Incontri Cavouriani

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Emilio Visconti Venosta, patriota, più volte Ministro degli Esteri, Senatore del Regno d’Italia.


di Paolo Brancatelli

Emilio Visconti

Emilio Visconti Venosta (1829-1914)

Dire di lui è dire tutta la storia del risorgimento d’Italia nelle sue tappe più notevoli e gloriose. Quando per il bene d’Italia conveniva ordire congiure e cospirazioni egli congiurò e cospirò con Mazzini: quando parve utile la rivolta, egli a Milano diciottenne partecipò alla sommossa contro l’Austria e fu sulle barricate a combattere contro gli usurpatori del suolo italiano. Quando s’avvide che i moti mazziniani non avrebbero da soli portato all’unità d’Italia, e non tenevano conto di tutta la realtà, perseguitato dal governo austriaco, fu costretto ad emigrare in Piemonte, divenne collaboratore di Camillo Cavour e, nel 1859, ricoprì l’importante, delicato e rischioso ruolo di Regio Commissario del Re Vittorio Emanuele per la Lombardia al seguito di Garibaldi, nei Cacciatori delle Alpi, durante la seconda guerra d’Indipendenza.

Era a Napoli con Vittorio Emanuele quando Garibaldi consegnò al re nella reggia dei Borboni il risultato del plebiscito; era ministro degli Esteri quando Roma divenne capitale d’Italia; più volte a capo del ministero degli Esteri è l’uomo che più ha inciso sulla formazione della diplomazia del nuovo regno.

Fu Deputato al Parlamento a partire dal 1860 e divenne Senatore del Regno nel 1886. Fu Ministro degli Esteri nei Gabinetti Minghetti (1863-1864), Ricasoli (1866-1867), Lanza (1869-1873), Minghetti (1873-1876), Antonio Starabba marchese di Rudinì (1896-1898), Pelloux (1899-1900), Saracco (1900-1901). Fu inoltre Ambasciatore a Costantinopoli (1864-1866) e rappresentante dell'Italia in varie questioni di carattere internazionale.

Emilio Visconti Venosta è stato senza dubbio uno dei più importanti ministri degli Esteri d’Italia. Assunse questa carica giovanissimo, a 34 anni nel 1863, per tenerla quasi ininterrottamente fino al 1876, personificando la politica estera della Destra storica. Ritornò poi alla guida del dicastero degli Esteri nel 1896 e, con brevi pause, vi restò sino al 1901. Quel giovane così misurato e riguardoso, parco di parole, alieno da ogni vanità, come da ogni volgarità, e precoce uomo maturo, suscitava non poche diffidenze, e grande era l'attesa del suo primo discorso, che pronunziò il 26 marzo del 1863 sulla questione polacca. Fu un successo, per le cose che disse e il modo come le disse. L'argomento era scottante, dati i tempi. Il discorso si chiuse con la indimenticata dichiarazione: indipendenti sempre, ma isolati mai, che strappò gli applausi più caldi dell'Assemblea. Quel discorso apri la serie dei suoi successi parlamentari, che furono tanti nei molti anni che resse il Ministero degli Esteri.

Erano riserbate al Visconti Venosta la gloria e la fortuna di legare il proprio nome alla uscita degli stranieri dall'Italia. Nella veste di ministro, nel 1864, sottoscrisse la Convenzione di settembre con la Francia sulla questione romana; andarono via i francesi da Roma; e dopo la guerra del 1866, gli austriaci dal Veneto; Legge delle Guarentigie; elaborazione di una vera e propria dottrina strategica per la posizione internazionale dell’Italia; riavvicinamento alla Francia all’alba del ’900. Ma la maggior gloria fu l'impresa di Roma nel 1870, che compì il più grande evento dell'epoca moderna: la fine del potere temporale dei papi, garantendo alla Chiesa il libero svolgimento della sua azione religiosa nel mondo, e garantendo la coscienza cattolica rispetto alla nuova condizione fatta al papato. Nel tempo stesso si dava all’Italia la sua capitale. Il testamento di Cavour si compiva, ed esecutore testamentario era Emilio Visconti Venosta.

Per i suoi meriti verso la nazione fu creato marchese di Avigliana e, nel 1901, ricevette da Vittorio Emanuele III di Savoia la massima onorificenza sabauda, il gran collare dell’Annunziata, che lo rese “cugino del re” e fu nominato Senatore del Regno.

