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Giulia Colbert de Maulevrièr marchesa di Barolo


di Irma Eandi

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Juliette Colbert de Maulevrièr

Giulia Colbert è una delle figure femminili più straordinarie dell'Ottocento.

Una donna in anticipo sui tempi per molti aspetti. Di grande sensibilità umana e religiosa; nell'impossibilità di diventare madre, si dedicò col marito, il marchese Carlo Tancredi di Barolo, ai bambini poveri, alle ragazze a rischio e a molte opere di promozione sociale. A tale scopo aprirono Case di accoglienza un po' ovunque e, in particolare, si dedicarono alla riforma delle carceri femminili del Piemonte; tale riforma avrà risonanza non solo in Italia, ma anche all'estero, promuovendo una nuova coscienza sociale per il recupero dei condannati.

La marchesa Giulia di Barolo, come veniva chiamata nella capitale sabauda Juliette Colbert de Maulevrièr, fu Sovraintendente del carcere femminile di Torino, nomina ricevuta con dispaccio ministeriale e confermata dal re Carlo Alberto. Prima donna a ricoprire tale carica.

Ma chi era questa nobildonna francese, che seppe riformare e promuovere strutture sociali e religiose nella Torino della prima metà dell'Ottocento e che si fece compagna degli sventurati per ridare una speranza a chi l'aveva perduta?

Nacque il 26 giugno 1786 a Maulevrièr, in Vandea, e venne battezzata Juliette Françoise Victurnie Colbert, secondogenita dei conti Colbert e discendente di quel Colbert che fu Ministro delle Finanze del re Sole, Luigi XIV. La sua famiglia fu travolta dal furore della Rivoluzione francese e perse parecchi famigliari, tra cui la nonna paterna. La famiglia fu quindi costretta a riparare all'estero e visse tra la Germania e l'Olanda.

Nel 1799 sotto il nuovo governo di Napoleone Bonaparte il conte Edouard Colbert, rimasto vedovo con quattro figli, tornò in Francia e recuperò una buona parte dei suoi beni e delle sue proprietà; inoltre entrò a far parte della corte dell'Imperatore.

Nel 1804, quando Napoleone si incoronò imperatore dei francesi, la diciottenne Juliette era una delle dame di compagnia dell’imperatrice Giuseppina Beauharnais e proprio alla corte imperiale conobbe il suo futuro consorte, il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, appartenente ad una delle più importanti famiglie aristocratiche del Piemonte, nominato ciambellano e conte dell'Impero. Col tempo i due giovani scoprirono di avere in comune una vasta cultura, una spiccata sensibilità per i problemi sociali e una sincera fede religiosa, attinta nelle rispettive famiglie e consolidata anche attraverso la pratica della carità verso i poveri. A favorire l'incontro e l'innamoramento reciproco contribuirono anche le doti caratteriali, opposte e complementari; lei “più ardente, generosa e volitiva, intransigente nelle idee per temperamento e tradizione”, lui invece riflessivo, calmo “meno espansivo, più liberale e facilmente remissivo, ma non meno ricco di sentimento e di bontà” (cit. Massè, saggio sul Marchese di Barolo).

Il 18 agosto 1806 venne celebrato a Parigi il matrimonio tra Juliette e Carlo Tancredi e nel 1814, con il ritorno a Torino dei Savoia dopo la parentesi napoleonica, i marchesi si stabilirono definitivamente nella capitale, a palazzo Barolo, in via delle Orfane. Il loro fu un matrimonio caratterizzato da un forte legame d'amore e di intenti, che lascerà una profonda traccia in Piemonte ed una importante eredità, ancora attiva oggi, seppur ridimensionata.

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Carlo Tancredi e Giulia di Barolo

Ma che città era la Torino di quei tempi?

