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La vita delle donne nell’Ottocento


di Anna Migliore

10 Febbraio 2021

La mia è una ricerca sulla vita delle donne nell’Ottocento, e sul loro lungo percorso di emancipazione, quel processo grazie al quale alle donne non è più stato applicato il trattamento giuridico riservato ai soggetti incapaci … percorso lungo secoli, che ha toccato i campi più diversi … io ne ho scelti alcuni

IL LAVORO.

Sono partita dal lavoro, perché dal mio punto di vista è stato un mezzo fondamentale per iniziare il cammino per uscire da una situazione che era subalterna …

Partiamo dal presupposto che per le donne dei ceti poveri il lavoro era una necessità. Un contadino sceglieva come sposa una donna non solo capace di fare figli, ma di lavorare. Per una contadina la vita era durissima: partoriva e cresceva i numerosi figli, lavorava in casa, nei campi, dove svolgeva lavori non solo leggeri.

Espressione di un’epoca di fame e fatica sono le spigolatrici, donne che raccoglievano le spighe, lasciate a terra dalla falce dei mietitori, per ricavarne farina. Questo era un lavoro molto faticoso, spesso causa di malaria e di una malattia, il tarantismo, procurata dal morso della tarantola, un piccolo ragno presente nei campi durante la mietitura; il rimedio per il morso del famigerato ragnetto era una danza sfrenata degli esperti del paese; ne saranno guarite molte. Questo duro lavoro ha ispirato pittori e scrittori: Luigi Mercatini ne “La spigolatrice di Sapri” racconta lo sbarco della spedizione di Carlo Pisacane nel 1857, vista con gli occhi di una povera spigolatrice, che si innamora di Pisacane e lo segue con i suoi trecento uomini, per vederli poi morire per mano delle truppe borboniche e dei contadini del luogo. A Sapri su uno scoglio c’è la statua della Spigolatrice.

A Santena, la selezione dei semi degli asparagi era affidata alle donne, per capacità e pazienza anche nel conservarli e catalogarli. Alle donne era affidata la raccolta di uva, olive, frutta, ortaggi, legna, la pulitura di certe piante, come le viti, e la sarchiatura (per eliminare le erbe infestanti nel campo, per areare le radici e favorire la penetrazione dell’acqua). Un ruolo fondamentale e quasi in assoluto esercitato dalle donne è quello nel settore del tabacco: si occupavano della raccolta, della cernita (le spulardatrici) e della lavorazione del tabacco (le scostolatrici), fino alle sigaraie.

Nelle case dei contadini poi si allevavano i bachi da seta; lo stesso Cavour aveva incoraggiato i contadini a questa attività, perché integrassero i loro magri salari. Le intelaiature in legno che contenevano i bachi dovevano essere tenute in un luogo caldo, lontane da stalle e letame, ed essere tenute sempre ben pulite; quindi venivano sovente messe nelle cucine ed ecco che era compito delle donne raccogliere le foglie di gelso e sfamare i bachi, tenerli puliti, al caldo …

E poi c’erano le mondine. La monda del riso è stata uno dei lavori più duri in agricoltura. Senza contare poi che nelle risaie c’era ogni tipo di insetto e animale. Queste donne, a volte poco più che bambine, ma spesso anche donne di 70 anni , arrivavano dalle regioni del Nord Italia nelle risaie piemontesi. Provenivano da ceti sociali poveri ed hanno dimostrato grande dignità, combattendo dagli inizi del Novecento battaglie sociali per veder riconosciuti i propri diritti di lavoratrici. Una storia di sfruttamento e malattia.

Ovviamente le donne dovevano occuparsi dei lavori domestici e della cucina, per quanto da mettere nei piatti non ci fosse mai molto … Mia nonna paterna, nata alla fine dell’Ottocento, mi diceva sempre che il menù a casa sua era: polenta e patate a pranzo e patate e polenta a cena, cambiava l’ordine degli addendi e non il risultato, proprio come nella proprietà dell’addizione!

Nelle campagne, la famiglia era patriarcale, così le mogli vivevano nella case dei genitori del marito, con le famiglie degli altri figli, sottomesse alla suocera e tutte lavoravano in casa e nei campi. Con lo sviluppo delle manifatture, molte contadine hanno abbandonato questi ambienti familiari angusti per andare a cercare un lavoro nelle fabbriche in città. E, insieme alle donne dei ceti poveri urbani, trovavano occupazione nelle manifatture, nel piccolo commercio, ad esempio gestendo gli empori di paese. Una delle mie bisnonne materne faceva proprio quello. Rimasta vedova, a Castelnuovo Don Bosco, possedeva e gestiva l’emporio del paese, dove vendeva di tutto, a peso. Per tutti era Carulina d’la sucietà. Molte donne sole, che tradizionalmente rimanevano presso la famiglia d’origine, si spostavano anche loro nelle città, dove trovavano posto come domestiche e rimanendo spesso per tutta la vita a servizio di una famiglia.

Le donne lavoravano come già detto nell’industria del tabacco. A Torino la Manifattura Tabacchi era uno degli stabilimenti più importanti nell’Ottocento, con 2.000 lavoratori, in gran parte donne: la necessità di mani piccole, rapide, precise nei movimenti e soprattutto la sensibilità delle mani, la pazienza, rendevano adatte le donne a questo mestiere e davano un’elevata qualificazione professionale alle sigaraie. Certo regole e orari erano rigorosissimi, il lavoro duro; non era permesso parlare, ma potevano pregare … cartelli avvisavano che era persino vietato sudare … si lavorava a cottimo e questo rendeva le sigaraie molto solidali: le più esperte aiutavano quelle più in difficoltà a fare il cottimo della giornata.

