Tesi di MATTEO BENEDETTI - La politica estera di Cavour, il caso della guerra di Crimea


UNIVERSITA  DI PISA

Dipartimento di Scienze politiche

Corso di Laurea Triennale in Scienze politiche

Tesi di Laurea Triennale

Elaborato finale

La politica estera di Cavour, il caso della guerra di Crimea

Relatore:

Alessandro Volpi

Candidato:

Matteo Benedetti

Anno accademico 2023/2024

divisore 4
Indice

Introduzione

Capitolo 1 - Ascesa politica e primi ruoli di governo

Capitolo 2 - L’ingresso nella politica internazionale.

2.1 La guerra in Crimea

2.2 Il congresso di Parigi

Conclusione

Bibliografia

divisore 4
Introduzione

Nella presente tesi viene presa in esame la politica estera di Cavour, in particolare in merito ai suoi primi anni di presenza nel governo piemontese e con un’attenzione particolare per la condotta del Conte prima, durante e dopo la guerra di Crimea.

cartina

I Benso avevano vissuto fasi di alterne fortune negli anni che si susseguirono fra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo. Durante il dominio napoleonico delle provincie piemontesi erano però riusciti a ritagliarsi una posizione di spicco. È proprio in questo periodo che il 10 agosto 1810 nasce Camillo, così chiamato in onore del principe Camillo Borghese allora governatore generale dei dipartimenti transalpini dell’Impero. Dopo la caduta dell’Impero e a seguito della Restaurazione, i Benso riuscirono a conservare la propria posizione nel Regno di Carlo Felice. Il Conte crebbe dunque in un ambiente dominato dai valori cattolici gesuitici del Regno sabaudo, impegnato nella difesa della Chiesa e nella lotta alla rivoluzione. Sin dalla fanciullezza egli fu amante della propria indipendenza, prepotente e vitale, intollerante ai vincoli e molto curioso. Caratteri difficilmente digeribili per i costumi familiari del tempo. Se nei primi anni di vita le sue maniere erano sopportate, con il passare degli anni il suo carattere divenne sempre più chiaramente riconoscibile; il Conte era e sarebbe rimasto, indomabile e poco attento alle sensibilità altrui. Il suo carattere, insieme alla sua posizione di cadetto, rispetto al fratello maggiore e allo scarso impegno negli studi, spinsero la famiglia ad avviare il giovane Camillo verso la carriera militare. Negli anni di accademia si confermarono quei tratti del suo carattere più insofferenti verso limiti e autorità, in particolare verso gli elementi più conservatori dell’esercito sabaudo dell’epoca. Fu anche un periodo in cui conseguì ottimi successi negli studi, in particolare in quelli matematici e al di fuori delle materie insegnate all’accademia nacquero e si svilupparono le sue prime inclinazioni politiche, consacrate al liberalismo.

Il liberalismo cavouriano non traeva ispirazione, né si formò, dal contatto con la realtà italiana ma si rivolse invece all’Europa ed in particolare a Francia ed Inghilterra, patrie della libertà politica dell’epoca. Durante la Restaurazione il liberalismo europeo dovette combattere contro le tendenze conservatrici e reazionarie ma questa lotta per il Conte non aveva che un solo possibile esito: “quando la voce della ragione non è compresa e può liberamente farsi sentire, essa finisce prima o dopo per essere universalmente ascoltata e seguita”[1]. Questa era per il Conte la legge fondamentale che regge il corso della storia, la legge che dà vita alla religione del progresso e da questa derivava la certezza del prossimo prevalere degli ideali liberali. La libertà era necessaria per il Piemonte dell’epoca poiché solo proteggendo tutte le opinioni e tutti gli interessi si potevano arrestare le usurpazioni delle forze dominanti del Regno. Forze, come le istituzioni clericali e il ceto nobiliare conservatore vicino alla corona, che impedivano un progresso morale ed economico e ogni possibile sviluppo in senso nazionale.

Nel 1830 in conseguenza degli eventi francesi legati alla Rivoluzione di luglio, si ebbe un primo esempio di quella che sarebbe poi stata negli anni a venire la postura di Cavour e dei liberali moderati nei confronti dell’indipendenza nazionale: questa sarebbe potuta nascere in concomitanza di situazioni favorevoli in Europa e non poteva poggiare esclusivamente sulle volontà e sulle forze italiane. La causa liberale doveva affrontare anche un altro pericolo, almeno secondo Cavour. Nel concitato periodo della rivoluzione emersero alcuni estremisti che cercarono di portare la situazione su toni di forte aggressività verbale, in particolare nei confronti dei ministri di Carlo X, nel tentativo di scatenare la violenza del popolo. Questo rappresentava per Cavour una degenerazione della causa liberale che andava assolutamente evitata poiché il liberalismo si sarebbe dovuto imporre lentamente e senza ricorso alla violenza. In questo senso la procedura è sostanza e quella liberale deve essere non cospirativa e non rivoluzionaria per arrivare alla libertà di tutti. Questo suo posizionamento politico però lo lasciava in un ambito minoritario poiché appunto le due posizioni più partecipate erano quella rivoluzionaria e quella reazionaria, per questo il Conte passò lunghi periodi incertezza. Il movimento liberale dopo il 1830 era però dominato da sentimenti di impazienza: “il più triste risultato della rivoluzione di luglio, quello che ne bilancia quasi gli immensi benefici, è la nascita a cui essa ha dato luogo di un partito frenetico, feroce e assurdo, che, seguendo una chimera, vuole, anticipando sull’avvenire, il trionfo a ogni costo di un sistema per ora impossibile e che perciò spinge la società in un caos orribile, da cui essa potrebbe riprendersi solo attraverso un potere assoluto e brutale, dispotico o aristocratico”[2]. In questo senso i veri liberali si sarebbero dovuti opporre alla tentazione di piegarsi alle istanze rivoluzionarie nel tentativo di evitare il peggio ma questo non significava schiacciarsi su posizione reazionarie. Qui si scorge la natura del liberalismo di Cavour, dedito ad un progresso morale e civile moderato ma convinto, volto a consacrare i diritti irrinunciabili dell’uomo in una politica che non sia violenta ma umana. I falsi liberali sono coloro che, spaventati, cedono alle pulsioni rivoluzionarie nel tentativo di conservare il più possibile lo status quo. Questa indecisione morale e politica portò infine il Conte a posizionarsi in mezzo alle cause reazionarie e rivoluzionarie, in difesa di un liberalismo che fosse moderato. Una posizione che però non poteva portare risultati nel breve periodo perché era troppo forte il pericolo che una pressione liberale verso istituzioni libere e poi verso l’indipendenza nazionale potesse creare i presupposti per un sorpasso da parte dell’ala rivoluzionaria alla guida dell’iniziativa. I punti cardine del liberalismo di Cavour erano quindi: fede nel progresso e nella ragione, rifiuto dell’assolutismo e aspirazione alle libertà costituzionali, volontà di progresso civile ed economico e, col passare degli anni, un sempre più forte spirito antirivoluzionario. Oltre alla paura della rivoluzione, a fermare uno sviluppo del movimento nazionale vi era la situazione politica europea. Come detto, i liberali come Cavour dopo il 1830 erano convinti di potersi muovere su quel fronte solo se in presenza di condizioni favorevoli; l’Europa in quel periodo era minacciata dalle istanze rivoluzionarie, questo rendeva ulteriormente complicato, per il momento, un movimento in senso italiano. Dato l’immobilismo di quel periodo, fino all’elezione del papa liberale Pio IX, Mazzini assunse la guida del movimento nazionale.