Era la città di Cavour, di d'Azeglio, degli Alfieri di Sostegno, solo per citare alcuni nomi certamente noti, ma era anche la città del Cambio e dei caffè Fiorio, San Carlo, Vassallo e Madera, quest'ultimo abbonato a ben 110 quotidiani; del passeggio elegante sotto i portici di via Po e che politicamente si avviava alla moderata stagione di riforme volute da Carlo Alberto, dopo il rigore repressivo di Carlo Felice; era una città non ancora industrializzata, ma che richiamava molta gente dalle campagne in cerca di lavoro e di fortuna. Purtroppo la maggior parte di essa si trovò ad ingrossare le fila dei già numerosi indigenti, che campavano di espedienti, elemosina, furti, prostituzione; persone che vivevano nella miseria e nella decadenza dei costumi e della persona, a causa della denutrizione , dell'etilismo, dello sperpero al gioco, dell'assenza di igiene personale e domestica e che spesso si ammalavano e morivano per le febbri ricorrenti, aggravate anche dal clima freddo e umido, oltre che a causa delle frequenti epidemie di tifo petecchiale, di vaiolo e di colera come nel 1835.

Per completare il quadro dei problemi di ordine e igiene pubblica della città subalpina, si aggiungano reati quali il furto, l'ozio e il vagabondaggio, allora punibili con la detenzione, omicidi e infanticidi che contribuivano al sovraffollamento delle carceri cittadine. Ed è proprio qui che entra in gioco l'impegno dei benefattori piemontesi, religiosi e laici, da Cottolengo a Cafasso, da Giovanni Bosco a Faà di Bruno, a cui vanno aggiunti i marchesi di Barolo; così istituzioni caritative e filantropia privata si unirono per tentare di arginare e recuperare questa umanità sofferente e pericolosa per l'ordine pubblico, in una città che si avviava a diventare la guida del processo risorgimentale.

Giulia al fianco delle forzate

L'evento decisivo che spinse Giulia di Barolo ad avvicinarsi in maniera sistematica alle detenute risale alla domenica in Albis, il 17 aprile 1814, quando, accompagnata da un anziano domestico, percorreva via San Domenico, e vide passare la processione che portava la Comunione (il Viatico) ad un ammalato; fu colpita da un grido che sembra venir fuori dalla terra: “Non il Viatico vorrei, ma la zuppa!”. Era un condannato alla galera, recluso nei sotterranei delle carceri, al buio e nella sporcizia. Questo episodio, apparentemente insignificante, ebbe per lei il valore di un segno divino e la spinse ad intervenire immediatamente. Propose così al domestico che la accompagnava di entrare con lei nella prigione. Visitò il reparto maschile e vi trovò una situazione sconvolgente; dopo aver percorso la prigione degli uomini, la marchesa fu condotta all'ultimo piano nell'alloggio delle donne, dove trovò una situazione di uguale disagio ed estrema sofferenza. Anche qui la situazione era impressionante e così descrisse il suo primo incontro con le detenute: “Esse si gettarono per così dire, su di me, gridando tutte insieme e il loro stato di degradazione mi provocò un dolore, una vergogna che non posso ricordare senza provare una viva emozione. Come quelle povere donne ed io eravamo della stessa specie, figlie dello stesso padre, anch'esse avevano avuto un'età dell'innocenza! Esse erano chiamate alla stessa eredità celeste! Oh, Dio mio! Mi ricordo che giunsi le mani facendo tale esclamazione. Ne caddero poche monete che esse racchiudevano e, come cani affamati, quelle donne si gettarono per terra per contendersi ciò che probabilmente non sarebbe servito che a procurarsi il mezzo per comprare qualche liquore forte, capace di offuscare la loro ragione e, commettendo un errore in più, per dimenticare per un istante quelli da loro commessi e il loro terribile seguito. Rincasai col cuore a pezzi per il dolore e senza troppo sapere quale rimedio bisognava prendere per migliorare l'esistenza fisica e morale delle carcerate”.

Le “forzate” lì rinchiuse erano prostitute, disperate per fame, più che assassine e ladre, e Giulia chiese al re di poterle visitare. Fece anche di più, rompendo ogni consuetudine e buona maniera: chiese di poter insegnare loro a leggere e a scrivere per poter studiare il catechismo, in primis, e soprattutto per dar loro dignità. Di fronte ai dubbi e ai rifiuti del re, Giulia fu forte e determinata: pregò, minacciò e alla fine ottenne.