Le donne poi lavoravano soprattutto nell’industria tessile (il 70% della forza lavoro a Torino); non solo lavoro in fabbrica, ma anche a domicilio, perché le tessiture decentravano la produzione ed in molte cascine del nostro territorio vi erano telai con donne al lavoro. La mitezza del carattere le rendeva più docili alla disciplina e pronte ad adattarsi alle molte esigenze del lavoro … SOPRATTUTTO in buona sostanza e in ogni settore venivano pagate di meno, la metà degli uomini a parità di ore lavorate!

Le donne poi sono sempre state protagoniste dell’arte del ricamo. Realizzavano manufatti che sarebbero serviti per la famiglia; venivano aiutate dalle figlie, alle quali andava sempre il pensiero delle madri per la preparazione della dote che, proprio in virtù delle ristrettezze economiche di certe famiglie, si preparava in casa fin da piccole. Per arrotondare le entrate le donne iniziarono a ricamare anche su commissione, così questa attività, nata per esigenze familiari, divenne ben presto un mestiere. Poi nel 1851 l’americano Isaac Singer progettò, prendendo spunto da altre invenzioni europee, la macchina da cucire. Questo permise di aumentare la produttività e ridurre i costi. Talvolta le donne aprivano un’attività indipendente, imparavano ad usare la macchina da cucire, e svolgevano a casa, in proprio, lavori per le grandi sartorie o per altre famiglie. Era questa un’attività molto apprezzata dalla società, perché le donne potevano continuare ad occuparsi della famiglia, aiutando a far quadrare il bilancio familiare. Ma nella confezione di abiti su misura i sarti erano uomini, le donne erano modiste, orlatrici, guantaie, ombrellaie, passamantiere (soprattutto per divise militari), frangiaie, addette alla creazione di soli polsini o colletti o occhielli.

Un'altra attività, nata tra le mura domestiche e poi diventata un mestiere, è quella della lavandaia. Compito durissimo, che permise soprattutto alle donne sole (ragazze madri, nubili e vedove) di trovare un mezzo di sostentamento, lavando – dietro compenso – i panni delle famiglie benestanti. Donne sole, si diceva, perché i mariti non permettevano che le proprie donne mettessero le mani nei panni sporchi altrui. I sacchi con la biancheria delle varie famiglie erano contrassegnati da nastri colorati; a nulla sarebbe servito scrivere nomi, perché le lavandaie erano per la stragrande maggioranza analfabete. Due i segni distintivi: il fazzoletto a doppia punta legato sul capo (deriva da un’antica rivendicazione di un fazzoletto di terra a loro promesso da un signorotto nel XIII secolo e mai concesso) e l’orlo delle lunghe gonne infilato nella cintura. Il sapone se lo facevano in casa, usando cenere, avanzi della macellazione del maiale (comprese le ossa): tutto sciolto in acqua bollente, con l’aggiunta di soda caustica. I ricchi il sapone invece lo compravano; grazie ai progressi della chimica nell’Ottocento ve ne erano di ogni forma, colore e profumazione.

Tra sapone fatto in casa (poco), cenere (molta) e tantissimo olio di gomito, il lavatoio, fluviale o pubblico in muratura, è stato un luogo di socializzazione femminile, non di evasione, certo, ma consentiva scambi di informazioni, pettegolezzi, canti …

In Inghilterra, Germania e Belgio, ma anche in Sardegna, le donne lavoravano in miniera, non solo in superficie, ma anche in profondità, spingendo i carrelli o caricandosi pesantissime ceste di carbone o facendo le lampionaie: distribuivano, pulivano e riparavano le lampade a petrolio, che erano l’unico mezzo di illuminazione dentro la miniera.

L’idea di quanto fosse diffuso il lavoro femminile in Italia, ce la dà un censimento nella città di Milano: nel 1881 aveva un impiego il 51% della popolazione femminile di età superiore ai dieci anni (contro l’84% di quella maschile). In particolare, il 27% delle donne era occupato in agricoltura, il 16.9% nell’industria, un 4% era definito personale di servizio, mentre nelle altre professioni la presenza delle donne presentava percentuali inferiori all’1%.

Durante un intervento parlamentare del marzo 1850, Cavour fece una considerazione sul lavoro femminile: “… dico che è molto opportuno che la società regoli i giorni di riposo e ciò per le stesse ragioni per le quali nei paesi più civili, più inoltrati nella scienza economica ed industriale, si sono regolate le ore di lavoro di certe classi di persone, delle donne e dei fanciulli, cosa che io desidererei moltissimo che si facesse da noi, perché mentre lamentiamo la condizione degli operai inglesi, forse troppo poco ci curiamo di sapere che da noi, nei nostri opifizi, le donne ed i fanciulli lavorano quasi un terzo (in più) se non il doppio di quello che si lavori in Inghilterra”. Parole che dimostrano un’attenzione di Cavour rispetto a questo argomento.

Numerose erano anche le prostitute che lavorano nei bordelli o per strada.

A Torino agli inizi dell’Ottocento la prostituzione contava duemila donne di mestiere, che erano calcolate come stabilmente attive (la provincia di Torino risultava a fine Ottocento quella con il maggior numero di case chiuse in rapporto agli abitanti). Intorno a questo quadro c’era un malcostume ed un libertinismo tanto diffuso, in alto ed in basso nella scala sociale, da intimorire la ginevrina zia Cecile, moglie di Jean Jacques de Sellon, che scriveva al nipote Camillo che MAI avrebbe mandato le sue figlie a rendere visita al cugino di Torino.

Un campo precluso all’universo femminile era il mondo del vino, ma in Francia due donne nell’Ottocento ne fecero la storia: Madame Nicole Ponsardin, che sposò François Clicquot e, rimasta vedova, creò la nuova marca di champagne “Veuve Cliquot”, portandola alla ribalta internazionale. Stessa storia per Louise Pommery. Dopo la morte del marito, creò lei stessa il primo Brut millesimato della storia, rivoluzionando il mondo dello Champagne.