Dopo la bufera elettorale del 1876, il Visconti stette lontano per molti anni dalla politica attiva senza irrequietezze, né impazienze morbose, né petulanti lamentele. Rifuggiva da ogni volgarità, ed aveva alta la coscienza di sé. Non si potrebbe affermare se quell’uomo fu più modesto che superbo. Non fu solo un diplomatico, presiedette il Consiglio superiore delle Antichità e Belle Arti. Emilio V. V. fu un raffinato e appassionato collezionista di opere d’arte, un cultore della storia dell’arte, un frequentatore assiduo di musei e un critico dilettante, presidente dell’Accademia di Brera e, in genere, «amante del bello», come testimoniato anche dalla sua grande Villa-Museo di Grosio, ricca di pezzi d’arredo originali, mobili databili tra il XVI e il XX secolo provenienti da altre dimore di famiglia o acquistati da Emilio V.V. (una parte dei quadri di sua proprietà è esposta a Milano al Museo Poldi-Pozzoli). Si occupò di fiori; e le collezioni di rose e di crisantemi a Santena, da lui curate con rara intelligenza, erano fra le più interessanti d'Italia. Fu tutto questo perché era in primo luogo un patriota, convinto che il bello e il collezionismo di opere d’arte da parte dei notabili servisse a evitare che il cospicuo patrimonio artistico della penisola fosse esportato all’estero, a vantaggio di collezioni private e pubbliche straniere. In altre parole, Emilio V. V. dimostrò anche nella sua vita privata, oltre che in quella pubblica, come la grandezza e il rafforzamento dell’Italia unita fossero il principale scopo della sua esistenza. Il ministro degli Esteri, inoltre, trovava conforto nell’arte nei momenti in cui la sua attività politica incorreva in delusioni, ad esempio a causa dei difficili rapporti con Vittorio Emanuele II.

I VISCONTI VENOSTA

LE ORIGINI

Le prime vicende dei Venosta, che erano di origine alto-atesina e che diedero alla storia della Valtellina una serie di importanti personaggi, risalgono all'anno Mille.

Quello dei Visconti Venosta fu un ramo della nobile famiglia dei Venosta, la quale derivò il proprio nome dall’aver ottenuto l’infeudazione della Val Venosta e della Val di Mazia o Mätsch, una valle laterale della Val Venosta nel comune di Malles, ad opera del vescovo di Coira (la capitale dei Grigioni in Svizzera).

GLI AVI

Il primo personaggio Capostipite noto della famiglia Venosta è Egano «de valle Venusta», vivente nell’anno 1131, il quale ebbe un figlio, Artuico, e un nipote, Eginone. Quest’ultimo ebbe due figli. Egano e Gabardo, i quali diedero origine rispettivamente ai conti di Mätsch ed al ramo valtellinese della famiglia che prese appunto il nome di Venosta.

Gabardo (1187-1226), scelse di stabilirsi definitivamente in Valtellina, e scelse come dimora il castello di Pedenale a Mazzo di Valtellina. Da quel momento i possedimenti della famiglia aumentarono e si moltiplicarono i rami collaterali. Uno di questi rami ricevette in dono dal vescovo di Como il castello di San Faustino a Grosio.

Castello di San Faustino a Grosio

Castello di San Faustino a Grosio

Il Castello di Grosio, costruito fra il 1350 e il 1375 per volontà dei Visconti di Milano, fu smantellato nel 1526 dal popolo dei Grigioni, detto anche il Cantone delle “Tre leghe” (Lega della Ca' di Dio, Lega Grigia e Lega delle Dieci Giurisdizioni). Il Grigione è anche l'unico Cantone ufficialmente trilingue (italiano, romancio e tedesco).

A Gabardo seguì Corrado Venosta (1226-1278), signorotto intraprendente che fu più volte trascinato in guerre e tenzoni. Morì in circostanze mai chiarite e durante la sua vita fu un tipico esempio di avventuriero medioevale.

Nel Quattrocento i Venosta strinsero rapporti di amicizia con la potente famiglia dei Visconti di Milano e a suggello di tale legame, ottennero nel 1419 dal duca di Milano, Filippo Maria Visconti di aggiungere al cognome Venosta il cognome Visconti e di inquartarne le armi. Era importante per i Visconti il rapporto con una famiglia di grande peso in Valtellina, spiegabile col fatto che i duchi milanesi avevano pensato, tramite loro e la loro influenza in loco, di ottenere un maggior controllo delle aree di confine con la Confederazione Elvetica, strategicamente rilevante per lo sbocco verso il Centro Europa. E fu così che nacquero i Visconti Venosta.

Stemmi Venosta e Visconti

Lo stemma della famiglia Venosta (a sinistra) e quello dei Visconti Venosta con il biscione visconteo (a destra)

Quando si trasferirono nel "castello nuovo", vi rimasero fino alla dominazione dei Grigioni, che lo distrussero parzialmente costringendo i proprietari a cercar casa in paese. In tale circostanza essi presero possesso della parte vecchia della Villa.

Marcantonio Venosta, detto "il grosso", fu tra i protagonisti del "sacro macello" del 1620. Durante il sanguinoso episodio la Villa fu saccheggiata e incendiata, e non servì a restituirle il perduto patrimonio la sua riedificazione avvenuta verso la fine del Seicento ad opera del gesuita Marcantonio, omonimo pronipote del "grosso".

Xilografia raffigurante il sacro macello Valtellina nel 1620

Xilografia raffigurante il “sacro macello” operato da un gruppo di cattolici ai danni della popolazione riformata della Valtellina nel 1620

In età illuminista troviamo Nicola (1752-1828), uomo dotto, appassionato di archeologia e non privo di vena letteraria. Grazie alle sue "memorie" fu possibile ricostruire l'albero genealogico della famiglia.