Quando entrò dalle forzate, nel Carcere Senatoriale di Torino, queste si ritirarono sulla paglia umida e sporca; qualcuna la maledisse, tentò di aggredirla. Ridotte a reiette, queste donne non speravano che di morire per uscire dall'Inferno. Giulia arrivò con coperte, file di servi portarono ogni giorno pane e laute mance, per ottenere l'assenso delle guardie, e poi carta e matite, libri di preghiera. Era Giulia stessa a insegnare l’alfabeto e l’Ave Maria. Pian piano le urla di rabbia diventarono lacrime. Poiché Giulia non si fermava un attimo, e a furia di insistere, ottenne dal re l’incarico di Sovrintendente alle carceri. Una donna, una nobile, che fece trasferire nelle Torri Palatine, più luminose e più salubri, le detenute.

Non improvvisava, Giulia: aveva visitato le prigioni modello dell’epoca, in Inghilterra e in Danimarca, ed era affiancata e sostenuta dal marito Carlo Tancredi e da Silvio Pellico, da congregazioni di suore e dalle amiche dame, contagiate dalla marchesa indomabile. Instaurò e mantenne il contatto epistolare con Elisabeth Frey, la riformatrice delle carceri londinesi di Newgate e, mettendo in pratica l’esperienza inglese, organizzò la struttura riformatrice per le carceri piemontesi, allora considerate fra le peggiori d'Europa. Fece commutare le pene in lavoro, accorciò i processi, trasformò le leggi, discutendone prima con le detenute stesse. Assicurava l’igiene e l’istruzione di base. Nacquero case per le carcerate in libertà, il “refugium peccatorum” per le penitenti, dove imparare un mestiere e tornare “all’onor del mondo”. Insistette, inoltre, perché a queste donne fosse data l'opportunità di lavorare e di ricavare un guadagno, di cui un quarto depositato in banca ad un modico tasso d'interesse affinché, una volta scontata la pena, ciascuna potesse disporre di una somma come aiuto a reinserirsi facilmente e decorosamente nella società. Quindi quale lavoro per queste donne? Si pensò alla filatura della canapa e del lino, svolta sotto la sorveglianza di istruttrici capaci, per ricavarne tele che potessero essere acquistate dalle caserme e dagli ospedali militari.

«Bisogna farsi amare da esse, provando loro che le amiamo». Sono queste le parole che ispirarono l'opera della marchesa di Barolo.

Gli asili, le scuole e gli ospedali

E poi c’erano i genitori che, con l'affermarsi dell'industrializzazione delle aree urbane, lavoravano nelle fabbriche ed erano obbligati a lasciare i figli da soli: istituì scuole, fondò gli asili infantili, nati a Palazzo Barolo come Sale d'asilo, i primi in Italia e i primi che prevedevano sezioni miste e consideravano importante l'attività fisica e ludica all'aria aperta. Anche in questo caso i marchesi di Barolo si ispirarono alle esperienze già in atto in Europa, basate sulla filantropia scozzese, ed affidarono le scuole alle suore di Sant'Anna, Congregazione nata per volontà di Giulia ed affidata alla Madre Generale Maria Enrichetta Dominici.

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Palazzo Barolo, Torino

E per gli altri poveri, figli e parenti di gente onesta? Case di accoglienza, diremmo oggi: non gli orfanotrofi disumani del regio governo, ma ambienti puliti e caldi, dove si aggirava Leonardo Murialdo. Passava per una benedizione o per aiutare il giovane don Bosco, o il beato Cottolengo: santi che cambiarono il volto di Torino e di tutta la Chiesa di quel periodo. Davano tutto: tempo, lavoro, denaro e soprattutto testa e cuore. Nascevano così strutture quali Valdocco, gli Artigianelli, l’Ospedale del Cottolengo e decine di istituti religiosi per ospitare gli ultimi (all’ombra del campanile di San Donato, disegnato dall’architetto e beato Faà di Bruno).

Negli anni Trenta Giulia marciava a tappe forzate: c’era il colera che aumentava il lavoro, poi la morte dell'amato consorte Carlo, spirato tra le sue braccia in un ostello di campagna, a Chiari in provincia di Brescia al ritorno da un viaggio, «In nome di colui che è finito come un pezzente, devo dedicarmi a tutti i miserabili: devo scontare i secolari privilegi degli avi, saldare i debiti che essi hanno contratto con gli sfruttati». Era il 1838, Il Capitale sarebbe stato pubblicato dieci anni dopo.