Fu in quegli anni che Cavour diede prova della sua integrità morale non lasciandosi impadronire dalla fretta di agire che tanti altri liberali non del tutto autentici manifestavano e questo fu motivo di impopolarità. Il Conte rimase saldo nel suo rifiuto della violenza rivoluzionaria, dando prova di consapevolezza civile, di responsabilità politica, di coscienza intransigente dei valori più alti di civiltà. Queste due alternative si presentavano in tutta Europa e questa lotta politica fra liberali moderati alla Cavour e rivoluzionari, liberali e non, avrebbe plasmato la conformazione sociale e politica del futuro. Il liberalismo non si manifestava soltanto nell’ambito delle libertà politiche e sociali ma anche e soprattutto in ambito economico e industriale. Le due diramazioni del pensiero liberale, nell’idea cavouriana, erano coessenziali nella trasformazione del Regno sabaudo e della nazione tutta in un paese moderno, in grado di tenersi al passo con il progresso che avveniva nei paesi più avanzati. Fra la Rivoluzione di luglio e il 1848, lentamente, si svilupparono iniziative economiche ed industriali che aprirono un sempre più ampio spazio politico ai liberali moderati e Cavour fu un protagonista di questo fermento economico grazie ad una notevolissima varietà di risorse poste a servizio di attività anche molto diverse fra loro, quali: agricole, industriali, commerciali, finanziarie e bancarie. Fu in questo periodo che si formò nelle sue competenze più tecniche che lo portarono ad essere privilegiato per alcuni ruoli di governo, perfezionandosi anche nelle sue capacità di guida. Sempre in questo periodo di costante rapporto con lo Stato, anche se non in veste di politico ma di uomo d’affari, diventò ancora più intollerante del regime clericaleggiante ed oppressivo di Carlo Alberto ma conobbe anche alcuni punti di forza della vecchia struttura statale che poi avrebbe sfruttato nella sua azione di governo. L’oppressione esercitata dal Re divenne nel tempo sempre più mal digerita dal settore imprenditoriale più avanzato del Regno, desideroso di più ampie autonomie in ambito economico e ciò contribuì a formare il favore verso riforme delle istituzioni esistenti nell’ottica dell’ottenimento di un controllo politico sull’azione governativa. Cavour era la più naturale guida di questo mondo date le sue capacità e le sue conoscenze e nonostante la repressione di quegli anni non rinunciò mai ai suoi ideali e alle sue ambizioni.

Il 1° maggio 1846 il Conte pubblicò un articolo sulle “Chemins de fer” sulla rivista “Revue Novelle”, riguardante il problema delle ferrovie in piemontesi e in Italia. Cavour, all’interno dell’articolo, mise in risalto il ruolo che lo sviluppo delle ferrovie poteva ricoprire nel processo di modernizzazione del paese. Le ferrovie erano viste come il volano dello sviluppo economico, sociale e civile, che secondo Cavour doveva caratterizzare il liberalismo e la sua missione tanto quanto il perseguimento delle libertà politiche. L’articolo rappresentò in realtà un’iniziativa politica. Il Conte tentava infatti di avvicinare Carlo Alberto ed integrarlo nella causa del progresso liberale. Nell’articolo il Re viene lodato e viene anche sottolineato il ruolo di due particolari linee ferroviarie, Torino – Venezia e Torino – Ancona. Viene attaccata l’Austria, ritenuta responsabile del mancato collegamento fra la rete lombarda e quella piemontese e viene prospettato un futuro in cui il nord d’Italia formerà un unico Stato. Soprattutto nell’articolo si dà importanza al ruolo che le ferrovie avrebbero nello sviluppo morale d’Italia e quindi, in sostanza, al ruolo che avrebbero per il movimento nazionale. L’articolo quindi, partendo dall’esempio delle ferrovie, arriva ad esaminare la questione della nazionalità e a stabilire i metodi con cui sostenere il movimento nazionale. Come sempre viene sottolineata l’avversione alle pulsioni rivoluzionarie con l’aggiunta, in questo caso, di uno scetticismo nei confronti di un eventuale successo di tali tentativi; l’Italia, secondo Cavour, non era un terreno fertile per le rivoluzioni. Si doveva quindi spingere sul graduale progresso economico, morale e civile che prima o poi avrebbe forzato una congiuntura favorevole alla causa nazionale e alla causa liberale. Questo fu il momento della definitiva maturazione del pensiero liberale di Cavour, prima che l’azione politica non lo condizionasse. Rimase salda la fiducia nella religione del progresso. Progresso che doveva essere sì economico e industriale ma principalmente morale e civile, atto allo sviluppo della dignità della popolazione. Questi principi trovavano nell’Ottocento la loro concretizzazione nelle libertà economiche e nella scienza che ne aveva posto le basi teoriche in quanto questi, secondo il Conte, producevano effetti volti a favorire tutte le classi sociali. Il principio di nazionalità, da sviluppare principalmente in politica estera, costituiva un necessario presupposto per il perseguimento della modernizzazione in ambito di politiche economiche. I principi nazionali si appoggiavano necessariamente sul sentimento della dignità. Scrisse Cavour in una pagina del saggio pubblicato il 1° maggio: “la storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado di intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili della sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità. Ora, questa coscienza […] costituisce per i popoli come per gli individui un elemento essenziale della moralità. quindi, se noi desideriamo con tanto ardore l’emancipazione dell’Italia […] non è soltanto per vedere la nostra patria gloriosa e potente, ma soprattutto perché essa possa innalzarsi nella scala dell’intelligenza e dello sviluppo morale fino al livello delle nazioni più civili”[3].