Francesco (1797-1846), figlio di Nicola, nel 1823 si trasferì a Milano con la sua famiglia e si occupò di problemi sociali ed economici; è da ricordare il suo volumetto "La Valtellina nel 1844", che contiene indagini statistiche sulle condizioni umane e ambientali della provincia di Sondrio nel primo Ottocento. Francesco ebbe quattro figli: Nicola (morto in tenera età) Emilio, Giovanni ed Enrico. Enrico morì giovane, dopo aver vissuto all'ombra dei fratelli. A Giovanni (1831-1906), che fu un personaggio chiave del movimento risorgimentale in Valtellina e che amò a sua volta la letteratura, si devono i "Ricordi di gioventù”, opera fondamentale per conoscere abitudini, segreti e retroscena di famiglia, e la celeberrima ballata del "prode Anselmo".

I tre fratelli Emilio, Giovanni ed Enrico Visconti Venosta

I tre fratelli Emilio, Giovanni ed Enrico Visconti Venosta

Ma la figura più emblematica della casa fu senz'altro Emilio Visconti Venosta (1829-1914). Laureatosi in giurisprudenza a Pavia, prese anche lui parte attiva alle vicende militari e politiche del suo tempo, dapprima aderendo agli ideali repubblicani e successivamente facendosi cavouriano. Di Cavour sposò addirittura una pronipote, Maria Luisa Alfieri di Sostegno (1852-1920), figlia di Carlo Alfieri di Sostegno e Giuseppina Benso di Cavour (figlia di Gustavo marchese di Cavour, fratello di Camillo). Maria Luisa era lontana discendente dello scrittore Vittorio Alfieri, e da lei ottenne il titolo di Marchese. Quando intraprese l'attività politica non tardò a rivelare insospettabili doti di statista. La sua fama è soprattutto legata alla carriera di Ministro per gli Affari Esteri del Regno, che ricoprì per ben sette volte e che gli permise di sottoscrivere, nel 1864, la storica "convenzione di settembre" coi francesi sulla "questione romana". Emilio e Luisa ebbero cinque figli, Paola (1877-1886, morta di difterite), Carlo (1879-1942, sepolto a Santena), Francesco (1880-1898, morto per un attacco di appendicite), Enrico (1883-1945) e Giovanni (1887-1947), Marchese di Cavour, ultimo discendente dei Benso ad avere il diritto di fregiarsi del titolo, concesso la prima volta nel 1649 a Michele Antonio Benso da Carlo Emanuele II.

I tre fratelli Enrico, Carlo e Giovanni erano notevoli per ingegno e doti naturali, fermi nel carattere e risoluti nelle loro decisioni e posizioni politiche. È noto, ad esempio, che non accettarono compromessi col fascismo. Essi ereditarono dagli avi materni tre castelli: il primo a Santena, il secondo, il castello Alfieri, a San Martino Alfieri in provincia di Asti, e il terzo a Magliano Alfieri in provincia di Cuneo.

Castello di Santena (in alto a sinistra), Castello di San Martino Alfieri (in alto a destra) e Castello di Magliano Alfieri (in basso)

Castello di Santena (in alto a sinistra), Castello di San Martino Alfieri (in alto a destra) e Castello di Magliano Alfieri (in basso)

Carlo, essendo il primogenito maschio, portava anche il titolo di Conte di Cavour, ereditato dalla madre. Alla morte dei fratelli, Giovanni ereditò tutti i titoli della famiglia: Marchese di Brelio, Marchese di Sostegno, Marchese di Ca' del Bosco, Cavaliere d'onore e di devozione dell'Ordine di Malta, Marchese di Avigliana, Conte di Isolabella e Signore di Valdichiesa.

Carlo e Giovanni, sempre malaticci, fecero della loro vita una sorta di sfida al destino. Carlo, come Enrico, scriveva poesie e se ne conservano ancora negli archivi della villa Visconti Venosta di Grosio.

Dei cinque figli di Emilio e Luisa, Giovanni fu l’unico che si sposò. La consorte, Margherita Pallavicino Mossi (1898-1982) è dunque l’ultima discendente dei Benso e dei Visconti Venosta. Dall’unione non nacquero figli e Giovanni Visconti Venosta alla sua morte, avvenuta nel 1947, lasciò in eredità alla Città di Torino il Castello di Santena con il relativo parco, la torre, i preziosi cimeli, una serie di quadri di gran pregio e altri oggetti di valore. Tutto ciò con la clausola che vietava modifiche della proprietà pur potendo essere utilizzata come casa di riposo per studenti e artisti.

Visconti Venosta (1887-1947) e la moglie Margherita Pallavicino Mossi (1898-1982)

Visconti Venosta (1887-1947) e la moglie Margherita Pallavicino Mossi (1898-1982)

La villa dei Visconti Venosta a Grosio fu ristrutturata alla fine del XIX secolo dal Marchese Emilio, che ne fece una residenza prevalentemente estiva.

La villa è formata da un corpo centrale con portico e loggiato e da due ali che racchiudono la corte. L'ala sinistra costituisce la parte più antica del palazzo, e venne ricostruita a fine '600, dopo che fu distrutta durante le insurrezioni valtellinesi. L'ala destra, come detto, è frutto dei rifacimenti voluti a fine '800 dal Marchese Emilio.