Le famiglie borghesi consideravano il lavoro lesivo all’onore delle loro figliole; il costume dell’epoca imponeva loro un destino di mogli e di madri.

Le donne di ceto piccolo borghese invece diventavano spesso istitutrici e governanti nelle case signorili.

Molte donne nobili sfruttarono la loro posizione sociale, il loro denaro e dunque il loro potere, impegnandosi in attività diverse.

Una di queste fu la professione di infermiera.

La vera svolta in questo campo fu data da Florence Nightingale, nobildonna inglese, la prima alla quale si possa attribuire il titolo di infermiera. Durante la guerra di Crimea, insieme ad altre 39 infermiere, prestò assistenza ai feriti, applicando un nuovo metodo organizzativo all’interno degli ospedali da campo, perché aveva capito in primis l’importanza dell’igiene e l’importanza di un trasporto “soddisfacente”, come lei lo definì, dei feriti.

Completamente in mano alle donne era il mestiere di levatrice. La prima città d’Italia ad avere una scuola per levatrici fu Torino, quando nel 1728, per volere del re Vittorio Amedeo II, sorse il primo reparto per le partorienti e la prima scuola di ostetricia presso l’ospedale San Giovanni Battista. Il reparto offriva un ricovero per le partorienti miserabili; inoltre formava le levatrici, che sarebbero poi andate presso le abitazioni ad assistere le partorienti (nel corso della storia questo reparto è poi stato ‘trasformato’ nell’ospedale Sant’Anna).

DONNE del RISORGIMENTO

Nobildonne ospitarono, all’interno dei loro influenti salotti, accesi dibattiti, dove potevano finalmente discutere di politica e cultura assieme agli uomini; e qui troviamo le donne del Risorgimento. Ne cito alcune perché sono state davvero molte …

Teresa Casati, sorella di Gabrio Casati e moglie di Federico Confalonieri, molto attiva in politica, restò a fianco del marito sempre, anche dopo il suo arresto per aver partecipato ai moti del 1821. Teresa si recò a Vienna per chiedere all’imperatore d’Austria Francesco I la scarcerazione del marito dallo Spielberg. Definita da alcuni storici una donna “moderna” che svolse compiti essenzialmente maschili per l’epoca.

Costanza Alfieri di Sostegno (sorella di Cesare) sposò Roberto Taparelli d’Azeglio, fratello di Massimo. Animava due salotti, a Lagnasco e a Torino, frequentati da Cavour e Pellico. È considerata una delle donne più colte, intelligenti, patriottiche di cui si potesse inorgoglire il Piemonte. Il marito fu insignito del Gran Cordone dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro e Cavour, in una sua lettera a Nigra, ironizza “… se invece del marito fosse stato possibile crocifiggere (la decorazione era a forma di croce) la moglie, la cosa sarebbe stata più giusta e commendevole”. Costanza fu anche cronista del Risorgimento, lasciando, con le lettere scritte al figlio, una cronaca dettagliata degli avvenimenti torinesi.

Cristina Trivulzio di Belgioioso, famosa per i suoi salotti in Italia ed in Francia, contribuì “sul campo” alla causa patriottica italiana, inviando armi ai patrioti e facendo importanti donazioni; fondò una colonia agricola a Locate (vicino a Milano), vi aprì scuole professionali per maschi e femmine, una stamperia, asili per orfani. Sorvegliata dalla polizia austriaca, fu costretta più volte a lasciare l’Italia; a Napoli si mise alla guida di duecento volontari diretti a Milano nel 1848; raggiunse Mazzini a Roma nel 1849 e le fu affidato – per la prima volta ad una donna – l’incarico di organizzare la sanità pubblica e i convogli di quelle che allora erano le ambulanze militari. Ovviamente la scelta della principessa di condurre una vita libera da condizionamenti le valse non poche critiche, per aver “invaso” un settore maschile per eccellenza.

Clara Maffei a Milano: il suo salotto fu luogo d’incontro di illustri personaggi, letterati, artisti, patrioti del Risorgimento, tra cui Manzoni, Verdi, Balzac, … Giovanni ed Emilio Visconti Venosta erano ospiti pressoché quotidiani. Proprio Emilio deve alla contessa parte dei meriti per la sua rocambolesca fuga dalla Lombardia dopo i moti del ’48. Ricordiamo che Emilio ha poi sposato nel 1876 la pronipote di Cavour, Maria Luisa Alfieri di Sostegno.

Virginia Oldoini, incaricata da Cavour di sedurre Napoleone III per portarlo dalla parte della causa italiana, donna intelligente, colta oltre che bellissima… sulla quale non mi dilungherei, visto che è un personaggio ampiamente conosciuto da tutti noi …

Giulia di Barolo, la nomino soltanto, perché Irma Eandi ci parlerà di lei in un prossimo incontro. È stata un personaggio fondamentale per Torino, il Piemonte e per le donne.

Il Risorgimento permise a molte donne di emancipare la loro condizione, partecipando alle proteste in città, alle barricate, caricando le cartucce, facendosi promotrici di iniziative per raccogliere fondi, consegnando messaggi e documenti segreti, … Alcune donne del popolo spegnevano le micce delle bombe inesplose con pezze bagnate, lavoro ovviamente rischiosissimo, che prevedeva una ricompensa in denaro per chi avesse riconsegnato le bombe inesplose, in modo che potessero essere riutilizzate (talvolta anche i bambini si dedicavano a questo). Durante i moti fu preziosa la loro opera di soccorso ai feriti.

Molte patriote cucivano le camicie rosse garibaldine.

