienna si firmò la pace. Francesco Giuseppe rinunciava, per sé e per i successori, al titolo di Re della Lombardia e della Venezia. Artom, nel corso delle trattative, chiese a nome del Governo italiano la restituzione della preziosa Corona Ferrea, oggi custodita nella Cappella di Teodolinda, nel Duomo di Monza. Il diadema che era stato sul capo di Carlo Magno e di Napoleone I.

“L’Imperatore austriaco contestualmente –così racconta Luigi Baudoin nella collana “Uomini del Risorgimento” ed. Rattero-Torino.1961– restituisce la Corona Ferrea, simbolo del Regno d’Italia, trasferita dal Duomo di Monza a Vienna nel 1859, dopo la II Guerra di Indipendenza. Isacco Artom ebbe il grande onore di curarne il trasporto. Giunto a Venezia, alloggiò nell’Albergo Luna, dove una lapide ricorda il ritorno in Italia della Corona Ferrea ma non chi la custodiva gelosamente nella propria camera”.

L’episodio è confermato dall’avvocato Alessandro Artom, pronipote del Senatore e figlio di Giorgio Artom che nel convegno di Asti del marzo 2010 ha ricordato quanto scritto dal padre ne “I giorni del mondo”. “Specializzatosi in Diritto Pubblico, Isacco completò la sua formazione a Gottinga, dove ebbe modo di avvicinarsi alla filosofia di Hegel. Isacco Artom…. ebbe il compito di riportare la Corona Ferrea in Italia: la mise nella sua cappelliera e ripartì. Si fermò a dormire a Venezia dove, all’Hotel Luna, una targa ricorda ancora oggi il passaggio della preziosa reliquia, che si dice realizzata con i chiodi della Croce di Gesù”.

Che c’entra un ebreo con un simbolo del Sacro Romano Impero.

Purtroppo il merito della restituzione della Corona Ferrea oggi va solo al generale e ministro Menabrea, che ebbe l’onore di consegnarla nelle mani di Vittorio Emanuele II, a Torino, il 3 novembre 1866. Si ricorda pure l’intervento del sindaco di Monza Ubaldo de’ Capei, che si rivolse al Primo Ministro Bettino Ricasoli per reclamarne la restituzione. Si cita anche il generale Paolo Solaroli, grande divo le jet set internazionale, che la riportò a Monza il 6 dicembre e tutte le “autorità” civili e religiose presenti. Solo Isacco, nelle memorie ufficiali, non appare mai. Forse perché non si può lasciare a un “certo avvocato Isacco A…., appartenente non so a qual Ghetto..” la più parte della restituzione di una tra le più preziose reliquie cristiane, simbolo del Sacro Romano Impero. Forse perché la timidezza, il ritegno, la riservatezza di Artom fecero sì che né il Re, né il Governo si premurassero di riconoscergli il ruolo svolto. Probabilmente valgono entrambe le spiegazioni. Eppure fu lui il corriere che la trasportò con le sue mani da Vienna fino a Venezia dove era prevista una cerimonia ufficiale, poi rinviata a Torino. Eppure è il solo e almeno l’ultimo ad avere dormito in una camera d’albergo con la Corona Ferrea, dissimulata in una custodia per cappelli. I motivi del diniego erano molteplici. Di certo per la Chiesa di allora il recupero della Corona –tenuta insieme dal chiodo della Croce portato dalla Terrasanta da Sant’Elena, madre di Costantino– non poteva essere attribuito a un appartenente al popolo deicida. In più c’era di mezzo un altro problema. La reliquia richiamava la falsa Donazione di Costantino, la giustificazione su cui per secoli si è retto il potere temporale del Papa. Un potere fortemente contestato dai cattolici riformatori. Persone convinte che non c’era dissidio tra la fede e la scienza. Sostenitrici della libera lettura della Bibbia e della libertà di coscienza, della soppressione del potere temporale papale. Precursori dei Modernisti e del pensiero che troverà finalmente espressione, un secolo dopo, il 7 dicembre 1965, nel Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes, la Costituzione Pastorale promulgata da Papa Paolo VI.