Attorno al palazzo c'è il vasto parco che venne creato a fine '800, e che oggi è pubblico. All'interno della villa si susseguono ambienti ricchi di storia, mobili d'epoca e preziosi oggetti d'arte. È possibile, ad esempio, ammirare le ante di un'ancona dipinte a tempera dall'artista grosino Cipriano Valorsa (1597), un olio su tavola cinquecentesco di Scuola Ferrarese raffigurante il Redentore sul Sepolcro ed altri interessanti esemplari della collezione artistica del Marchese, la sedia appartenuta a Cavour.

Sono inoltre presenti una ricca biblioteca e l'archivio di famiglia. Dopo la donazione del palazzo al Comune di Grosio, avvenuta nel 1982 ad opera della Marchesa Margherita Pallavicino Mossi, l’edificio è diventato Museo.

Villa Visconti Venosta a Grosio

Villa Visconti Venosta a Grosio

EMILIO VISCONTI VENOSTA

Dopo l’annessione della Valtellina nel 1815 al Regno Lombardo-Veneto, ottenuta nel 1816 la conferma di nobiltà, Nicola Visconti Venosta, nonno di Enrico, Emilio e Giovanni, si trasferisce con la famiglia a Milano nel 1823, pur continuando a conservare i cospicui possedimenti terrieri in Valtellina, con la quale rimase forte pure il legame affettivo. Francesco V.V., figlio di Nicola e padre dei quattro fratelli Nicola, Emilio, Giovanni e Enrico, morì improvvisamente a quarantotto anni nel 1846, dopo che il primogenito Nicola era già morto nei primi anni di vita e il quartogenito Enrico era affetto da gravi problemi di salute.

Emilio e Giovanni, con meno di tre anni di differenza di età, crebbero in stretta simbiosi e rimasero legatissimi e in un certo senso complementari. Da giovani avevano entrambi i capelli rossicci, che Emilio accompagnava con lunghi favoriti accarezzati frequentemente e che da vecchio coltivava sempre più imponenti (il bellissimo e imponente ritratto presente nel Castello di Santena ne è una limpida testimonianza), i quali insieme agli immancabili pantaloni bianchi, gli conferivano l’aspetto di un “gufo bianco”, come sembrò allo storico dell’arte Adolfo Venturi. Fin da giovane Emilio emanava un’impressione di autorevolezza, di equilibrio, di flemma britannica. Misurato, sempre calmo, signorile nei modi, parco di parole, era in realtà dentro di sé molto emotivo e impressionabile. Mai avventato, anche per una certa irresolutezza e indolenza, trasformava in arma tattica l’attesa che i fatti si svolgessero secondo la loro forza interna.

I fratelli Emilio (1829-1914) e Giovanni Visconti Venosta (1831-1906)

I fratelli Emilio (1829-1914) e Giovanni Visconti Venosta (1831-1906)

Giovanni era invece estroverso, brillante, affabulatore e ammiratissimo nei salotti milanesi, per la vena brillante di compositore di parodie per marionette, fino al felice scherzo poetico dell’autunno del 1856, “La partenza del crociato”, con l’immediata notorietà del personaggio del “prode Anselmo”, privo però di intendimenti politici. In quei salotti incontrò pure la marchesa Laura d’Adda Salvaterra, che sposò nel 1882 e da cui non ebbe figli. Dotato di maggiore senso pratico di Emilio e forse anche di più acuto fiuto politico, dietro le quinte svolse una sorte di tutorato di Emilio nelle questioni pratiche e domestiche. E ne fu pure, in molte occasioni, consigliere politico, oltre che curatore del collegio elettorale in Valtellina. Gestì inoltre l’immagine pubblica di Emilio, che nel 1904 consegnò, per gli anni dei comuni esordi risorgimentali, ai “Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute, 1847-1860”, considerato da molti il miglior libro sul Risorgimento lombardo.

GLI STUDI, L’AZIONE POLITICA E MAZZINI

Emilio Visconti Venosta (Milano, 22 gennaio 1829 – Roma, 28 novembre 1914), figlio di Francesco (1797-1846) e Paola Borgazzi (m. 1864), studiò al Liceo classico Giuseppe Parini a Milano e successivamente frequentò la facoltà di giurisprudenza a Pavia. Fu assiduo frequentatore, assieme al fratello Giovanni, del celeberrimo salotto della contessa Clara Maffei, patriota e mecenate italiana, dove conobbe tra gli altri, Verdi, Hayez e Manzoni. La contessa li chiamava “i miei fioeu”, cioè i miei figlioli, nel dialetto milanese.

Tra gli ospiti abituali della contessa Maffei, v’era anche il conte Cesare Giulini della Porta, funzionario e politico italiano (fu Senatore del Regno di Sardegna dal 2 aprile 1860 al 17 marzo 1861), che riuscì poco a poco a convincere la stessa contessa della necessità di riporre speranze nel Piemonte, schierandosi di conseguenza a favore dei Savoia, abbandonando le posizioni radicali del fondatore della Giovine Italia.

