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Pellegrino Artusi - La scienza in cucina e l’arte di unire l’Italia a tavola


di Irma Eandi

L’Artusi ci ha aperto la strada per conoscere noi stessi e la nostra nazione, un cucchiaio alla volta. Ora tocca a noi prendere in mano il nostro futuro culinario. Basta aprire il libro: approfonditelo e lo scoprirete ancora pieno di sorprese.
(Massimo Bottura, ristampa anastatica prima edizione, Giunti 2011)

Pellegrino Artusi (1821-1911)

Pellegrino Artusi (1821-1911)

Chi era Pellegrino Artusi?

Era un mercante. Un signore alto, distinto, con gli occhi scurissimi, dallo sguardo penetrante. Ciglia e capelli neri, la fronte piuttosto bassa e il naso regolare; il mento era tondo e la bocca di forma giusta. Queste sembianze all’età di 25 anni si evincono dal suo passaporto per Padova (formato in folio) emesso dal Governo Pontificio in nome di Sua Santità Papa Gregorio XVI.

A ottant’anni il portamento e lo sguardo erano ancora uguali e, nell’unica fotografia rimasta, tra due immensi favoriti bianchi, si intravede un farfallino vezzoso.

A quell’età era ancora attivissimo: revisionava regolarmente La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene e redigeva la sua autobiografia. A novant’anni, seppur con la vista ridotta, correggeva ancora ricette. Dopo i tanti rifiuti e giudizi negativi sul suo lavoro, l’insperato successo del libro era diventato per lui una rivincita da assaporare.

Nato nel 1820 a Forlimpopoli, oggi provincia di Forlì-Cesena, al tempo territorio governato dello Stato Pontificio, da Teresa Giusti e Agostino Artusi, un commerciante benestante, si trasferì successivamente a Firenze, dove visse in compagnia dei suoi amati gatti, Biancani e Sibillone, con il cuoco, Francesco Ruffilli, e la «buona e onesta» Marietta Sabbatini, ambedue generosamente ricordati nel suo testamento. Morirà a Firenze nel 1911.

Questa in estrema sintesi la sua biografia, ma a guardar bene e con attenzione è possibile scoprire il racconto di una vita da uomo borghese ottocentesco che, perseguendo una passione, darà alla sua vita una svolta significativa ed inattesa che segnerà un’epoca contribuendo a suo modo al percorso di unificazione di un’Italia che si stava formando come nazione, che giungerà fino a noi sotto forma della sua opera più famosa, un libro per l’appunto e che libro!

E allora ripartiamo da capo. Dopo il primo ciclo di studi elementari ed un accenno dei secondi, Pellegrino Artusi ricevette una formazione funzionale al commercio e cominciò ad occuparsi degli affari paterni.

A segnare una svolta nella vita del giovane Pellegrino e della sua famiglia fu la famosa incursione del Passator Cortese, al secolo Stefano Pelloni, a Forlimpopoli, il 25 gennaio 1851. Nella stessa notte in cui fece irruzione nel teatro cittadino, la banda del celebre brigante con un sotterfugio riuscì a entrare nella casa del futuro gastronomo e fare man bassa di denaro e oggetti preziosi. Il colpo banditesco, al di là del danno economico, segnò profondamente la famiglia Artusi: Gertrude, una delle sorelle di Pellegrino, per lo spavento e la violenza subita impazzì e fu internata in manicomio. Questo terribile evento determinò il trasferimento della famiglia a Firenze.

Artusi godette di una vita agiata, senza mai perdere di vista le sue passioni per la letteratura e la cucina. Quando Firenze divenne capitale (1865) Artusi cambiò casa e si ritirò a vita privata, dedicandosi a tempo pieno ai suoi interessi culturali, scrivendo prima una biografia di Foscolo e poi Osservazioni in appendice a 30 lettere del Giusti. Entrambi i libri furono pubblicati a sue spese, senza grande successo, quel successo che sarebbe arrivato invece con La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, pubblicato nel 1891 a spese dell’autore “pei tipi dell’editore Landi “. Prima edizione: 1000 copie.

La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene

La copertina del libro “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene”, Pellegrino Artusi, 1891

Per Pellegrino la cucina era «un’arte inesauribile», fonte di gioia e di piacere, e credendo nella tradizione egli volle autofinanziare tutte le 14 edizioni stampate da Landi e distribuite dall’editore Bemporad.

Artusi non era uno chef e non cucinava. Era un gentiluomo gastronomo dal palato esperto che seguiva una metodologia scrupolosa – rispecchiata nella sua calligrafia precisa – per elaborare e raccontare ricette, ognuna con una storia. Mentre in cucina sobbolliva la «minestra di carne passata», nello studio il pennino si intingeva d’inchiostro elencando ingredienti e descrivendo procedure con un italiano chiaro, semplice e corretto. Pellegrino era un grande maestro del far sapere.