Sul rientro della Corona Ferrea era davvero troppo perché venisse tramandata la presenza attiva di un ebreo. Ed è così che oggi Isacco non risulta citato da nessuna parte, neppure nelle preziose pubblicazioni esposte nel bookshop all’ingresso del Museo e Tesoro del Duomo di Monza. Purtroppo questa omissione nei suoi confronti non è la sola. Probabilmente perché laico e ebreo, la figura e l’opera di Isacco Artom non sono messe in risalto come meriterebbero nei diversi musei del Risorgimento, compreso quello della sua città: Asti. E questa non è la sola dimenticanza. Basta pensare a quanto poco si parla dell’azione svolta nella formazione dello Stato italiano da Cesare Alfieri di Sostegno, da Emilio Visconti Venosta e dallo stesso Cavour. Azioni che danno senso ed anima al Risorgimento perché direttamente collegate con gli interessi dei loro contemporanei e dei loro discendenti.

Isacco rientra in Italia.

Nel 1867 Isacco fu inviato in Danimarca e successivamente nel Baden Wurttemberg. La sua conoscenza della Confederazione Germanica e dei nuovi equilibri dell’area Centroeuropea era sempre più preziosa per l’Italia. Pur lontano, seguiva la realizzazione delle grandi opere infrastrutturali sognate e fortemente volute dal suo Primo Ministro: il Canale Cavour, che irrigava il Vercellese, il Novarese e la Lomellina e il Tunnel del Frejus, la galleria più lunga del mondo che collegava il Canale di Suez, il porto di Genova, Alessandria, Asti, Torino, con Lione e Parigi, con Londra e con il Nord Europa. Il traforo che superava le Alpi con una linea ferroviaria di alta velocità che passava dai 5 km/h di un mulo ai 50 km/h del treno.

Isacco ebbe una bella rivincita il 20 settembre 1870, con la Presa di Porta Pia. Allora, si realizzò quello che venne chiamato “il capolavoro di Artom”. E cioè la politica di equidistanza dell’Italia nei confronti della Francia e dell’Austria. Una strategia che si rivelò preziosa dopo la sconfitta di Napoleone III da parte dei Prussiani di Bismarck a Sadowa perché creò le condizioni affinché Roma fosse conquistata, senza che ci fossero ostacoli da parte dell’Austria.

Isacco era giusto rientrato In Italia. Conoscendo la sua esperienza Emilio Visconti Venosta, parente ed erede di Camillo Cavour, lo chiamò a fare il Segretario del Ministero degli Esteri. Si conoscevano da tempo, si davano del tu. Erano coscritti, essendo nati nel 1829. Tutti e due si erano formati e avevano lavorato a stretto contatto con il Contadino-Tessitore. Emilio era l’erede riconosciuto e il rappresentante della politica cavouriana nel Governo. A loro toccò la patata bollente lasciata da Cavour: gestire la Presa di Porta Pia, la fine del potere temporale del Papa, la Legge delle Guarentigie e il trasferimento della Capitale da Firenze a Roma.