Emilio, discepolo di Mazzini, prese parte a tutte le cospirazioni anti-austriache, dalle 5 giornate di Milano nella primavera del 1848 fino alla sollevazione di Milano il 6 febbraio 1853; per divergenze d'idee con Mazzini, ma anche a seguito degli insuccessi rivoluzionari, si separò dalla "cospirazione ufficiale" con una lettera indirizzata allo stesso. Continuò comunque la sua propaganda anti-austriaca, rendendo un buon servizio alla causa nazionale; infastidito e posto sotto sorveglianza dalla polizia austriaca, convinto che solo il Regno di Sardegna avrebbe potuto dare alla causa risorgimentale l’aiuto necessario per la sua conclusione favorevole, nel febbraio del 1859 fu quindi obbligato a rifugiarsi a Torino.

La sua fuga fu piuttosto rocambolesca e non priva di pericoli poiché le guardie di confine avevano l’ordine di sparare a chiunque tentasse di attraversare il Po per raggiungere la sponda piemontese.

Questo è il testo di una lettera nella quale un amico racconta come riuscì a far passare il confine a Emilio Visconti-Venosta; la lettera è tratta dal libro di memorie del fratello Giovanni dal titolo “Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute, 1847-1860”.

Mio buon amico,

Poiché me ne mostri il desiderio, eccoti quanto raccolgo dà alcune note, e da quanto ritrovo nella mia memoria. Nel 1859 abitavo nella via Ravello, in casa Cagnola. Il 26 febbraio, fui interpellato dal mio padrone di casa, Battista Cagnola, il quale sapeva ch’io avevo una Villa e un podere presso Belgiojoso, se mi sentivo in grado di condurre in salvo un pesce grosso.

Presi consiglio da mio padre e da mio zio, vecchi ed esperti cacciatori delle boscaglie del Po e risposi che me ne assumevo l’incarico, e diedi la parola di far tutto il possibile per riuscire.

Allora mi si disse il nome del pesce grosso ed ebbi la compiacenza di udire il nome di Emilio mio amico, come sai, e mio compagno di scuola quando si andava allo stabilimento Boselli. Misi per condizione che mi si fornissero i cavalli e la carrozza, per non dare nell’occhio coll’usato equipaggio del mio fittabile, noto urbi et pago.

Il 27 si partì alle 4 pomeridiane. Si giunse a notte, dopo trenta chilometri di strada, a Filighera, a casa mia, chiamata in luogo il Palazzo, con sorpresa e bocche aperte, della famiglia del custode. Condussi Emilio nella camera terrena, la più lontana dall’entrata; e snocciolata al custode la frottola predisposta per uso del paese, feci preparare quel po’ di pappatoria che a quell’ora si poteva racimolare in un povero paesello.

Per conto mio posso dire che più che il timore patii il digiuno. Poi andai a Belgiojoso, che dista un chilometro. Mi recai dai fratelli Strambio, già capitani garibaldini, e miei commilitoni a Roma nel 1849 al Vascello, e chiesi loro il modo più sicuro per contrabbandare l’amico. Essi mi dissero che la faccenda era seria assai, perché i Croati del così detto Cordone militare avevano la consegna di tirar fucilate su tutti i battelli che tentassero la traversata del Po.

Il solo ripiego che poteva offrirsi era quello di tentare il tragitto, nascosto sotto un carico di fascine che da’ boschi del Po venivano giornalmente recate alla sponda piemontese.

La proposta non m’andava. Emilio non era gran che robusto, ad era miope per giunta. Dopo altre proposte, le più disparate, si concluse che era meglio tentare la via diretta. In onta ai rigori austriaci, gli scambi di vino, di legna, e del così detto parmigiano, erano continui tra le due sponde.

La mattina del 28 febbraio, saliti io ed Emilio su una vecchia carrettella da caccia, ci avviammo per Belgiojoso e Sostegno verso il Po. Giunti alla piarda, ch’è la discesa dell’argine al fiume, un caporale croato ci si fece vicino e ci domandò dove andavamo. “Noi star mercanti, vendere formaggio mercato Stradella, tornare stasera.

Il caporale ci volse le spalle. Fu un terno al lotto! L’ufficiale di picchetto non si volle scomodare. Le chiatte per tragittare erano alla sponda opposta; lasciato legnetto stemmo ad aspettare. Ad un tratto si sente da lontano un rombo di cannone. Che cos’è? Che sarà mai? … Emilio salta in piedi, ed esclama:

“Tuona il cannone a Milano, ed io devo fuggire? Ah, io ritorno!”

“Non è possibile che qui s’oda il cannone di Milano” rispondo io. Ma lui insisteva; alla fine dissi risolutamente: “Ho data la mia parola, io devo condurti, ad ogni costo, a Stradella. Di là potrai tornare se ti garberà.” Ma Emilio fremeva. Per buona sorte capitò un boscaiolo che, interrogato, ci disse ch’era il cannone di Piacenza, ove ogni giorno c’eran degli esercizi di tiro.

Giunta la chiatta, vi salimmo e toccata la sponda opposta, mezz’ora dopo eravamo a Stradella. Giubilante per la buona riuscita, baciai l’amico. Non dovevo rivederlo che alla fine di maggio, a Como, dopo la giornata di San Fermo, quand’ero nei Cacciatori delle Alpi.