A Belgirate a Villa Cairoli, Adelaide Bono Cairoli guidò la realizzazione da parte delle donne del paese delle famose camicie rosse. Inoltre finanziò giornali patriottici e ospitò uomini di cultura e combattenti nel suo salotto politico. Ma soprattutto è ricordata per aver dato “alla causa patriottica” 4 dei suoi 5 figli.

E tra le donne del popolo …

Luigia Battistoni Sassi, il più delle volte vestita da uomo, partecipò ai moti del ‘48 imbracciando il fucile. Per questo fu l’unica donna chiamata ad assistere in prima fila nel Duomo di Milano alla celebrazione per la cacciata degli austriaci.

Colomba Antonietti fu uccisa nel 1849 a soli 23 anni a Roma, mentre combatteva come soldato semplice nell’esercito repubblicano. Il suo è tra i busti del Gianicolo.

Emilia Manelli si travestì da uomo e riuscì ad arruolarsi come caporale bersagliere nella Terza Guerra d’indipendenza, nel corso della quale morì per le ferite riportate.

Rose – Rosalia – Montmasson, moglie di Francesco Crispi. Fu l’unica donna a seguire l’avventura dei Mille imbarcandosi a Quarto, indossando la giubba rossa. Ebbe un ruolo decisivo nel radunare i volontari. Fu un’abile infermiera nella battaglia di Calatafimi, dove non disdegnò di sparare qualche colpo di fucile. Morì povera e sola, ripudiata dal marito, assorbito dall’ascesa politica.

Anita Garibaldi, compagna di tutte le battaglie dell’eroe dei due mondi. Ragazza autonoma, animata da ideali di giustizia sociale, si tagliò i capelli, indossò l’uniforme, imbracciò il fucile e morì nelle valli di Comacchio nel 1849, spossata dalla fatica e da una probabile malaria, in fuga dalla macerie della Repubblica romana.

Francesca Armosino (1846-1923), detta la Regina di Caprera, Contadina astigiana, emigrata a Genova come cameriera, terza moglie del Generale Giuseppe Garibaldi. Nella famiglia è entrò come balia di Anzani il secondogenito di Teresita. Durante la permanenza a Caprera avvenne l’unione con Garibaldi da cui sono nati Clelia (1867-1959), Rosita nata e morta nel 1869 e Manlio (1873-1900). Quando nacque Clelia, Francesca aveva 20 anni e il Generale 60. Francesca sopravviverà per più di quarantun anni al marito. Sarà la fedele custode dell’intimità, della salute e delle memorie del Generale con il quale riuscirà a sposarsi solo nel 1880 dopo l’annullamento del precedente matrimonio di Garibaldi con la contessina Giuseppina Raimondi contratto nel 1860.

Antonia Masanello si unì ai Mille in Sicilia, combattendo sul campo.

In Veneto, Giulia Modena e Annetta Tagliapietra, anticipavano le truppe nel 1848, suonando il tamburo e sorreggendo lo stendardo.

C’è stata anche una Carboneria al femminile, la “Società delle Giardiniere”. Le Giardiniere erano le donne carbonare che, invece di radunarsi nelle cosiddette “vendite”, si incontravano nei loro giardini. Cambia il termine, ma non la sostanza. Per entrare a farvi parte, le donne dovevano superare un lungo periodo di indagine. Il motto delle Giardiniere era “Costanza e perseveranza”. Dopo un lungo tirocinio si diventava “maestra giardiniera” col motto “Onore e virtù” e si era autorizzate a portare un pugnale tra calza e giarrettiera. Il loro segno di riconoscimento era disegnare con la mano un semicerchio, toccandosi la spalla sinistra, poi quella destra e alla fine battere tre colpi sul cuore.

Insomma le donne nonostante la poca o nulla visibilità pubblica, ebbero un ruolo rilevante nel processo unitario e parteciparono con modalità differenti alla causa nazionale.

LE LEGGI.

In linea generale …

La legge considerava una coppia di sposi come una persona sola, incarnata nella persona del coniuge maschile. Il marito era responsabile della moglie ed obbligato a proteggerla; in cambio, la moglie aveva il dovere di obbedienza al marito.

La dote, che la moglie portava con sé al momento del matrimonio, diveniva di proprietà del marito, che non la restituiva nemmeno in caso di divorzio. L'eventuale reddito di una moglie lavoratrice apparteneva completamente a suo marito, e la patria potestà dei figli era affidata al padre. Egli poteva anche, a sua discrezione, proibire ogni tipo di contatto fra la madre ed i suoi figli.

La moglie non poteva stipulare alcun tipo di contratto per conto suo, senza l'approvazione del marito. In compenso, una donna sposata non poteva essere punita per determinati reati, come il furto e la violazione di proprietà, nel caso essa avesse compiuto tali crimini per ordine del marito. Se rubava per iniziativa sua, in galera; se per ordine del marito, liberi tutti.

Basti pensare del resto che anche gli spazi domestici erano diversificati, per non parlare di quelli extra-domestici. Vi erano luoghi pubblici ai quali le donne non erano ammesse (il whist ad esempio, ed è ancora così oggi: ad alcune stanze le donne non possono accedere).

Parto dal 1791 quando la drammaturga e attivista politica francese Olympe de Gouges pubblicò la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, modellata sulla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino di due anni prima. Vi si affermava che la donna, come l’uomo, è nata libera e rimane uguale all’uomo in diritto.