E ancora fondò e mantenne l'Ospedaletto per i bambini disabili, scuole professionali per ragazze operaie; laboratori di tessitura e ricamo; istituì l’Opera Pia Barolo affinché portasse avanti i suoi compiti, quando non ci sarebbe stata più e infine si incaricò della costruzione della chiesa di Santa Giulia, nel quartiere popolare Vanchiglia.

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Palazzo Barolo, Torino – Oggi sede dell’Opera Pia Barolo

Il salotto di casa Barolo

Nella Torino del XIX secolo, uno dei salotti più ambiti era quello della marchesa Giulia Falletti di Barolo.

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Palazzo Barolo, Torino

A partire dal 1814 la coppia si era trasferita a Torino, dopo il ritorno dei Savoia, e il salotto di palazzo Barolo era divenuto ben presto uno dei più apprezzati della città. I salotti torinesi “praticavano le buone maniere, gli oggetti della conversazione restavano liberi e senza limiti, l'incontro, il colloquio, il dibattito privato, l'essere informati delle novità politiche e culturali, la legittimazione che se ne traeva erano gli scopi principali del rituale settimanale, gli ospiti divenivano via via più eterogenei per provenienza, ceto, formazione, idee. Vi resisteva l'autorità morale e la funzione aggregante della figura femminile, la padrona di casa, sposata o vedova o separata, mai nubile, con alle spalle solide basi culturali e una complessa educazione a svolgere tale ruolo. Al salotto nobiliare, l'aristocratico invitato partecipava di diritto, il borghese per cooptazione, ma la funzione rimaneva la stessa del salotto borghese, cioè di omologazione, di riconoscimento tra simili, di incontro, di scambio culturale, di assimilazione della borghesia attraverso i suoi rappresentanti intellettuali" si legge nel libro Milleottocentoquarantotto - Torino, l'Italia, l'Europa, edito dall'Archivio Storico della Città di Torino.

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Palazzo Barolo, Torino

I marchesi Barolo seppero inserirsi in queste dinamiche e il loro salotto divenne appunto uno dei più ambiti della città, date le frequentazioni eterogenee e le brillanti conversazioni che ne conseguivano. Gli interlocutori erano in gran parte di tendenze liberali, non mancavano però occasioni in cui la discussione si faceva molto accesa, specie su argomenti legati all'attualità politica e lì, talvolta, alla marchesa scappava qualche battuta tagliente; in queste occasioni il destinatario, appena rientrato a casa, riceveva un biglietto di scuse che poneva immediatamente fine allo screzio.

Ma su certi temi Giulia era irremovibile e ironica nel commentare le tesi che la trovavano in disaccordo. Ad esempio quando nel 1848, al Parlamento Subalpino fu discussa la confisca dei beni dei gesuiti scacciati dal regno, mentre Cesare Balbo e altri liberali si erano dichiarati contrari, il conte Sclopis aveva votato a favore. In una delle sere seguenti, mentre costui si trovava a Palazzo Barolo, il discorso cadde sulla decisione presa dal Parlamento e Giulia, con la consueta franchezza disse: “Conte Sclopis, il discorso fu, secondo il solito, facondo, elegante, erudito : peccato che il suo argomentare arieggi a quello della parabola evangelica in cui si narra che alcuni malandrini, visto venire loro incontro il figlio unico del padrone, dissero : Eccolo, uccidiamolo e faremo nostra la sua eredità” Giovanni Lanza, che riferisce l'episodio, aggiunge che “il dotto giureconsulto stimò prudente il partito del silenzio“.

La cocca di Cavour

Nella cerchia delle amicizie aristocratiche importanti dei marchesi di Barolo un posto di spicco va riconosciuto alla famiglia Benso di Cavour, in particolare l’amicizia della marchesa con Camillo Cavour ha radici lontane, risale addirittura all’infanzia del conte. A sei anni, nel 1816, egli confidava ingenuamente, scrivendo alla zia Vittoria di Sellon, di aver conosciuto “… una charmante jeune et touchante dame que je dis cocote, mais son nom est Juliette Boroline” ovvero “una toccante, giovane e affascinante signora che io chiamo cocote (cocca, bambolina), ma il suo nome è Juliette Baroline”.