Nella prima edizione del 1891- dedicata ai suoi due gatti – le 475 ricette erano articolate in 21 sezioni, come minestre, fritti, erbaggi e legumi, umidi, pesce, arrosti e dolci, dai babà napoletani ai presnitz triestini, dalla pasta genovese ai brigidini toscani. In un ventennio le ricette diventano 790. In questo arco di tempo le ricette cambiano sia in quantità che in qualità. Artusi, uomo colto, come si intuisce dal catalogo della sua biblioteca, prestava molta attenzione all’importante aspetto linguistico, revisionando l’ortografia e sostituendo parole francesi con quelle italiane. Introduceva anche utensili e metodi nuovi, dimostrando straordinario dinamismo e flessibilità davvero inconsueti per la sua età.

Il volume riporta alla fine «Minute di pranzi» per un anno, con due pranzi di sette e sei portate rispettivamente per ogni mese.

L’uomo è il libro: sono diventati un unicum. L’Artusi, come era noto familiarmente, dopo 14 edizioni, nel 1911, aveva conquistato ben 58.000 lettori che nel tempo diventeranno tre milioni. Un vero primato, quasi da personaggio mediatico. Qual era il suo segreto? Forse la risposta si cela nell’intimità della casa, dove ideò, sperimentò, scrisse e riscrisse il suo manuale per le famiglie. I profumi che emanavano dalle pentole di casa Artusi entravano nell’immaginario degli italiani dal Nord al Sud. Attraverso l’intensa corrispondenza egli era in contatto con migliaia di persone ansiose di confrontarsi sulla conserva di rose, di migliorare la cottura di un brasato o di conoscere la ricetta per il ‘gelato di banano’.

“Artusi: per antonomasia libro di cucina. Che gloria! Il libro che diventa nome! A quanti letterati toccò tale sorte? Era l’Artusi di Forlimpopoli… cuoco, bizzarro, caro signore, e molto benefico, come dimostrò nel suo testamento, e il suo trattato è scritto in buon italiano. E non era letterato né professore.”
(Alfredo Panzini, 1905)

Pur non avendo famiglia, Pellegrino era identificato come una figura essenzialmente familiare dai suoi lettori, la personificazione della cucina di casa. Si sapeva dove abitava, perché il suo indirizzo a partire dalla terza edizione figurava nel frontespizio e il libro veniva venduto o spedito dal suo domicilio. Senza poter disporre allora di una ‘trasmissione in onda’, egli aveva creato una ‘audience’, una rete di conoscenze incentrata sulla cucina. Lisa Biondi fu un’invenzione di Van den Bergh per creare un contatto ‘umano’ con la gente, mentre Pellegrino Artusi era una persona vera, riconosciuta per la sua autorevolezza: pater e mater familias degli italiani.

Per primo Piero Camporesi – noto filologo, critico letterario, storico, antropologo e gastronomo italiano - ha rilevato come La scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto siano riusciti a fare I promessi sposi. Non stupisce quindi che nel 1931 quando le edizioni erano giunte a quota 32 l’”Artusi”, come ormai veniva chiamato, fosse uno dei libri più letti dagli italiani, insieme a “I promessi sposi” e a “Pinocchio”.

Il libro rappresenta un felicissimo connubio tra lingua e palato italiano e la sua fortuna attraverso il tempo testimonia il profondo significato di un viaggio culinario, un classico tutto italiano che coglie lo spirito di un’epoca.

Non è soltanto un ricettario, è un racconto di vita, uno spaccato della società borghese fiorentina. Si legge quasi come un romanzo, dove si incontrano personaggi noti come Paolo Mantegazza, insigne antropologo e patologo, che ha voluto dedicargli il suo Almanacco del 1893 (con 25 ricette), e Olindo Guerrini, poeta, scrittore e bibliotecario dell’Università di Bologna, ambedue amici che hanno contribuito al successo del libro. Il testo, che ha una sua dimensione umanistica, è ricchissimo di aneddoti e ricordi personali, digressioni scientifiche, economiche, culturali e storiche, come l’incontro dell’autore con Felice Orsini ai Tre Re a Bologna (ricetta n 235 Maccheroni col pangrattato) o la ricetta per «le fave dei romani o dei morti» che ricorda Pitagora e le feste Lemurali.

“Col darci questo libro voi avete fatto un’opera buona e perciò vi auguro cento edizioni”
(Paolo Mantegazza, 1893)

L’autore dimostra una preferenza per il gusto soave del dessert con una ricca selezione di 174 ricette: 76 per la pasticceria, 74 per torte e dolci al cucchiaio, 24 per i gelati. Con il Dolce Roma, di «gusto signorile» a base di mela e crema, il Dolce Torino, «preparato con savoiardi bagnati col rosolio, cioccolato e nocciole», e il Dolce Firenze, una sorta di budino di «pane sopraffino» con uva sultanina, quasi fosse il «Garibaldi della forchetta», Artusi conferisce alle capitali d’Italia una degna rappresentanza nell’arte dolciaria.