Ovviamente la rivendicazione rimase inascoltata, soprattutto avversata, e Olympe venne ghigliottinata nel 1793. Nel necrologio apparso su Le Moniteur fu scritto:

"Ricordatevi dell'impudente Olympe, che per prima fondò dei circoli riservati alle donne. Ha voluto essere uomo di Stato e la legge ha punito questa cospiratrice per aver trascurato i doveri propri del suo sesso"

Con la venuta di Napoleone le cose in Francia non andarono certo migliorando per le donne. Il Codice del 1804, che venne esteso anche all’Italia, prevedeva una visione gerarchica ed autoritaria della famiglia: le donne vennero definite di proprietà̀ degli uomini, ritenute incapaci di agire autonomamente; fu loro attribuito il preminente compito di mettere al mondo e allevare i figli, sostanzialmente. Il codice prevedeva però il divorzio; poteva chiederlo il marito per adulterio, la moglie solo se il marito adultero fosse stato anche concubino. Erano poi previsti altri casi gravi (sevizie, ingiurie) in cui era concesso ad entrambi.

In Inghilterra invece, durante il Regno della regina Vittoria, qualcosa iniziò a cambiare e le madri acquisirono tutta una serie di diritti …

1839 - Le madri di impeccabile condotta ottennero l’accesso ai propri figli in caso di divorzio o separazione.

1857 - Le donne ebbero un limitato accesso al divorzio. Ma mentre il marito doveva solo provare l’adulterio da parte della moglie, una donna doveva provare che il marito non solo aveva commesso adulterio, ma anche incesto, bigamia, violenza o abbandono del tetto coniugale.

1873 - Si estese la custodia dei figli a tutte le madri, indipendentemente dal loro comportamento, in tutti i casi di divorzio o separazione.

1878 - Le donne sposate ottennero il diritto di chiedere la separazione in caso di violenza e di pretendere la custodia dei figli.

1884 - Un atto elevò le donne dallo status di proprietà privata a quello di persone distinte e indipendenti.

1886 - Le donne divennero le sole custodi legali dei loro figli in caso di morte del padre.

Nello stesso anno dello Statuto Albertino (1848) a Seneca Falls, una cittadina oggi degli USA nello stato di New York, fu pubblicata la “Dichiarazione dei sentimenti e deliberazioni”: si specificava che uomini e donne sono stati creati uguali, che il Creatore ha attribuito loro diritti inalienabili, la vita, la libertà, la ricerca della felicità. La convenzione fu firmata da 68 donne e 32 uomini. Certo, ci vollero decenni prima che la battaglia iniziata in quel luglio del ’48 vedesse concretizzarsi qualcosa. Nel 1869 il Wyoming fu il primo territorio americano a concedere alle donne il diritto di voto. Dal 1920 le donne hanno diritto di voto in America in tutto il territorio federale.

Cosa succedeva nello Statuto Albertino (1848)? L’articolo 24 non mostrava differenze tra uomini e donne: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinnanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”.

Peccato che poi il diritto di voto ad esempio fosse limitato agli uomini; non parliamo poi della cariche civili e militari (in Italia le donne sono entrate in magistratura nel 1963, e nell’esercito a partire dalla fine del Novecento).

E così nel 1859 il Decreto Rattazzi, emanato dopo l’acquisizione della Lombardia, a scanso di equivoci precisava in merito al voto amministrativo: “Non sono elettori né eleggibili gli analfabeti..., le donne, gli interdetti.. e … coloro che sono in istato di fallimento..., quelli che furono condannati a pene criminali, ...., i condannati per furto, frode o attentato ai costumi”.

Nel Codice Penale del Regno di Sardegna dello stesso anno, 1859, in caso di adulterio la donna andava in galera, l’uomo ci andava solo in caso di concubinato. Si prevedeva una pena detentiva da uno a tre anni per la donna adultera, (idem per l’uomo correo, a patto che non ignorasse che l’amante fosse sposata, se lo ignorava era libero!). Il marito era punito solo in caso di concubinato, l’adulterio da solo non costituiva reato. Questa norma fu abolita SOLO nel 1968!

Certo la frenetica attività diurna e notturna in materia di adulterio, nell’aristocrazia europea, è ben nota … diciamo che vigeva un codice non scritto, che badava principalmente a salvare le apparenze; un assoluto conformismo per cui il male assoluto non era la galera, ma l’esclusione sociale. Questo valeva per il marchese Giustiniani, ben a conoscenza della relazione della moglie Anna con il conte di Cavour …; valeva per Anna Karenina, romanzo che è il perfetto spaccato dell’alta aristocrazia russa. Non ricordo se la frase sia presente anche nel libro, ma nell’ultimo adattamento cinematografico una frase mi ha molto colpita. Anna, completamente isolata dalla nobiltà per aver lasciato il marito per Vronskij, chiede ad un amica “Verrai a trovarmi?” e l’amica risponde “Verrei se tu avessi infranto la legge, ma hai infranto le regole, dunque non verrò!”.

Nel 1865 con il Codice Civile Pisanelli si adottò una legislazione uniforme per tutto il Regno d’Italia. Ahimè, Pisanelli introdusse il principio dell’autorizzazione maritale … per cui una moglie non poteva: donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere e riscuotere capitali …; insomma ogni decisione di natura giuridica o commerciale … doveva avere il via libera del coniuge. Unica eccezione era fatta per la donna commerciante, eccezione legata dunque agli atti commerciali che la moglie compiva nel suo lavoro. Questa norma restò in vigore fino al 1919! Le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né quello di essere ammesse ai pubblici uffici.

Pioniera del movimento di emancipazione delle donne in Italia fu Anna Maria Mozzoni, giornalista, attivista dei diritti civili. Fu, come Cavour, tessitrice di relazioni personali, creando associazioni, ispirando riviste (“La Donna” che fondò nel 1868), conferenziera e scrittrice. Uno dei suoi obbiettivi principali era il voto: affermava che le donne devono poter votare ed essere votate, perché sono cittadine e pagano le tasse, perché sono produttrici di ricchezza, perché pagano l’imposta del sangue nei dolori della maternità, perché portano il loro contributo dell’opera e del denaro al funzionamento dello Stato!

Molti uomini si spesero per l’emancipazione femminile, ne citerò uno.