Era importante quindi, per il Conte, che ci fosse un’emancipazione morale e civile nascente dalla popolazione e che nazionalità e libertà si combinassero per il raggiungimento di questa missione. Cavour era convinto che tutto ciò fosse inevitabile, dato che questo processo aveva dalla sua il moto irresistibile della storia, ed era proprio ciò che aspettava perché solo in quel momento sarebbe arrivata l’ora dell’azione per il movimento nazionale.

L’evento politico che fece partire l’effetto domino verso la costituzione liberale, come detto, fu l’elezione di un papa liberale, Pio IX. Cominciarono così a muoversi vaste forze moderate fino ad allora conservatrici e Cavour manifestò le proprie simpatie verso la corrente di pensiero legata a Cesare Balbo. Apprezzò le prime concessioni di Pio IX e sottolineò, in senso marcatamente nazionale, come le reazioni ostili austriache potessero far progredire la causa italiana. Queste iniziative politiche papali lo tranquillizzavano anche nei confronti delle pulsioni rivoluzionarie, essendo il clero di natura moderata. Era quindi arrivato per Cavour il momento di agire e scendere in campo, nonostante le sue esitazioni date dal travagliato rapporto con Carlo Alberto e la non ottima reputazione in seno alle forze moderate. Le persone intorno a lui gli rimarcavano le sue grandi doti di guida e, data la sua innata passione per la vita pubblica, era arrivata l’ora di prestare le sue capacità al servizio del paese.

Fortunatamente per lui, fra il 1846 e il 1848 la situazione che si creò sciolse i rancori creatisi negli anni precedenti e gli permise di potersi riproporre sulla scena pubblica. Dopo le lettere patenti del 30 ottobre 1847 promulgate dal re, che stabilivano un regime di moderata libertà, Il 30 novembre nacque il giornale “Il Risorgimento”, grazie al quale Cavour trovò la via di un diretto impegno sul terreno politico, diventandone direttore su desiderio di Balbo. Inizialmente Cavour si era riservato le questioni di politica estera ma finì poi per trattare tutti i temi principali dell’attualità politica ed economica. Il giornale era il mezzo per pubblicizzare le vedute del gruppo moderato del quale Cavour e Balbo facevano parte e come loro avevano fondato un giornale anche gli altri esponenti politici piemontesi dell’epoca che non mancavano di accusare i moderati di schiacciarsi su posizioni reazionarie e di difesa dei privilegi, posizioni che, come abbiamo detto, Cavour rifiutava categoricamente.

Dopo le prime agitazioni del gennaio del 1848, dalle pagine del giornale Cavour sostenne con forza che era arrivato il momento di ottenere il sistema rappresentativo prima che la situazione precipitasse e proprio il 7 gennaio 1848, in una riunione all’albergo d’Europa con gli esponenti dei giornali torinesi, Cavour propose la richiesta di una costituzione al re, nella sua classica ottica di coronamento della precedente fase di riforme senza il ricorso alla violenza rivoluzionaria. La maggioranza dei presenti alla riunione si schierò col Conte. Nei frenetici giorni successivi vi fu una vera e propria lotta politica fra i moderati e le altre correnti, rappresentate in particolare da Lorenzo Valerio e Riccardo Sineo, in merito alle successive mosse da intraprendere. Vinse la posizione cavouriana, nella proposta della richiesta di una costituzione e grazie alla congiunzione politica che tra gli altri eventi vedeva Ferdinando II concedere la costituzione nel Regno delle Due Sicilie e le sommosse di Genova, Carlo Alberto si trovò costretto a cedere. L’8 febbraio proclamò una dichiarazione dei principi alla base dello Statuto composta da 14 articoli e il successivo 4 marzo procedette a promulgare lo Statuto. “Siamo alla vigilia di ottenere la costituzione – aveva scritto Cavour all’Azeglio qualche giorno prima -. Non fo per dire, ma Il Risorgimento ha un tantino cooperato a questa grande e inaspettata rivoluzione”[4].

L’azione combinata di Cavour e del giornale, in quelle concitate settimane, portò alla prima grande vittoria politica del Conte e rappresentò il manifesto delle sue capacità di guida e della coerenza e lungimiranza della sua condotta.

Cavour seduto

[1] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 31

[2] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 58

[3] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., pp. 141,142

[4] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 153

divisore 4
Primo capitolo

Ascesa politica e primi ruoli di governo

Il 16 marzo 1848 Cesare Balbo divenne il primo Presidente del Consiglio del nuovo regime costituzionale. Cavour entrò in parlamento solo con le elezioni suppletive del 26 giugno 1848, dopo aver perso al turno del 27 aprile. Nei primi tempi da parlamentare il Conte incontrò qualche difficoltà dal punto di vista linguistico, dovendo parlare in italiano e non potendosi avvalere del francese, sua lingua prediletta. Questo però non lo fermò dal diventare negli anni un ottimo oratore. Il Conte non fece parte di quel primo governo per alcuni dissensi col Balbo, mai chiariti ma di sicura natura personale e probabilmente molto gravi poiché guastarono definitivamente il lungo rapporto esistente fra i due.