Rifeci la strada senza fastidi; rividi lo stesso caporale, che forse pensava alla sua Croazia, e intanto non mi chiese conto dell’altro mercante.

A sera tarda, appena giunto a Milano, mi presentai a tua madre, quell’ottima Signora che io avevo conosciuto da giovanotto, e le dissi soltanto: “Emilio alle tre partiva per Torino!” Essa, poveretta, mi strinse tra le braccia, a mi baciò.

Amichevolmente ti saluta il tuo

B. Guy

LA CARRIERA DIPLOMATICA

A Torino, Emilio, godendo della stima e dell’amicizia di Cavour, viene da questi nominato Commissario Regio al seguito di Garibaldi nella guerra con l’Austria del 1859. Inizia, con questo prestigioso incarico, la carriera diplomatica di Emilio. V.V.

Eletto deputato nel 1860, accompagnò Farini in missioni diplomatiche a Modena e Napoli e fu quindi inviato a Londra e Parigi per ragguagliare i governi inglese e francese sulla situazione italiana. Come riconoscimento per la diplomazia usata in questa occasione, Cavour gli conferì un incarico stabile al Ministero degli Esteri. In seguito Emilio V.V. fu nominato Segretario generale del Ministero dal conte Pasolini. Alla morte di questi, divenne ministro degli Esteri il 24 marzo 1863 nel governo Minghetti; ebbe l'importante ruolo di non far restare l'Italia isolata politicamente (specialmente dopo la presa di Roma avvenuta 7 anni dopo la sua nomina), divenne famoso per la celebre frase "indipendenti sempre, isolati mai". Nella veste di ministro nel 1864 sottoscrisse la "convenzione di settembre" con la Francia sulla "questione romana".

Terminata la funzione di ministro con la caduta di Minghetti nell'autunno nel 1864, nel marzo 1866 fu inviato dal nuovo capo del governo La Marmora a Costantinopoli come "ministro del re", ma venne quasi immediatamente richiamato e nominato di nuovo ministro degli esteri da Ricasoli. Assunto l'incarico all'indomani della battaglia di Custoza, riuscì ad evitare che parte del debito dell'impero austriaco venisse trasferito all'Italia in aggiunta al debito veneziano. La fine del governo Ricasoli nel febbraio 1867 lo privò per un po' del suo incarico, ma ridivenne ministro degli esteri nel dicembre 1869 entrando nel governo Lanza-Sella; mantenne il dicastero anche nel successivo governo Minghetti, fino alla fine del governo della Destra, nel 1876.

Con la caduta del governo Minghetti e della Destra il 18 marzo 1876 e l’avvento della Sinistra, anche Emilio V.V. lascia il governo, ma continua con assiduità a svolgere il ruolo di deputato. Intanto pochi mesi dopo l’uscita dal governo, il 12 ottobre 1876, il re gli attribuisce il titolo di marchese, in occasione del suo matrimonio il 25 ottobre 1876 con Maria Luisa Alfieri di Sostegno, pronipote di Camillo Cavour, la quale non solo porta in dote un cospicuo patrimonio, ma, dopo la morte del padre Carlo Alfieri nel 1897 e l’estinzione della linea maschile dei Sostegno, nel 1904 è riconosciuta erede nobiliare degli Alfieri di Sostegno e dei Benso di Cavour, anch’essi estinti della linea maschile dopo la morte del marchese Ainardo di Cavour (nipote di Camillo), celibe, avvenuta nel 1875.

Durante questo lungo periodo, è chiamato a condurre i delicati negoziati connessi con la guerra franco-prussiana, l'occupazione di Roma e la conseguente fine del potere temporale del papa, la legge delle Guarentigie e le visite di Vittorio Emanuele II a Vienna e Berlino.

Per un certo periodo rimane in Parlamento, all'opposizione, e il 7 giugno 1886 viene nominato senatore. Risale allo stesso anno la sua nomina a presidente dell'Accademia di Brera, carica che ricopre per ben due mandati, fino al 1897. Successivamente ne acquisisce il titolo di presidente onorario.

Nel 1894, dopo sedici anni di assenza dalla politica attiva, viene scelto come l'arbitro italiano nella disputa del mare di Bering; nel 1896 accetta un'altra volta il dicastero degli esteri nel governo Rudinì, in un momento in cui i rovesci nella guerra di Abissinia e la pubblicazione di notizie di fonte abissina rendono la posizione italiana estremamente difficile. La sua prima preoccupazione è migliorare le relazioni tra Italia e Francia, contrattando con Parigi un accordo riguardo Tunisi. Durante i negoziati sulla questione di Creta e la guerra greco-turca del 1897 assicura all'Italia un ruolo significativo in ambito europeo e appoggia Lord Salisbury nel risparmiare alla Grecia la perdita della Tessaglia.