Nel 1867 il giovane deputato Salvatore Morelli presentò in parlamento una proposta di legge per abolire la schiavitù domestica, e per riconoscere il voto alle donne. Ovviamente la proposta venne bocciata, ma lui non si arrese. Negli anni seguenti si batté per introdurre il divorzio e il principio di parità tra coniugi. Morelli è stato un pioniere dei diritti civili; i colleghi parlamentari lo deridevano, veniva dipinto dalla satira dell’epoca con ritratti offensivi, oppure vestito da donna. Mazzini lo rincuorava scrivendogli: «L’emancipazione della donna sancirebbe una grande verità religiosa, base a tutte le altre (…) Ma sperar di ottenerla alla Camera così com’è costituita, e sotto il dominio dell’Istituzione che regge l’Italia è, ad un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato d’ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù. Noi non l’avremo che dalla Repubblica».

Detto tutto ciò, nella pratica quotidiana, vi erano famiglie dove a “portare i pantaloni” erano le donne … In casa Cavour comandava la marchesa Filippina … Ci penserà poi Carla, nel prossimo incontro, a parlarci di lei … Certo, donne che hanno potuto farlo perché provenienti da famiglie ricche e potenti; a loro però non era data la libertà di sposarsi per amore, ma sempre per interesse; i mariti erano di solito molto più grandi e le mogli dovevano comunque sottostare al loro volere. Chi rimaneva nubile non poteva muoversi liberamente, per non creare sospetti sul proprio onore … Adele Alfieri di Sostegno, la pronipote di Camillo, volendo girare da sola l’Italia e l’Europa, si affiliò ad un ordine religioso, che le garantiva la libertà di movimento; libertà che appunto non era concessa dalla morale del tempo alle donne non sposate o non accompagnate.

Donne caritatevoli quelle di casa Cavour, che hanno fondato scuole femminili gratuite. La nonna di Camillo, ha fondato a Santena una scuola femminile gratuita; la pronipote Adele ha istituito nel castello di Grinzane una scuola materna, una scuola e un laboratorio di cucito per le giovani del paese.

Ci sono poi esempi di donne anticonformiste …

26 aprile 1812 - Madame Blanchard fu l'eroina di una straordinaria impresa. Avvisi vennero affissi per la città di Torino per informare che la signora Blanchard avrebbe compiuto la sua 45a ascensione aerostatica alle ore 4,30 pomeridiane, partendo dal cortile del Palazzo del Valentino. L'aerostato della Blanchard, in mezz'ora dopo la partenza, scomparve agli occhi degli spettatori. La discesa avvenne alle 5 e 22 minuti in un campo di messi, tra Ceretto e Cocconato. La Blanchard morì nel 1819 a Parigi per un incidente sul suo aerostato.

29 giugno 1827 - Elisa Garnerin era la nipote del primo uomo che si lanciò con un paracadute nel 1797, e sua nonna è stata la prima donna ad effettuare un medesimo lancio. Elisa fece conoscere in tutta Europa l'arte di lanciarsi con il paracadute. Nel 1827 giunse a Torino e lasciò tutta la città estasiata con un lancio dal suo aerostato sopra i Giardini Reali dietro piazza Castello. Fu un momento entusiasmante per la città, che vedeva per la prima volta un saggio di paracadutismo. Scrivevano i giornali dell'epoca che ... al momento del lancio corse un brivido per le ossa

Due parole le spenderei per Calamity Jane. Vestiva abiti da uomo, beveva come una spugna e cavalcava tra le lande desolate del selvaggio West. Ebbe una vita circondata da un alone di leggenda: sono poche le certezze e molte le storie inventate. È passata alla storia come la prima pistolera donna.

SCUOLA

Le donne dovevano essere educate, ma non istruite. Le poche ragazze che avevano accesso all’istruzione lo facevano nelle scuole religiose o scuole private aperte da nobildonne. Le giovani aristocratiche imparavano a suonare almeno uno strumento e a parlare più lingue, sapevano disegnare, cantare e ballare tutti i balli alla moda! Le ragazze della borghesia e dell’aristocrazia ricevevano insegnamenti dalle madri o da istitutori. Tutte le giovinette imparavano a cucire: le più ricche, a ricamare; le più povere, a rammendare.

L’analfabetismo in Italia nel 1861 era mediamente del 78% (72% i maschi 84% le femmine). La qualifica di “alfabeta” veniva attribuita a chi dimostrava di saper firmare e di saper leggere … C’erano poi, tra il restante 22%, i semianalfabeti che leggevano a stento, ma non scrivevano, se non a fatica la propria firma.

Nel 1859 Gabrio Casati, come ministro della pubblica istruzione del Regno di Sardegna, fece varare la riforma scolastica che porta il suo nome. La Legge Casati istituì una scuola elementare divisa in due bienni, il primo dei quali obbligatorio anche per le bambine. Questa norma però rimase per lungo tempo poco applicata, sia per i maschi, sia soprattutto per le femmine! Dopo le elementari si poteva accedere al ginnasio, che era a pagamento e dava accesso a tutte le Università, o alle scuole tecniche. Nella legge Casati non c’era un espresso divieto riferito alle donne; per indicarne l’utenza veniva usato il generico maschile. In realtà , essendo gli studi tecnici avvianti ad una professione e il liceo finalizzato agli studi universitari, entrambi i settori venivano pensati senza esitazione come “maschili”, giacché le donne non avevano accesso né alle università né alle professioni. Esisteva però una scuola alla quale potevano accedere le ragazze: la Scuola Normale, per la preparazione dei maestri e delle maestre.

Nel 1862 Elisa Lemonnier fondò in Francia le prime scuole professionali per donne.