All’anagrafe Pellegrino Artusi risultava celibe, ma in realtà si era sposato in tarda età con La Cucina Italiana, una moglie amabile e burrosa, profumata alla cannella, saporita quanto bastava, alla quale rimase fedele.

Un ricettario per la Nazione

Quando nel 1891 Pellegrino Artusi pubblica, a sue spese, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, la materia gastronomica si fissa in un abbecedario di economia domestica che si diffonde rapidamente presso una borghesia urbana ormai pronta ad accedere a stili e modelli di vita in via di diffusione in tutta Europa. Si può dire avviata, infatti, in questo scorcio di fine Ottocento, una fase di potenti trasformazioni sociali che agiscono nelle pratiche legate al tempo e alla vita domestica. Entrano a pieno titolo in questo processo anche la diffusione, dapprima in Francia e poi anche in buona parte dell’Europa, di testi gastronomici e la crescita d’interesse per quelle particolari opere a stampa che sono i ricettari: volumi attraverso cui si socializzano abitudini quotidiane sempre più facilmente condivise, pronte a penetrare negli spazi di relazione che sono propri degli stati-nazione.
Oltre il quadro complessivo è interessante osservare in che modo il processo si declina nella realtà del nuovo nato stato italiano. Pellegrino Artusi non è uno chef né si può definire un gastronomo di professione, è un anziano e facoltoso signore – ha 71 anni quando compare per la prima volta il ricettario che lo renderà famoso – cultore di poesia foscoliana. Romagnolo di origini, da sempre scapolo, vive da molti anni a Firenze, dove si è a lungo occupato di commercio. Mazziniano e profondamente anticlericale, è piuttosto ben inserito nel contesto intellettuale del positivismo italiano. Una descrizione che mai farebbe pensare come il suo destino fosse di passare alla storia come l’autore del più importante ricettario italiano.

Lo strapotere della Francia nell’Europa gastronomica

Per comprendere meglio in che senso l’opera di Artusi possa definirsi “nazionale”, oltre che del tutto originale, può essere utile osservare cosa stesse avvenendo Oltralpe. Il modello della cucina francese rappresentava, ormai da decenni, lo standard sul quale si misurava il buon gusto in tutta Europa. In aggiunta, proprio in quel periodo, stavano diffondendosi la filosofia e la pratica gastronomica di uno dei più grandi cuochi della storia della cucina: Auguste Escoffier (1846-1935), inventore della “brigata di cucina” (ancora oggi modello di organizzazione delle cucine professionali) e collaboratore di César Ritz (1850-1918), proprietario dell’omonima catena di alberghi di lusso. Di fronte a uno strapotere fuori discussione, Artusi scrive il suo ricettario osteggiando senza mezzi termini il modello dominante: storce il naso di fronte a certe raffinatezze gourmand che ritiene inadatte allo stile di vita di quella nuova maggioranza di media e piccola borghesia italiana, sempre meno disposta a desiderare – senza peraltro mai raggiungerlo – il privilegio di un’ostentazione da alta borghesia di tendenza esterofila e cultura cosmopolita. In questo senso, la proposta di Artusi funziona perché testimonia una realtà, ma anche una cucina, provinciale che si riconosce nella contiguità fra città e campagna e che si sente profondamente radicata alla terra. Ed è quello stesso radicamento al territorio che diviene uno dei caratteri per l’elaborazione e la valorizzazione di tipicità gastronomiche di marca italiana e di dimensione domestica. È senza dubbio fra queste pagine che la cucina italiana prende alcuni dei caratteri di quello che oggi, in tempi di globalizzazione, è diventato Italian food.

Ricette rassicuranti e un inatteso successo di pubblico

Una delle chiavi per comprendere il successo del ricettario sta nella particolare accortezza dell’autore di ragionare attorno a una versione poco pretenziosa della cucina che piace alla borghesia cui si rivolge, moderata politicamente e conformista nei comportamenti. Se di lusso si può parlare è senza dubbio adattabile a una società nel suo complesso ancora piuttosto povera e, appunto, provinciale. Eppure, non è solo questo. Lo spunto alla pubblicazione può certamente dirsi la volontà di contribuire a un discorso pedagogico, di stampo positivista, per una proposta di razionalizzazione delle abitudini alimentari in un’Italia ancora intenta a riconoscere sé stessa e a superare la cifra di un monopolio secolare. Opera meritoria, almeno così sembrerebbe, eppure l’autore cerca a lungo, e senza risultato, un editore per quel suo progetto che alla fine pubblica a proprie spese. Poi il boom: nel periodo definito “ventennio artusiano” (1891-1911) saranno quindici le edizioni pubblicate, tutte riviste e arricchite, mentre gli editori proveranno a contendersi un titolo divenuto appetibile entro un genere rivelatosi improvvisamente promettente. In questo senso la vicenda de La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene è anche la storia di un grande successo editoriale che, proprio in forza di questo, contribuisce a standardizzare modelli diffusi per azioni quotidiane come la spesa, l’economia domestica, l’ordine delle vivande nel pasto, la maniera di consumarle o di presentarle agli ospiti.