La conquista del sistema rappresentativo in Piemonte fu una grande vittoria ma il movimento nazionale aveva come sua missione fondamentale la conquista dell’indipendenza. Le Cinque giornate di Milano, quindi, misero immediatamente il Regno sabaudo di fronte a un decisivo bivio. Le correnti unitarie e democratiche si dicevano pronte ad agire, per questo si rendeva necessaria una presa di posizione da parte piemontese. I protagonisti di quella fase politica si preoccupavano, prima che della nazione, della sopravvivenza del neonato regime costituzionale. In quel momento però Cavour avvertì la necessità di non farsi superare dagli eventi e, cambiando strategia, cominciò a spingere per un immediato intervento del Re, chiedendogli di assumere il comando: “l’ora suprema per la monarchia sarda è suonata, l’ora delle forti deliberazioni, l’ora dalla quale dipendono i fati degli imperii, le sorti dei popoli”[5]. Per Cavour la guerra sarebbe stata inevitabile perché era la nazione e non un Re, che la stava provocando, si doveva quindi solo decidere se cavalcare gli eventi o farsi trasportare da essi. Fu in quel momento che la missione della monarchia si legò alla missione nazionale, scelta ulteriormente confermata dall’adozione del tricolore.

La svolta, dal vecchio principio di guerra in senso dinastico alla guerra per la causa nazionale, si rivelò molto faticosa per l’esercito piemontese che fallì durante la prima guerra d’indipendenza anche per questo motivo. Questo fallimento rinforzò l’astio dei moderati liberali nei confronti dei protagonisti del regime assoluto. La prima guerra d’indipendenza, per il breve periodo della sua durata, accelerò alcuni processi e determinò l’insuccesso della strategia moderata e della strategia democratica fino ad allora perseguite. Con il dietrofront di Pio IX del 29 aprile cessarono le speranze moderate di una federazione italiana con a capo il papa. Se per un momento i moderati avevano pensato che il movimento italiano potesse procedere da solo, senza aiuti internazionali, dopo la guerra si ritornò all’attesa di una situazione europea favorevole.

In seguito al fallimento politico delle forze democratiche dei mesi successivi, culminate nella disfatta di Novara e dopo aver tentato di riaprire la guerra, l’indirizzo politico generale tornò verso un più prudente percorso di lenta costruzione dello Stato liberale nelle mani dei moderati liberali che erano ormai l’unico gruppo alternativo ai reazionari e ai rivoluzionari. L’impulso che portò questo cambio di direzione lo diede il nuovo Re Vittorio Emanuele II, contrario alla collaborazione con i democratici portata avanti dal padre nei mesi precedenti. I democratici, che avevano ancora la maggioranza alla Camera e che avevano voluto continuare la guerra precedentemente, ora non accettavano l’armistizio siglato dal nuovo Re e si preparavano a condurre una feroce opposizione.

La spinta rivoluzionaria in Europa si stava però spengendo e così, nelle elezioni di luglio, i democratici ottennero solamente una debole maggioranza alla Camera. All’indebolimento democratico non seguì una repressione reazionaria grazie ai liberali moderati che riuscirono ad impedire un eventuale colpo di stato. A questo punto la causa liberale e quella nazionale erano legate e Massimo d’Azeglio, divenuto Presidente del Consiglio il 7 maggio 1849, ne divenne la guida, con Cavour che in questa fase si schierò a suo favore. Per le elezioni di dicembre, dopo lo scioglimento della Camera e il proclama di Moncalieri, i moderati registrarono una grande vittoria e da allora poterono finalmente attuare i loro programmi di trasformazione del Piemonte attraverso lo spostamento verso un nuovo baricentro della vita civile costituito dalla borghesia liberale. In seguito al turno elettorale di dicembre, Cavour, che aveva sostenuto l’Azeglio, assunse un ruolo centrale nello schieramento moderato e divenne un esponente di primo piano della politica piemontese, tanto da essere riconosciuto come la guida della maggioranza alla Camera.

Nel mentre, alcune posizioni anticlericali prese dal governo, sponsorizzate fortemente da Cavour, portarono ad una lacerazione definitiva fra la destra reazionaria e cattolica e le forze moderate, che si avvicinarono contestualmente al centro sinistro. Questo schieramento si era formato dopo la fine della guerra, aveva chiare ambizioni di governo e si distingueva dalla sinistra per l’abbandono totale di ogni tentativo rivoluzionario e per lo sviluppo in senso liberale e riformatore dello Stato attraverso lo Statuto. Le correnti liberali, in particolare quelle cavouriane e il centro sinistro in quel momento di aggressione delle istituzioni e dei diritti speciali clericali ancora presenti nell’ordinamento del Regno, si avvicinarono. Cavour, espostosi particolarmente in questa battaglia, iniziò a distinguersi dagli elementi più conservatori del ministero e divenne la guida di una particolare fazione alla Camera, in seguito definita centro destro, che iniziò a presentarsi come alternativa al governo.

Questi movimenti portarono il Conte al Ministero dell’Agricoltura e del Commercio l’11 ottobre 1850, dopo che l’Azeglio e il Re erano stati faticosamente convinti. Il rapporto fra Cavour e Vittorio Emanuele si preannunciava fin da quell’episodio molto turbolento. Cavour ottenne l’agognato Ministero delle finanze il 19 aprile 1851.