La milanese Laura Solera Mantegazza lo fece in Italia nel 1870. Dopo i moti del ’48 si occupò di problemi pedagogici e pauperismo; poiché la diffusione delle fabbriche obbligava molte giovani madri a lasciare senza custodia i figli più piccoli, che nessuno poteva nutrire e sorvegliare, decise di aprire un ricovero per bambini (molto osteggiato dalla Chiesa). Nel 1870 istituì a Milano la prima scuola professionale laica e con finanziamenti pubblici d’Italia (che esiste ancora oggi).

Venne permesso soltanto nel 1874 l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà continuarono ad essere respinte le iscrizioni femminili.

Ernestina Paper, una ebrea di origine russa trasferitasi in Italia, nel 1877 è stata la prima donna a laurearsi in Italia, in medicina, a Firenze. La seconda donna laureata in medicina in Italia fu Maria Farnè Velleda, a Torino nel 1878.

Il titolo di studio però non garantiva ancora l’accesso alle professioni.

Nel 1881 infatti una sentenza del Tribunale annullò la decisione dell’Ordine degli avvocati di ammettere l’iscrizione di Lidia Poët, prima donna laureata in legge. Quindi, laureata sì, ma possibilità di esercitare la professione di avvocato, no. Venne ammessa all’ordine nel 1920.

Fino al 1890 le donne laureate in Italia non furono che una ventina. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento furono 237.

Proprio a causa di tale divieto, alcune donne si sono formate al di fuori dell’ambito universitario. È il caso di Caterina Scarpellini, che a partire dal 1826 ricevette dallo zio una formazione in modo informale nel campo dell’astronomia. Poté proseguire nelle sue mansioni solo all’ombra del marito. Il Regno d’Italia le riconobbe invece meriti senza riserve, conferendole nel 1872 una medaglia d’oro per le sue ricerche.

Voglio ricordare anche Ersilia Caetani Lovatelli, nobile, archeologa, educata in casa, imparò il latino, il greco antico ed il sanscrito. Nel 1879 Quintino Sella decise che, malgrado il suo relativo dilettantismo, dovuto al fatto che non avesse potuto prendere una laurea, diventasse membro dell’Accademia dei Lincei. Fu la prima donna!

Ovviamente le università non erano interdette alle donne soltanto in Italia. Marie Curie, nata a Varsavia, dopo la scuola superiore lavorava come precettrice per potersi pagare le spese universitarie, ma, visto che l’università di Varsavia era vietata alle donne, si trasferì in Francia per studiare alla Sorbonne nel 1891.

E qual era la situazione nel campo della ginnastica e dello sport?!

Per parlare di educazione fisica femminile bisogna aspettare il 1867 quando viene fondata a Torino una scuola di ginnastica preparatoria femminile, dove vengono organizzati corsi della durata di otto mesi, durante i quali si apprendono molteplici discipline.

Nei palazzi inglesi e francesi invece, fin dalla metà del 1700, le nobildonne iniziarono a cimentarsi in giochi di movimento. Il gioco più praticato era il volano o "gioco di Badminton". E così nel 1879 a Dublino gli Irish Championships furono il primo torneo di tennis ad introdurre fin dalla sua prima edizione il singolare femminile; Wimbledon aprì alle donne 5 anni più tardi.

Certo la morale dell'epoca imponeva alle donne vestiti non aderenti, che coprissero tutto il corpo, ed era obbligatorio indossare un ampio copricapo. Era quindi impossibile avere un minimo di libertà di movimento per poter correre, saltare o lanciare.

NON SOLO DISGRAZIE E TRISTEZZA MA ANCHE COSE BELLE

Come la moda, non solo come lavoro per emanciparsi, ma come utilizzo. Perché l’emancipazione passa anche attraverso quello che le donne hanno indossato nel tempo. Abiti comodi creano anche libertà di movimento. Coco Chanel, nata a fine Ottocento, ha dato alle donne la libertà di respirare, abolendo i corsetti, e di muoversi , tagliando le gonne al ginocchio …

C’erano abiti da mattina, abiti da pomeriggio, abiti da tè, abiti da sera o da ballo, da teatro, sete, pizzi, … Le strutture stesse dei vestiti erano incompatibile con il lavoro. Parliamo dunque di una moda riservata alle classi medio-alte. Gli abiti erano anche incompatibili con il lavaggio e necessitavano di cure particolari e delicate. Non si lavavano MAI: quando una signora rientrava a casa, le cameriere provvedevano a smacchiarlo eventualmente con olio, limone, talco o bicarbonato! I rammendi erano affidati alla cameriera personale o, in casi gravi, al sarto. Per rinfrescare i vestiti, si usavano impacchi imbevuti di acqua profumata: la più gettonata era acqua a base di essenza di rose.

La moda cambiò spesso nel corso dell’Ottocento, passando dallo stile impero di inizio secolo alla moda degli anni Trenta, quando le gonne iniziarono gradatamente ad aumentare di volume, per arrivare anche ai sette metri di circonferenza, sostenute da gabbie di fili metallici, perché la crinolina non bastava più. Nel 1850 fece la sua comparsa la cintura a cui veniva appeso di tutto, dalle chiavi, al set da cucito, al raccogligonna (a partire dal 1870): un cordino appeso alla cintura con dei fermagli, che permetteva di sollevare la gonna per camminare più agilmente, ad esempio in caso di pozzanghere.

Col tempo le gonne persero volume e la figura della donna divenne sottile e slanciata; ma le gonne, diventate strette e fascianti, continuarono ad essere una moda non comoda. Nel 1885 è nato il tailleur, una creazione che a dispetto del nome francese è inglese. A fine Ottocento i gioielli più diffusi erano le perle; celebri quelle della Regina Margherita di Savoia, che sfoggiava un decolté ornato da ben 14 fili, ricevuti in dono dal re, uno per ogni Natale!

Anche in questo secolo ci sono le influencer … la contessa di Castiglione, Paolina Bonaparte, la regina Vittoria … giusto per citarne alcune.