«Le signore di gusto delicato e fine»

Resta da comprendere chi sono i lettori di Artusi. Senza dubbio borghesi, e tuttavia la sola indicazione della classe sociale di appartenenza non spiega abbastanza. Meglio precisare che sono per lo più donne: un pubblico di signore che inizia a interessarsi di cucina con lo sguardo accondiscendente di chi è disposto a riconoscere come anche preparare una minestra possa diventare un gesto di distinzione sociale. Donne che fino a quel momento avevano lasciato a una qualche “servetta” la preparazione dei pasti e che ora sono spinte a occuparsi del ménage domestico per via del diffondersi di nuovi ruoli e funzioni nell’organizzazione della famiglia borghese, soprattutto urbana. La stessa redazione delle numerose edizioni del ricettario è condizionata dalle fitte corrispondenze che Artusi intrattiene con le sue lettrici e che alimenta un passaparola capace di incrementare le vendite e attualizzare e rilanciare il dibattito attorno alla trattatistica gastronomica e domestica. Se ne origina un sapere esperto molto differente da quello che caratterizza la trattatistica francese, per lo più rivolta a professionisti o raffinati gourmand. Un sapere che sembra alla portata di tutti, a patto di essere disposti a introdurre qualche dose di buona volontà. L’autore è, in questo senso, una sorta di alter-ego di tutti i suoi lettori: per anni Ada Boni (1891-1973), autrice de Il talismano della felicità (1924), unico long seller a potere contendere la fama del ricettario artusiano, gli rimprovererà una «incompetenza tecnica» assolutamente imperdonabile. Senza comprendere che Artusi funzionava proprio perché dalla sua “imperizia” si dipanava un discorso ragionevolmente abbordabile: come fosse un’alfabetizzazione che favoriva il diffondersi di una pratica semi-sconosciuta fra lettrici fino ad allora abituate e delegarla alla servitù.

Artusi fu abilissimo a codificare un modello al di fuori delle rigidità del canone professionale. E non c’è dubbio che molti degli usi della cucina famigliare borghese novecentesca siano stati da lui elaborati e trasmessi. Operazione non sempre facile, per la quale poteva essere necessario superare pregiudizi diffusi, criticati bonariamente con l’atteggiamento prudente di un autore capace nella scrittura persuasiva. Come si legge in queste righe dedicate a un’umile Torta di patate.

«Se i vostri commensali non distinguono al gusto l’origine plebea di questa torta occultatela loro perché la deprezzerebbero. Molta gente mangia più con la fantasia che col palato e però guardatevi sempre dal nominare, almeno finché non siano già mangiati e digeriti, quei cibi che sono in generale tenuti a vile per la sola ragione che costano poco o racchiudono in sé un’idea che può portare ripugnanza; ma che poi, ben cucinati o in qualche maniera manipolati riescono buoni e gustosi. A questo proposito vi racconterò che trovandomi una volta ad un pranzo di gente famigliare ed amica, il nostro ospite per farsi bello, all’arrosto uscì con questo detto: «Non potrete lagnarvi che non vi abbi trattati bene quest’oggi: persino tre qualità d’arrosto; vitella di latte, pollo e coniglio». Alla parola coniglio diversi dei commensali rizzarono il naso, altri rimasero come interdetti ed uno di essi, intimo della famiglia, volgendo con orrore lo sguardo sul proprio piatto rispose: «Guarda quel che ti è venuto in capo di darci a mangiare! Almeno non me lo avessi detto! Mi hai fatto andar via l’appetito!» A un’altra tavola essendo caduto per caso il discorso sulla porchetta (un maiale di 50, 60 kg sparato, ripieno di aromi e cotto intero nel forno) una signora esclamò: «Se io avessi a mangiare di quella porcheria non sarebbe possibile». Il padrone di casa piccato dell’offesa che si faceva ad un cibo che al suo paese era molto stimato convitò la signora per un’altra volta e le imbandì un bel pezzo di magro di quella vivanda. Essa non solo la mangiò, ma credendola fosse vitella di latte, trovava quell’arrosto di gusto eccellente.»

Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Milano, Bur, 2010, p. 641.

Per concludere …

“La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere. Superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria”. Pellegrino Artusi

Santena,24 gennaio 2024