Dopo la fine della guerra il liberalismo del Conte era ritornato ai toni ottimistici della fiducia nella religione del progresso degli anni precedenti. Nei primi due anni di governo Cavour divenne sempre più influente, forte di successi politici e della consacrazione della sua reputazione di grande tecnico, dotto delle materie economiche e finanziarie e stimato a livello europeo fra gli esponenti del liberalismo dell’epoca. Si confermarono tuttavia anche i timori che alcuni come l’Azeglio avevano su di lui. Con l’accrescersi della sua autorità in parlamento e nel mondo politico piemontese, crebbero anche le sue ambizioni e il suo tentativo di imporsi su molte materie distanti anche da quelle a lui affidate, tanto che più di un ministro si dimise in aperto contrasto con le sue intromissioni.

Il 2 dicembre 1851, con un colpo di Stato in Francia ebbe inizio l’Impero di Napoleone III. Questo evento ebbe importantissime ripercussioni in Italia, sia immediate che successive. Come effetto immediato si ebbe la fine del periodo rivoluzionario iniziato nel 1848, il nuovo imperatore riuscì perfino a volgere a proprio favore le spinte rivoluzionarie verso un indirizzo più conservatore che orienterà forzatamente anche la fase politica piemontese. Napoleone III portò con sé la centralità dell’idea di nazione, la quale poi rese possibili i progetti italiani di Cavour e del Regno sabaudo.

Il colpo di Stato ebbe ripercussioni anche sulla politica interna piemontese. L’assetto liberale del governo piemontese aveva giovato in quegli anni della protezione della repubblica francese, borghese e moderata ma da quel momento non sarebbe più stato così e l’Azeglio, su pressione dei nuovi governanti di Parigi, dovette frenare e contenere la stampa e limitare i rifugiati politici. L’appoggio francese continuava ad essere necessario per mantenere intatta la struttura liberale e le speranze italiane, ancora tenute in vita dallo Statuto e dal vessillo tricolore, minacciate dall’Impero austriaco. Era chiaro che l’Inghilterra, pur esprimendo simpatia per il Piemonte, non sarebbe intervenuta in sua difesa.

Questa svolta conservatrice del governo D’Azeglio, che il Presidente comunque covava già da qualche tempo, pose Cavour di fronte a un bivio. Il Conte ormai aveva legato la sua identità politica allo sviluppo graduale ma convintamente liberale dello Stato e questo nuovo indirizzo conservatore, avallato da Vittorio Emanuele e dagli ambienti a lui vicini che vedevano in Napoleone III il ritorno dei Re a discapito dei popoli, lo avrebbe portato a perdere il consenso che aveva sviluppato negli anni del dopoguerra con tanta forza e convinzione.

Fu in questo Contesto che Cavour diede vita all’operazione del connubio. Già da qualche tempo era chiara la disponibilità del centro sinistro ad un’alleanza politica con il Conte ma questo non aveva ritenuto opportuno sfruttare tale opportunità fino al momento della presentazione del disegno di legge governativo sulla limitazione della libertà di stampa che, a dire il vero, fu una misura poco incisiva rispetto al clamore che causò. Infatti l’ala più conservatrice della Camera, nella persona del Menabrea, richiese che le limitazioni fossero ben più forti. Fu proprio rispondendo al Menabrea che, il 5 febbraio 1852, Cavour annunciò alla Camera il rifiuto degli emendamenti conservatori e rivelò l’avvenuto connubio con il centro sinistro di Urbano Rattazzi. In questa occasione, parlando a nome del ministero, egli pronunciò uno dei discorsi più importanti ed ispirati della sua carriera parlamentare. L’Azeglio, che seppe del discorso di Cavour solo in seguito, non poté che seguire il Conte nel suo indirizzo. Gli equilibri politici all’interno del governo, perciò, erano destinati a mutare. Dopo il colpo di Stato napoleonico tutte le correnti politiche si erano spostate relativamente a destra; per continuare il processo di trasformazione in senso liberale dello Stato voluto da Cavour era necessario un governo con differenti forze politiche, con l’esclusione degli estremismi reazionari e rivoluzionari. Nei mesi successivi si palesarono alcune spaccature in seno al governo, espressioni del dissenso intorno all’operazione del connubio. Ed infatti ad aprile, in occasione dell’elezione del nuovo Presidente della Camera, le posizioni si chiarirono.

Cavour ottenne dai colleghi di governo di avanzare e sostenere la candidatura di Rattazzi ma con l’onere di doversi costruire la maggioranza dei voti da solo. Rattazzi venne eletto ma non arrivò l’assenso del Re, questo portò alla definitiva rottura fra Cavour e l’Azeglio. Vittorio Emanuele, infatti, si trovò a scegliere fra i due esponenti governativi, in seguito alle dimissioni dell’Azeglio e non ebbe dubbi a preferire questo al Conte. Per Cavour, d’altronde, l’uscita dal governo corrispondeva al consolidamento della sua nuova posizione. Si insediò quindi, con l’assenso di tutte le parti in causa, un nuovo governo D’Azeglio senza Cavour e i ministri a lui più vicini. Il nuovo gabinetto alla Camera si presentava però debole e dipendente dai voti dell’alleanza del connubio che fino al rimpasto lo aveva sempre appoggiato. In questa posizione di forza Cavour si svincolò dalla situazione di attesa che avrebbe vissuto, altrimenti, nei mesi successivi e partì a fine giugno per un viaggio in Francia e in Inghilterra. Questo viaggio aveva anche il fine di rinsaldare i rapporti che il Conte si era costruito negli anni col fine di ottenere più sostegno possibile alla sua politica che, in seguito al connubio, aveva suscitato diffidenze a Parigi e a Londra.

A Parigi in particolare riuscì a stringere contatti con la nuova classe dirigente e riuscì anche ad incontrare Napoleone III in un’udienza che si rivelò un grande successo, durante la quale, l’imperatore si fece un’ottima opinione di Cavour e di Rattazzi, che aveva nel mentre raggiunto il Conte a Parigi. Cavour fu piacevolmente colpito dal suo interlocutore e dal suo modo di fondere l’attaccamento al potere a provvedimenti popolari. Il Conte si convinse inoltre che Napoleone III potesse rimanere al potere per lungo tempo e che nei suoi piani futuri di riassetto degli equilibri europei potesse e dovesse essere inclusa la causa italiana. In quel momento si formò una delle pietre angolari sulle quali verrà poi costruita negli anni l’unità nazionale.