La regina Vittoria optò per un abito bianco per il matrimonio, influenzando gli abiti da sposa per i secoli a venire. Negli anni Ottanta iniziò la moda degli abiti da lutto, che raggiunse dimensioni considerevoli proprio in Inghilterra, moda sempre influenzata dalla regina Vittoria, che, dopo il decesso dell’adorato marito Albert, vestì di nero fino alla morte.

Dal 1857 le donne ebbero un’altra opportunità di lavoro. A Parigi il couturier inglese Charles Frederick Worth (sarto personale dell’imperatrice Eugenia moglie di Napoleone III), inventore della haute couture francese, aprì il primo atelier e rivoluzionò il mondo della moda. Le signore da alcuni secoli sceglievano un modello d’abito da una delle bambole in cera, legno o pezza, che ricevevano a domicilio per posta: le ’poupes, PUPI’ de France. Si recavano poi dalla loro sarta per farsi confezionare l’abito. Worth decise invece di utilizzare LE INDOSSATRICI … ed ecco che le donne divennero “modelle”, per mostrare le collezioni dentro gli atelier. Dovevano essere donne alte, con i fianchi stretti ed il seno non troppo prosperoso. Il couturier non cerca una bellezza scultorea e considera le indossatrici come una gruccia-umana. Sarà Coco Chanel nel primi decenni del 1900 a trasformare le indossatrici-manichino in ragazze da invidiare ed ammirare per la loro fisicità.

Certo tutto questo non valeva per le donne del popolo, che di abiti ne avevano a malapena uno; indossavano un’ampia sottana, gonne lunghe e scialli, grembiuli e colori scuri, dato che lavoravano nei campi, e non solo, e si sporcavano facilmente; cuffie per riparare la testa, che nel giorno della messa era di colori più vivaci. L’abito veniva rattoppato e cucito più e più volte … Del resto loro di lavoro da fare ne avevano in quantità ed il tempo libero aveva margini davvero ristretti: le occasioni mondane erano praticamente nulle. La sera ci si ritrovava nelle stalle e lì si socializzava. C’erano poi matrimoni e feste religiose, ma rappresentavano eventi eccezionali; qualche fiera, che segnava la fine di un ciclo agrario o l’avvio del successivo. Dal 1857 le donne hanno avuto un motivo in più per indossare lo scialle della domenica: il carnevale! A Torino, a partire da quell’anno, in pieno Risorgimento, i festeggiamenti per il carnevale si spostarono da palazzo reale nelle strade, diventando così un evento per tutti.

Accennando a Filippina di Sales, prima ho detto che era lei a portare i pantaloni in casa Cavour … Assolutamente da intendere in senso figurato, perché a causa di proibizioni religiose, per senso del pudore le donne non potevano indossare i pantaloni. Tanto meno in Europa, dove era proprio vietato per legge. Il 16 brumaio dell’anno IX (17 novembre 1800) una legge vietava tassativamente alle donne di indossare pantaloni: tale divieto è rimasto in vigore fino al 2013!!!! Nel Novecento l’uso dei pantaloni è stato ampiamente sdoganato, ma non dappertutto in Italia: è del 1989 il best seller “Volevo i pantaloni” dove Lara Cardella racconta che in alcune zone della Sicilia le donne erano bollate come prostitute quando indossavano i pantaloni.

La moda vuol dire anche giornali … Si sviluppò dapprima in Francia e poi in tutta Europa un giornalismo rivolto all’intrattenimento delle donne; i periodici trattavano di moda e non solo.

Nacque così un’opera di divulgazione volta all’appropriazione di un nuovo ruolo sociale per le donne. Accanto alla moda, si davano notizie di carattere igienico, si pubblicavano racconti e poesie … Si iniziò a divulgare articoli e rubriche sulle tematiche politiche fino ad allora ritenute di esclusivo interesse maschile. Le donne divennero direttrici e redattrici di giornali .

Se nella prima metà dell’Ottocento i periodici femminile in Italia si contavano sulle dita di una mano, nella seconda metà del secolo arrivarono ad essere circa cinquanta; nove nella sola Torino! Erano pochissime le donne che firmavano per esteso i propri articoli, la maggior parte usava il nome di battesimo o le iniziali o uno pseudonimo.

Poi nell’Ottocento arrivarono i romanzi; le donne stesse scrivevano romanzi: le sorelle Bronte, Jane Austen, Luisa May Alcott, Mary Shelley, che a soli 19 anni pubblicò nel 1818 “Frankenstein” considerato il primo vero romanzo di fantascienza. Erano esempi rari perché non era permesso alle donne di vivere della propria penna. Le donne abitavano i romanzi, vivevano attraverso le loro pagine: le donne dei libri di Jane Austen, le sorelle March di Piccole Donne, Anna Karenina, Madame Bovary … per citarne davvero solo alcune. Le donne quindi leggevano i romanzi. E che fossero lettrici, scrittrici, personaggi, … le donne trovavano nel romanzo, tipi femminili, comportamenti, destini possibili con cui confrontarsi, identificarsi, differenziarsi.

Ci sarebbero davvero tantissime cose da raccontare …

Ho riassunto un tema vasto, con alcuni accenni a leggi, costumi, consuetudini , a donne che non conoscevo e che sono solo una piccola parte della moltitudine che ha fattivamente contribuito al progresso civile, sociale ed economico dell’Italia.

Emancipazione non significa imitare l’uomo per dimostrare l’uguaglianza delle donne; essere pari non significa essere identici.

Proprio per sottolineare l’importanza delle battaglie civili, che uomini e donne hanno condotto nei secoli, mi piace chiudere questa mia presentazione con una frase di Norberto Bobbio:

"I diritti [...] per fondamentali che siano, sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre!"