Il forte legame con l’Astigiano

Dettaglio non secondario, entrambi erano legati alla terra, alla cultura e alla grande storia astigiana. Altro particolare non secondario, entrambi conoscevano la relazione tra Giuseppe Garibaldi e la contadina astigiana Francesca Armosino, la terza moglie del Generale. Anzi Emilio era indirettamente, implicato nella complicata situazione che impediva al Generale di sposare e di riconoscere i figli concepiti con Francesca. Non che avesse colpa. Ma certamente Emilio diede una mano a far sì che finalmente nel 1880, due anni prima di morire, Garibaldi dopo aver fatto costruire la palazzina di San Martino Alfieri, provincia di Asti, frazione Saracchi, potesse sposare la sua Francesca. Tutto era iniziato nel 1859 in piena II guerra di Indipendenza. Emilio, già esule in Piemonte dopo le Cinque Giornate di Milano, ricevette da Camillo Cavour il delicato incarico di commissario regio presso Garibaldi. Il Generale combatteva con i suoi Cacciatori delle Alpi, in Lombardia, tra Varese, Como e la Brianza, a nord-est del Lago Maggiore. In quei frangenti Emilio Visconti Venosta, per fargli avere delle informazioni preziose incaricò la bella diciottenne contessina Giuseppina Raimondi di recapitargli dispacci segreti. Subito l’Eroe dei Due Mondi si innamorò della fanciulla. Garibaldi, si sapeva, era molto sensibile al fascino femminile nonostante l’età e gli acciacchi. Lei per un po’ fece resistenza. Poi cedette alla richiesta di matrimonio celebrato a gennaio del 1860. Celebrato ma non consumato perché, finita la cerimonia, il Generale fu informato che la sposa attendeva un figlio da un giovane militare. Garibaldi ripudiò immediatamente la sposa, cosicché il matrimonio non fu consumato. Su questa vicenda ruotò un ostruzionismo da parte dei numerosi nemici di Garibaldi che impedì per lunghi anni a Francesca di sposare il padre dei suoi due figli. Finalmente la situazione si sbloccò grazie al governo della Sinistra salito al potere nel 1876. Erano gli amici del Generale. Probabilmente Emilio Visconti Venosta e Isacco Artom diedero una mano a risolvere la situazione e non è escluso che in cambio ci sia stata la decisione di staccare la Frazione di Saracchi dal comune di Antignano per aggregarla a quello di San Martino Alfieri, il cui signore era appunto Visconti Venosta. E così Garibaldi venne ad Asti per inaugurare la casa sua e di Francesca e dei figli Manlio e Clelia. Figli adorati perché venuti ad allietare la vecchiaia. Figli accuditi con amore che non potevano essere volgarmente indicati come “bastardi” perché nati fuori del matrimonio

Insomma il legame con l’Astigiano era più forte di quanto si creda. In una piccola zona al confine con Govone e il Roero, precisamente a San Martino, avevano casa nientemeno che i discendenti di Camillo Cavour, di Cesare Alfieri e di Giuseppe Garibaldi.

Gli Artom avevano casa lì vicino, a Variglie: in più, Isacco era amico dello suocero di Emilio, Carlo Alberto Alfieri di Sostegno, marito di Giuseppina Benso di Cavour, la nipote di Camillo. Un matrimonio importante, celebrato nientemeno che dall’Abate Antonio Rosmini. Un’unione che suggellava il legame politico tra Camillo e il suo grande amico Cesare Alfieri di Sostegno, padre dello sposo. Un matrimonio da cui erano nate Luisa Alfieri di Sostegno, convolata a nozze con Emilio Visconti Venosta nel 1876, proprietaria del Castello di San Martino Alfieri e di Santena e Adele Alfieri proprietaria di Magliano Alfieri e Grinzane Cavour.

Le modalità della collaborazione con Camillo

Artom non pubblicò diari. Non era nel suo carattere vantarsi. Diventato braccio destro di Cavour, lavorava discreto, vigile, infaticabile, attento. Sempre presente, spesso fino alle tre del mattino. Da notare che alle cinque il Tessitore cominciava la nuova giornata.

Alle volte il primo ad arrivare era La Farina, della Società Nazionale. Entrava dalla porta laterale di palazzo Cavour, quella su Via Lagrange, che dava immediatamente accesso all’appartamento del Primo Ministro. Meno lo vedevano, meglio era. Dopo venivano Pallavicino e Manin, i due che avevano convinto Garibaldi ad abbracciare la linea monarchico costituzionale cavouriana che mise definitivamente fuorigioco Mazzini. Isacco vide passare tante persone tra cui Giuseppe Verdi e Alessandro Manzoni cui Cavour propose la candidatura alle prime elezioni del Regno d’Italia.

Per Isacco il lavoro era aumentato. Adesso in più seguiva l’attività di governo e i contatti con i diplomatici accreditati a Torino e nelle sedi estere. Lavorava sulla politica estera, il che comprendeva tra l’altro: la preparazione del moto nazionale nelle varie parti d’Italia, le relazioni con le potenze straniere, i rapporti con i nazionalismi dei Balcani, l’evidenziazione dell’antagonismo di interessi tra la Germania e l’Austria, l’attenuazione dell’eccessiva identificazione della causa italiana con la politica francese.