Cavour si assentò dal Piemonte per tre mesi e mezzo, in questo periodo il governo D’Azeglio perse forza, limitato dalla mancanza di voti a destra e a sinistra e dai tentativi che fece per ingraziarsi il più ampio numero possibile di deputati. Con la proposta di legge sul matrimonio civile si schiantò, dopo il fallimento delle trattative col papa. Per fine ottobre, in concomitanza del ritorno del Conte a Torino, il governo cadde e l’Azeglio fu costretto alle dimissioni. Questo propose al Re il nome di Cavour come suo successore ma il Re aveva non poche perplessità data la natura conflittuale del rapporto che si era instaurato fra lui e il Conte ed accettò solo dopo un acceso batti e ribatti che si concluse il 2 novembre 1852. Solo Cavour poteva avvalersi della maggioranza alla Camera e soprattutto lui era l’uomo che poteva soddisfare le mire italiane dei Savoia.

Il primo governo Cavour rappresentava un grande successo per il liberalismo costituzionale, che dopo la svolta conservatrice dell’Azeglio, poteva tornare a sviluppare la sua opera di graduale trasformazione del Piemonte. Questo successo suggellava anche il nuovo principio secondo il quale il Re non poteva più imporre il proprio completo volere contro la maggioranza parlamentare. Nonostante questo, la vittoria fu tutt’altro che piena perché il Re forzò la nomina di alcuni ministri vicini alle sue posizioni e perché pretese la rinuncia alla legge sul matrimonio civile, simbolo della politica liberale laica.

All’inizio della nuova sessione parlamentare Cavour aveva perso l’appoggio della sinistra in conseguenza del caso delle leggi sul matrimonio civile ma, oltre alle forze del connubio, poteva contare sull’appoggio della destra moderata, almeno in alcuni ambiti. Fra il 1850 e il 1853 governo piemontese, ispirato dalla direzione di Cavour, profuse tutti i suoi sforzi nella trasformazione dello Stato in senso liberale e moderato e questo, oltre a chiare ripercussioni economiche, finanziarie e industriali, aveva anche il fine di attrarre sempre di più le simpatie da tutte le parti d’Italia. Il Piemonte avrebbe così assolto al dovere che aveva “verso di sé e l’Italia tutta, il cui avvenire, come tutti sanno, è cotanto legato alle nostre sorti […] di sviluppare ed accrescere, il più che sia possibile, la propria forza morale e materiale”[6], per attrarre più forze possibili in vista del momento in cui si sarebbe messo alla testa del movimento nazionale.

Dall’autunno del 1853 cominciò però una fase diversa, inaugurata dalla crisi causata da un disastroso raccolto dei cereali e che annoverava fra le cause anche fenomeni recessivi provenienti da Francia, Inghilterra e dall’Oriente. La crisi che avvenne in Piemonte però aveva caratteri tutti suoi, riconducibili alle iniziative dei governi liberali, ma anche ad epidemie di colera ed altri ostacoli non dipendenti dall’azione di governo. Ciò che frenò notevolmente Cavour nel suo tentativo di trasformazione dello Stato e della società civile fu il fatto che non si crearono mai le condizioni politiche che gli avrebbero permesso di ricavare gli adeguati supporti finanziari per i suoi progetti. Il liberalismo moderato del Conte, pregno della fede nel progresso graduale, non violento e rispettoso dei diritti individuali, per quanto promettesse di trasformare il Piemonte senza eccessi, senza tumulti e senza soprusi, non ispirò mai ampie parti della società che, avendone una scarsa conoscenza, non vennero coinvolte in questo processo. Secoli di assolutismo non potevano essere dimenticati e ribaltati in così poco tempo da un movimento così composto, privo della volontà di sovvertire violentemente lo Stato, atteggiamento che pure era presente in Piemonte e in Italia ma non raggiunse mai un livello tale da sfociare in una rivoluzione. Negli anni 1853 e 1854 dovette quindi affrontare vari ostacoli economici e di conseguenza politici. Il debito pubblico non si riduceva e anzi aumentava e arrivavano critiche legate non solo alle singole iniziative economiche ma anche alla struttura liberale.

In seguito alla prima guerra d’indipendenza, l’Austria cercò di sopprimere le resistenze e le opposizioni nel Lombardo-Veneto, culminate nell’episodio della rivolta di Milano del 6 febbraio del 1853. Le violente reazioni austriache che ne seguirono sancirono l’impossibilità di ogni tentativo di riappacificazione fra l’Austria e la parte italiana dell’Impero. Nel Regno sabaudo in quegli anni successivi alla guerra si erano stabiliti molti immigrati lombardi, con l’obiettivo di continuare a combattere per la causa nazionale. Alcuni di questi avevano ottenuto la cittadinanza sarda e si erano costruiti una grande influenza sulla vita politica, amministrativa e giornalistica del Piemonte. Perciò, durante le fasi di repressione austriaca in Lombardia, i giornali intervenivano e attaccavano duramente Francesco Giuseppe, tant’è che questo arrivò a minacciare la rottura delle relazioni diplomatiche chiedendo un intervento delle autorità piemontesi, atto a reprimere la stampa. Dopo la rivolta, il 13 febbraio l’Austria sequestrò i beni lombardi degli emigrati. Questi ancora fruttavano rendite considerevoli ai loro proprietari che le sfruttavano anche per sostenere le iniziative politiche e giornalistiche.