Si ritira nuovamente a vita privata nel maggio 1898, dimettendosi per questioni di politica interna, ritornando però in carica nel maggio 1899, sempre come ministro degli esteri, nel secondo governo Pelloux, e vi rimane anche nel successivo governo Saracco, fino alla caduta di questo nel febbraio 1901. Durante questo periodo dedica la sua attenzione soprattutto al problema della Cina, dove il movimento xenofobo della setta fanatica dei boxers si diffonde tra le popolazioni incitate alla rivolta ed esortate a sterminare gli stranieri. Un altro delicato ed importante incarico a cui si dedica è il mantenimento dell'equilibrio nel Mar Mediterraneo e nell'Adriatico. In tal senso conclude un patto con la Francia per cui si lascia tacitamente mano libera agli italiani a Tripoli, mentre l'Italia non deve interferire nella politica francese in Marocco; riguardo all'Adriatico, raggiunge un accordo con l'Austria garantendo lo status quo in Albania.

Prudenza e sagacia, insieme a un'ineguagliabile esperienza in politica estera, gli consentono di assicurare all'Italia la massima influenza possibile nelle questioni internazionali, guadagnandosi la stima unanime delle diplomazie e governi europei. Come riconoscimento per i suoi meriti di servizio, è nominato Cavaliere dell'Annunziata da Vittorio Emanuele III di Savoia, in occasione della nascita della principessa Iolanda Margherita di Savoia, il 1º giugno 1901.

Il suo l’ultimo incarico diplomatico, il canto del cigno di Emilio V.V., avviene nel febbraio 1906. È il delegato italiano nella conferenza di Algeciras. Lo scopo della conferenza è di mediare tra Francia e Germania, nella prima crisi marocchina, e assicurare il rimborso di un ingente prestito concesso al Sultano nel 1904. Ad Algeciras Emilio V.V. rende evidenti le contraddizioni della politica degli austro-tedeschi nei confronti dell'Italia: costoro non possono sostenere che la Triplice Alleanza non ha efficacia nelle questioni mediterranee e contemporaneamente richiedere all'Italia di appoggiare il tentativo di penetrazione tedesca in Marocco.

Il 1° ottobre del 1906, muore a Milano l’adorato fratello Giovanni. Il 28 novembre 1914, a Roma, muore Emilio Visconti Venosta; la città di Roma ha visto poche volte, nelle sue vie, funerale più solenne e più degno.

Da pochi mesi è scoppiata la prima guerra mondiale, che definitivamente sovvertirà il mondo conosciuto dai due fratelli Visconti Venosta.

CONCLUSIONE

Ministro Emilio Visconti Venosta

raffigurante Emilio Visconti Venosta

Mosaico raffigurante Emilio Visconti Venosta all’epoca della conferenza di Algeciras in Marocco

Emilio Visconti Venosta, appartenente a una antica e nobile famiglia valtellinese di Grosio, è stato uno degli uomini di Stato più insigni dell’Italia dopo il Risorgimento, più volte ministro degli Esteri. Qui è raffigurato da Livio Benetti in questo mosaico in età avanzata, intorno al 1906, all’epoca della conferenza di Algeciras in Marocco e del riavvicinamento alla Francia, che fu l’ultimo suo grande impegno diplomatico. L’immagine è desunta da foto d’epoca che lo ritraggono con gli immancabili pantaloni bianchi, che amò sempre indossare, con la grande barba bianca e la lunga giacca scura. L’anziano statista è appoggiato con la mano sinistra sulla spalla di una sedia e tiene la mano destra alzata, come in atto di parlare. L’espressione è seria e preoccupata, gli occhi blu intenso, vivi e penetranti. Sullo sfondo i monti e il castello Visconti-Venosta di Grosio, che risale al XIV secolo.

Fonti:

https://www.lombardiabeniculturali.it/archivi/complessi-archivistici/MIBA003004

https://it.wikipedia.org/wiki/Emilio_Visconti_Venosta

https://www.torino1864.it/wpcontent/uploads/2014/12/Emilio_Visconti_Venosta.pdf

https://www.treccani.it/enciclopedia/emilio-visconti-venosta_%28Enciclopedia-Italiana%29

http://www.valtellina.net/grosio/venosta.html

https://www.kukaosmagazine.com/la-fuga-dei-fratelli-emilio-e-giovanni-visconti-venosta

https://www.villaviscontivenosta.it/it/articoli/la-ballata-del-prode-anselmo

http://www.unitretirano.it/archivio_documenti/documenti_2015/Santena_Grosio.pdf

https://www.sissco.it/recensione-annale/la-patria-e-le-arti-emilio-visconti-venosta-patriota-collezionista-e-conoscitore/

http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/ddee2edffd561928c1257114005998d3/e7a0b35c6539c65d4125646f00618690?OpenDocument

DISCORSI E SCRITTI DI EMILIO V.V.