La marchesa si prestava al gioco, lo portava a passeggio sulla sua carrozza più bella e gli scriveva: “Mon cher Camille, ta cocotte est si souffrante quil lui est impossible de sortir aujourdhui; d’ailleurs il fait si vilain temps quil faut à son grand regret renoncer à la promenade. Mais tu sais combien elle t’aime, combien elle a de plaisir à ềtre avec toi. Ainsi donne lui randez-vous pour le premier beau jour. Elle viendra te chercher avec toute la pompe qui t’est due, à une condition cependant. Tu lui sera fidèle, tu ne choisiras pas de nouvelle cocotte pour les jours de pluie, tu aimeras ta petite cocotte quelque temps quil fasse. Si cela ne te parait pas impossible, elle te promet des baisers, des bonbons et autant de tours de cours que tu voudras”, che tradotto dice così:

Mio caro Camillo, la tua cocca è così sofferente che oggi non può uscire; d’altra parte fa un così brutto tempo che bisogna purtroppo rinunciare alla passeggiata. Ma tu sai quanto lei ti ama, che piacere prova a stare con te. Allora dalle appuntamento alla prima bella giornata e lei verrà a cercarti con tutto lo sfarzo che ti è dovuto. A una condizione però: che tu le sia fedele, che non cerchi nuove cocche per i giorni di pioggia e che tu voglia bene alla tua piccola cocca, qualunque tempo faccia. Se questo non ti pare impossibile, lei ti promette dei baci, dei dolci e tanti giri di corsa quanti ne vorrai”.

Una grande amicizia

Giulia fu tra le prime persone ad intuire quale ingegno ed energia ci fossero in quel giovane svagato, che amava trascorrere il tempo in sua compagnia e che nel 1832 (all’età di 22 anni) le confidò il suo sogno di svegliarsi una mattina Primo Ministro del Regno d’Italia. Col tempo, una volta entrato in politica, Cavour farà proprie le tesi del liberalismo laicista e le relazioni con l'amica si diraderanno. Ma l'amicizia durerà sempre, tanto che il giorno successivo alla morte dell'amato marito Tancredi, avvenuta nel settembre del 1838, il conte Cavour sarà tra i pochi intimi ricevuti dalla marchesa. Numerosa fu la corrispondenza fra loro, in essa emerge la diversità delle opinioni che non intacca il tono affettuoso; inoltre Cavour, di ritorno dai suoi viaggi, si recava a trovarla. La marchesa faceva ricorso all'amico, in qualità di Ministro, per i suoi istituti o per le opere di bene di cui si occupava e il conte rispondeva puntualmente cercando di assecondare le sue richieste.

Questa lunga amicizia lascerà un segno importante anche nella storia del vino; infatti sarà merito loro il prestigio di quel grande vino che è il Barolo. Alla morte del marito, Giulia acquisì tutte le proprietà della famiglia Falletti, compresi i numerosi vigneti nel territorio nel cuore delle Langhe: a Barolo, Serralunga e Castiglione Falletto. Nel 1840 chiamò il grande enologo francese Louis Oudart per migliorare la qualità e l'apprezzabilità del vino prodotto nei suoi possedimenti delle Langhe. Vennero così applicate le tecniche usate per i grandi vini francesi, con l'obiettivo di creare un vino elevabile allo stesso rango, e che fosse esportabile ed apprezzabile fuori dai confini del Regno di Sardegna. Fu così che si scrisse una delle prime pagine della storia del Barolo moderno, divenuto così famoso che incuriosì persino il re Carlo Alberto, al quale Giulia inviò a corte 325 botticelle, trasportate con una lunga fila di carri, una per ogni giorno dell'anno, esclusi i 40 della Quaresima.