In questa occasione il Piemonte si rivelò ancora una volta il campione della causa italiana, ribaltando il tentativo austriaco di umiliarlo e di dimostrare agli altri Stati italiani l’inadeguatezza di quel Regno a guidare il movimento nazionale. Alle minacce nei suoi confronti e alle forti repressioni in Lombardia, inizialmente il governo dovette reagire cercando di non aggravare la propria posizione. Respinse quindi i nuovi immigrati che tentarono di arrivare dalla Lombardia ed espulse quelli ritenuti pericolosi. Dopo il 13 febbraio però si erse in aiuto di quelli che ormai erano cittadini sardi, influenti e di tendenze moderate; inoltre, richiamò in congedo e quindi senza provocare nessuna rottura, il rappresentante sardo a Vienna. Questo atteggiamento, oltre a vincere la fiducia degli immigrati, convinse anche larghe parti della sinistra delle intenzioni del governo e raccolse consensi in Italia e in Europa per la postura coraggiosa e battagliera, impraticabile dagli altri Stati italiani.

Come detto, dall’estate-autunno del 1853 fino a tutto il 1854, Cavour, il governo e gli alleati del connubio dovettero affrontare un periodo di forte crisi politica, tant’è che fu anche necessario sciogliere la Camera e procedere a nuove elezioni nel novembre del 1853. Questo perché Cavour dichiarò che non era il ministero “ma la costituzione, la libertà ad essere minacciate dai partiti estremi coalizzati”[7].

Le motivazioni avevano origini interne, economiche e finanziarie, vi erano poi contrasti con la Chiesa per via di alcune proposte di legge anticlericali, il rafforzamento della destra reazionaria e della destra più moderata guidata dal Conte Revel, inoltre la sinistra si era distaccata definitivamente da Mazzini e puntava adesso all’indipendenza senza necessariamente escludere la monarchia. La burocrazia frenava le iniziative governative e il Senato era popolato per la maggioranza da forti oppositori.

In questo periodo si registrarono dei tumulti antiliberali, fomentati dal ceto clericale. L’impopolarità del ministero cresceva sempre di più, ed in particolare quella di Cavour. La vita politica del Conte era legata indissolubilmente alla trasformazione in senso liberale dello Stato e solo se questo processo fosse continuato egli avrebbe potuto mantenere la sua posizione. Ultimo argine che teneva in vita il governo Cavour era il Re.

Vittorio Emanuele aveva appoggiato Cavour fino almeno all’autunno del 1854 per via delle sue ambizioni di espansione nel nord d’Italia, le quali erano sempre state garantite dai moderati liberali ma anche per via della supremazia dello Stato e quindi del Re, che l’indirizzo liberale e laico promettevano. Il governo aveva sempre dimostrato le volontà belliche non diminuendo mai le spese militari anche nei più difficili momenti a livello finanziario e non aveva mai proceduto alla trasformazione dell’esercito in senso borghese, lasciandolo nelle mani del Re e dell’aristocrazia, che lo riformarono sì ma sempre assecondando i principi di fedeltà dinastica e non con valori nazionali, per i quali poi avrebbe dovuto combattere.

Per la fine del 1854 l’esecutivo era arrivato allo stremo delle sue forze e un governo Revel era diventato una seria alternativa dato che questo si disse pronto a soddisfare le ambizioni italiane del Re, che quindi poteva finalmente liberarsi dell’impostazione liberale e spostare l’asse politico dello Stato verso un indirizzo più conservatore, come stava accadendo in tutta Europa, recuperando inoltre i rapporti con il clero.

[5] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 159

[6] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 239

[7] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 258

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Secondo capitolo

L’ingresso nella politica internazionale.

2.1 La guerra in Crimea

La crisi in Oriente ebbe inizio nel 1852 in occasione di un contrasto fra Napoleone III e la Russia in merito al controllo dei Luoghi Santi in quel momento occupati dall’Impero ottomano. La Francia voleva che i Luoghi Santi stessero sotto il controllo dei monaci cattolici, la Russia dello zar Nicola I invece lo rivendicava per i monaci ortodossi. Da questa contesa nacquero le tensioni che poi portarono alla guerra di Crimea.

cartina Crimea

Lo scenario bellico

Napoleone III, come detto, aveva l’ambizione di ricalibrare gli equilibri politici europei e questo alimentava le ambizioni e le speranze italiane di Cavour. Per fare ciò l’imperatore francese era convinto di doversi alleare con l’Inghilterra e infatti in questa guerra le due potenze si unirono in difesa dell’Impero ottomano.

Fra il 1853 e il 1854 vi furono varie schermaglie diplomatiche fra la Russia da un lato e le altre tre potenze dall’altro e schermaglie belliche fra russi e turchi sugli scenari del Mar Nero, del Danubio e del Caucaso. Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Russia fra il 27 e il 28 marzo 1854, mentre la Turchia lo aveva già fatto il 4 ottobre dell’anno precedente una volta sicura del supporto delle altre due potenze. Inizialmente lo scopo franco-inglese era quello di proteggere Istanbul ma dal momento in cui i turchi riuscirono a respingere l’invasione russa nei domini ottomani balcanici, il nuovo obiettivo divenne quello di attaccare direttamente Sebastopoli, capitale della Crimea, per annientare la flotta russa lì basata e per eliminare la minaccia russa sul Mar Nero e sul Mediterraneo orientale.

Lo sbarco delle truppe alleate in Crimea si verificò solo qualche mese dopo, il 14 settembre. Nonostante che le truppe russe globalmente fossero molto più numerose, per la necessità di impegno su altri fronti dell’Impero e per l’arretratezza della rete di comunicazioni, i soldati arrivati sulla penisola non risultarono superiori rispetto alle truppe nemiche. Dopo qualche iniziale vittoria, le posizioni si assestarono abbastanza velocemente con le truppe francesi e inglesi che si fermarono a sud e a est di Sebastopoli. Gli alleati, non essendo in numero sufficiente per compiere un accerchiamento della città, lasciarono incustodito un passaggio che permise ai russi di rimanere in contatto col resto del paese, mentre inglesi e francesi rimasero schiacciati sulla costa, impossibilitati a sfruttare le risorse della penisola e quindi tenuti in vita solamente dai rifornimenti che arrivavano via mare dalle madri patrie. Questo comportò il logoramento delle strutture militari, acuito da malattie ed in particolare per l’Inghilterra da una scarsa organizzazione.