Grande conoscitore degli Stati tedeschi, predisponeva articoli per la stampa estera in inglese, francese e tedesco, che Cavour talvolta rivedeva. L’obiettivo era di prevenire i pregiudizi, sostenuti in primis dall’Austria e dal Papato, contro il Piemonte e l’Italia.

La questione romana fu ampiamente dibattuta tra il cattolico liberale, figlio di una calvinista ginevrina convertita nel 1811 e l’ebreo astigiano, figlio della borghesia, abile giornalista, esperto diplomatico, valente politico, raffinato burocrate. Fu così che da segretario particolare, in pochi giorni, divenne indispensabile collaboratore.

Il 23 marzo 1876, con l’avvento della sinistra storica al governo, Isacco lasciò l’incarico di Segretario agli Esteri e pochi giorni dopo fu nominato Senatore del Regno.

Era il primo Ebreo italiano a entrare in Senato.

La pubblica testimonianza del “Gran Rabbino di Leri”

Fino al termine dei suoi giorni Isacco ricordò la reazione di Camillo Cavour contro l’attacco clericale pubblicato il 31 luglio 1860 su “L’Armonia” da Don Margiotti. Il giornale cattolico riportava una lettera di questo tenore

“P.S. Un cotale che è molto addentro alle segrete cose ci scrive: che Mr. De Cavour non sia, ni un homme d’esprit, ni un homme sèrieux, basterebbe a provarlo la circostanza dell’onorare che esso fa di specialissima confidenza un ebreo, applicato al suo gabinetto particolare, nel ministero dell’estero, al quale non si peritò di commettere la redazione della risposta alla sensibilissima lettera dell’Arcivescovo di Chambery. Ciò premesso, la citazione del fanciullo Mortara e dei coniugi Madiai, come che spropositata, e ripugnante non meno a verità che ad onesto riguardo di convenienza, si presenta e si spiega in modo naturalissimo. Il fortunato segretario e confidente è certo avvocato Isacco A…., appartenente non so a qual Ghetto; e certo degnissimo del favore, di cui gode presso il gran –Rabbino di Leri­–“.

Cavour reagì lo stesso giorno, con una lettera aperta al direttore del giornale, “L’Opinione”, Giovanni Dina, scrivendo “…..…Ma che colpire me, (L’Armonia) scagli basse insinuazioni contro un giovane e distinto impiegato, rimasto del tutto estraneo alle lotte politiche, è ciò che muoverà a sdegno, ne son convinto, gli onesti di tutti i partiti……… Giacché non vi sono fatti nella vita politica di cui maggiormente mi compiaccia, che di avere potuto scegliere a collaboratori intimi ed efficaci nel disimpegno dei negozii i più delicati e difficili, prima il sig. Costantino Nigra, poscia il sig. Isacco Artom, giovani di religione diversa, ma del pari d’ingegno singolare e precoce, di zelo instancabile, di carattere aureo. Questa pubblica testimonianza ch’io mi credo in debito di rendere al sig. Artom, sarà, ne son certo, confermata da quanti lo conoscono, ed in particolare modo dai suoi capi, di cui godè sempre l’intera fiducia e dai suoi colleghi che giustamente lo stimano e lo apprezzano. La pubblica opinione farà giustizia di ignobili attacchi per parte di coloro che rimpiangono i tempi, in cui la diversità di culto bastava per allontanare dai pubblici uffici i giovani i più istruiti ed i più capaci. F.to Camillo Cavour”.

Di questa dichiarazione Isacco andò sempre orgoglioso. Difendendolo pubblicamente Cavour aveva dato uno schiaffo ai pregiudizi religiosi, aveva esaltato i valori di libertà e di laicità di cui tanto avevano dibattuto, in cui tanto credevano.

Isacco Artom morì celibe, come Camillo Cavour, il 24 gennaio 1900, all’età di settant’anni. Trentanove anni prima se n’era andato il suo grande capo, che lui nell’ultimo viaggio aveva accompagnato a Santena.