Avendo speso molte delle ricchezze di famiglia per i tanti progetti filantropici, Giulia vide nella produzione di questo importante prodotto l'opportunità di ottenere nuovi introiti a sostegno delle sue opere. La vendita del Barolo permise infatti alla marchesa di impiegare nuove risorse economiche nelle sue attività educative, portate avanti principalmente dalla congregazione delle suore di Sant'Anna negli Asili infantili.

Silvio Pellico a Palazzo Barolo

Il 1832 vide l'arrivo di Silvio Pellico a Palazzo Barolo, uscito l'anno precedente dalla fortezza dello Spielberg, dopo dieci anni di detenzione. Un altro piemontese illustre, nativo di Saluzzo. Mentre si trovava a Milano aveva conosciuto Foscolo e Monti e, successivamente, Pindemonte e Confalonieri, finendo coinvolto nel movimento carbonaro e condannato per questo a morte nel febbraio 1822, pena commutata poi in 15 anni di carcere duro. Aveva raccontato, al ritorno in patria, gli anni del carcere nel libro “Le mie prigioni”, un testo che, si disse: “Nocque all'Austria più di una battaglia perduta”.

Fu Cesare Balbo a presentare lo scrittore ai marchesi; Giulia aveva letto la sua opera appena pubblicata e gli aveva scritto una lettera, dicendogli che desiderava conoscerlo. Dopo il primo incontro, si instaurò tra Pellico e i marchesi di Barolo una profonda stima e una sincera amicizia, che portarono, nel 1834, all'offerta di divenire bibliotecario e segretario di casa Barolo. Silvio Pellico accettò l'incarico e da allora fu un prezioso collaboratore dei marchesi, tanto da affermare che Tancredi, come cita il Lanza, “per lui era più che un fratello” e, scrivendo alla sorella Giuseppina, dirà di Giulia “È una delle più amabili sante che si possa immaginare; è un angelo di bontà, di spirito e di buon umore “. A lei dedicherà una raccolta di poesie, oltre ad altri scritti, confermando l'altissima stima nei suoi confronti. Sarà al fianco della marchesa nelle sue opere di carità e di educazione, via via più numerose, e l'accompagnerà nei suoi viaggi per la penisola redigendo diari accurati e fitte corrispondenze, oltre ad occuparsi della preziosa e ricchissima biblioteca di casa Barolo.

Dal 1837 andrà a vivere a Palazzo Barolo, collaborando ai progetti dell'amica, sostenendola nell'affrontare i lutti famigliari, condividendo successi e sconfitte; sopporterà pettegolezzi e maldicenze e le resterà fedele amico fino alla propria morte avvenuta nel 1854.

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Stanza da letto di Silvio Pellico a Palazzo Barolo

Si conclude una vita operosa

Il 19 gennaio 1864 si concluse l'operosa storia terrena di Giulia Colbert marchesa Falletti di Barolo, che dal 1899 riposa nella chiesa di Santa Giulia, da lei voluta con uno stile che le ricordava le architetture della sua terra, la Vandea.

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Chiesa di Santa Giulia, Torino

Dei suoi molteplici progetti, molto è rimasto a testimonianza delle tante istituzioni da lei volute e realizzate, alcune delle quali ancora attive sul nostro territorio.

In tutta la sua instancabile esistenza, Giulia ha trovato il tempo per documentare tutto: opere, piaceri, dispiaceri, incomprensioni, lutti, sofferenze, amicizie. Il suo diario è una finestra insolita su un periodo storico spesso relegato nei libri di storia ad uso e consumo di un ristretto numero di studiosi o di nostalgici di un'epoca carica di eroi e di spirito romantico.

Il diario e l'epistolario ci descrivono una figura da romanzo, una donna profondamente cattolica, ma anche il perfetto soggetto di un film. Immaginatela a passeggiare nel centro di Torino con un sospirante e adorante poeta, Alphonse de Lamartine, che le promette amore eterno con poetico trasporto: “Perché voi, Juliette, siete unica e grande, ditemi il vostro segreto ...”. Immaginatela guardare la sottile linea rossa sulle montagne al tramonto e rispondere con un sorriso all'amico poeta: «Mon cher, avete letto troppe fumisterie romantiche, parlatemi della vostra nuova raccolta di versi e poi andiamo insieme al vespro, è quasi l’ora».

Santena, 11 marzo 2021