Ricercare nei discorsi e negli scritti di Emilio V.V. il filo del pensiero politico è forse contravvenire ad un desiderio dell’illustre uomo, se egli scriveva a Costantino Nigra il 3 dicembre 1884: “Non è piacevole il sapere, ad ogni tratto, che si sarà stampati vivi in tutte le conversazioni che si possono avere avute quindici o venti anni or sono. Sta bene che si debba rispondere delle parole che hanno avuto un effetto positivo e concreto, ma non di quelle che nel corso di un remoto colloquio, furono suggerite da un sentimento di opportunità morale che ora sfugge ad ogni giudizio competente”. Egli era conscio o presago che di pochi uomini politici si sarebbe scritto quanto su di lui e che il suo pensiero sarebbe stato citato magari a sproposito. Nella sua reazione all’essere “stampato vivo” si è voluto vedere la preoccupazione del mazziniano divenuto conservatore, di fronte ad accuse come quelle lanciate dalla “Riforma” del 5 agosto 1871 contro “questo antico mazziniano divenuto una calamità per l’Italia, come tutti i rinnegati”. Questa preoccupazione non sembra tuttavia egli potesse avere, perché il suo pensiero politico appare costante nella sua moderatezza, nel desiderio di concordia e nello squisito sentimento di italianità fin da quando, bambino, sognava di divenir diplomatico, ma dichiarava di non voler servire l’imperatore d’Austria e più tardi, di fronte alla persistenza di Mazzini, a non voler sacrificare vedute personali alla necessità della concordia nazionale scriveva nel 1856: “Siamo alla vigilia di veder nuove pazzie mazziniane!!”. (Ricordi di Gioventù del fratello Giovanni). Alla profonda dirittura morale di lui poteva piuttosto essere sgradita la divulgazione della sua arte di diplomatico che, per servire nel modo migliore il suo Paese, sapeva di aver adoperato tutti gli specifici che potessero giovare all’intento, costringendo l’espressione del suo pensiero a piegarsi a motivi d’azione contingenti, in relazione anche ai temperamenti diversi degli uomini sui quali doveva agire. Né doveva essere scevra di dubbi e tormenti l’anima sua quando egli, che pur voleva la vita pubblica retta da una morale non diversa da quella applicata alla vita privata, si trovava di fronte alla esigenza di nulla trascurare di quel che potesse essere utile per condurre in parte una trattativa a lui affidata. Di principi e di educazione profondamente cristiani, egli dimostrò anche nella sua vita privata, oltre che in quella pubblica, come la grandezza e il rafforzamento dell’Italia unita fossero il principale scopo della sua esistenza. (fonte: https://www.jstor.org/stable/42734040?seq=1)

“Signori, se fra le questioni che abbiamo dovuto risolvere per compiere l’opera della nostra ricostituzione nazionale…. quest’era certamente l’unione di Roma all’Italia, di Roma fatta capitale del Regno. L’opinione moderata la quale, per bocca del conte di Cavour, aveva dichiarato solennemente che l’Italia, facendo di Roma la sua capitale, avrebbe rispettato l’indipendenza del pontefice…” “Il Governo, il Parlamento circondarono d’una effettiva guarentigia la libertà del Capo della Chiesa… che sia l’espressione stessa della necessità delle cose”. “Abbiamo introdotto in Roma le nostre leggi, le nostre istituzioni liberali, tutto intero il diritto pubblico dell’Italia, trasformati tanti istituti stranieri, sciogliendo tutte le questioni, appianando tutte le difficoltà. Questa era la condizione delle cose, sicura, tranquilla e nel tempo stesso, pienamente conforme al nostro diritto e alla nostra dignità, che la politica moderata ha lasciato al paese”.

“Non ho bisogno, o signori, di dirvi che quando si tratta di tutelare la dignità o l’indipendenza della nazione, noi siamo tutti uniti da una concorde ed energica volontà…. Insistendo perché al pontefice fosse garantita una condizione libera, rispettosa e sicura, affidata alla lealtà e alla coerenza della nostra condotta per meglio assicurare ed affermare quel diritto e quel dovere che spetta ad ogni Stato…” “la condizione di cose nei rapporti fra la Chiesa e lo Stato nel paese ove il pontefice risiede, ha un’importanza maggiore, richiede l’indirizzo di una politica più costante e sicura… Io credo che le idee del conte di Cavour che sono rimaste associate, come una tradizione, al risorgimento italiano, e che il conte di Cavour applicava secondo l’opportunità e le circostanze, sono ancora le più vere, le più pratiche e la migliore espressione del liberalismo applicato alle questioni ecclesiastiche”.

“La sinistra quand’era una opposizione, oppugnava aspramente quella politica nei rapporti fra la Chiesa e lo Stato, che dal conte di Cavour in poi fece la nostra forza… Giunta al potere essa dichiarò, colla voce dei ministri che la rappresentano, di voler rispettare la legge delle guarantigie, e moderò di molto il suo linguaggio. Ma se credeva pericolosa, dannosa, disadatta alle condizioni della società italiana la sua prima politica, confesso che so ancor meno comprendere una politica, che senza alcuna opportunità, senza alcuna necessità, con leggi vuote di effetto, pare non si proponga altro scopo che di dare al partito clericale quei mezzi desideratissimi che ormai gli mancavano per riaccendere l’agitazione, per risollevare le questioni che si andavano tranquillamente risolvendo, per ridestare l’inquietudine, la sfiducia dove si andava facendo la sicurezza, la calma e la prescrizione morale”.

(fonte: discorso del Marchese Emilio V.V. agli elettori di Vittorio)

Santena, 3 giugno 2021