Gli inglesi adottarono allora una delle loro tattiche tradizionali: cercare più alleati possibili per condividere oneri e onori della guerra tramite una consistente azione diplomatica e promesse di cospicui sussidi. Le prime potenze a cui rivolgersi erano per forza di cose la Prussia e l’Austria. La prima viveva un periodo di forti divisioni interne e per questo non si impegnò mai concretamente e non partecipò al conflitto. La seconda invece si trovava in una situazione pericolosa, era impossibilitata ad allearsi con ognuna delle due fazioni per paura delle conseguenze che ne potevano derivare da entrambe le parti.

L’Austria era stata aiutata dalla Russia nel 1849 a reprimere le rivolte ungheresi, quindi, era in debito con il paese che l’aveva salvata; la Francia dalla sua aveva il potere di accendere i focolai rivoluzionari esistenti in molte zone dell’Impero asburgico, fra cui l’Italia. Non intervenire e non schierarsi costituiva però un altro pericolo, ad esempio con la Russia che, invadendo i Balcani, avrebbe potuto mettere in pericolo gli interessi austriaci in quella zona. La strategia fu quindi quella di operare affinché nessuna delle minacce prospettate dalle due fazioni potessero avverarsi, cercando di non intervenire sul campo a favore di una o dell’altra parte. La Francia era però intenzionata a far valere i propri punti di forza e forzò quindi la mano all’Austria.

Napoleone III il 22 febbraio 1854, con una nota sul giornale “Le Moniteur”, proclamò la cooperazione militare in Oriente, compresi luoghi come l’Italia. Questo ebbe grandi conseguenze sul movimento nazionale italiano e la più importante fra queste fu il crollo del principio della guerra ideologica fra gli Stati liberali occidentali e quelli orientali e del nord assolutisti. La dinamica che si creò fu quella di una classica guerra orientata dai vantaggi ottenibili dalle grandi potenze. Oltre a questo cambio di paradigma, sul quale il movimento nazionale aveva puntato per stimolare l’azione dei compatrioti, ora veniva minacciata anche l’integrità del Piemonte, ultimo baluardo in quel momento delle ambizioni di indipendenza nazionale e le sue mire sull’Italia.

Per il futuro del Piemonte era dunque cruciale la postura austriaca in questo conflitto, se e come si sarebbe alleata ai franco-inglesi e cosa questo avrebbe comportato per il Regno sabaudo. Successivamente il governo francese precisò che la solidarietà delle armi in Italia si riferiva a coloro che fomentavano la rivoluzione e non necessariamente al Piemonte. Così che il 10 aprile, quando le due potenze alleate firmarono il trattato di alleanza, il Regno sabaudo espresse il proprio favore ai loro scopi, senza però sbilanciarsi in merito ad un ingresso nell’alleanza. Di fronte alle autorità piemontesi si presentava quindi un decisivo bivio, partecipare o meno all’alleanza, dove ogni scelta comportava sacrifici e vantaggi.

Il Re e Cavour erano decisi ad intervenire. La posizione cavouriana era determinata, oltre che dal suo personale convincimento, anche dalla necessità dell’appoggio reale al gabinetto liberale e per questo non poteva che seguire le volontà del Re. Vi erano però anche posizioni più attendiste, come quella del Ministro degli esteri Giuseppe Dabormida. Non intervenire avrebbe comportato non solo perdere l’occasione di poter modificare gli equilibri italiani ma anche rischiare di perdere ciò che si era faticosamente conquistato fino a quel punto, qualora l’Austria, se alleata e vincente, lo avesse richiesto dopo la fine della guerra.

Cavour, che comunque non disconosceva le perplessità espresse da Dabormida, cominciò a compiere qualche tentativo con i rappresentanti francesi e inglesi a Torino, per capire le condizioni che poteva strappare agli alleati in cambio di un ingresso del Piemonte nella guerra. Un fattore che poteva rivelarsi decisivo per lo Stato sabaudo era quello di accedere all’alleanza prima che lo facesse l’Austria, per evitare che questa richiedesse ed ottenesse condizioni troppo sfavorevoli per l’Italia. Inizialmente le trattative fallirono ma si poté comunque registrare il vivo interesse inglese alle intenzioni piemontesi. Un passo avanti invece venne compiuto dall’Austria con due accordi, uno siglato il 2 dicembre con Inghilterra e Francia per il ristabilimento della pace e l’altro il 22 dicembre con la Francia per la “reciproca garanzia territoriale in Italia”. Quest’ultimo trattato infiammò il clima a Torino e spinse le autorità piemontesi all’azione.

Le trattative ripartirono alla fine del 1854, prima sotto impulso inglese, date le gravi perdite riportate in Crimea e poi anche per volontà francese. Il governo ed il Re posero le loro condizioni agli alleati: avrebbero mandato 15 mila soldati comandati da un generale piemontese agli ordini inglesi ma chiedevano un prestito di due milioni di sterline all’Inghilterra, l’ammissione del Regno sabaudo ai trattati di pace, la revoca dei sequestri dei beni lombardi e la presa in esame della situazione italiana. Nonostante che le richieste venissero ritenute ragionevoli, Francia e Inghilterra le rifiutarono, in particolare a causa delle ultime due, che avrebbero potuto creare complicazioni con l’Austria in vista di un suo potenziale ingresso nell’alleanza. Cavour non dovette digerire solo questo rifiuto, di cui prese conoscenza il 31 dicembre e che lo colpì duramente ma anche il venir meno della fiducia da parte del Re. I due erano i più grandi sostenitori della guerra ma, come detto, Cavour lo era anche per mantenere saldo il suo governo dato che, fino ad allora, il suo gabinetto liberale era sembrato l’unico che volesse puntare con forza sulla causa italiana e quindi a soddisfare le ambizioni di Vittorio Emanuele. Il 1° gennaio 1855 il Re ebbe un colloquio con Revel, esponente della destra, dove questi assicurò al sovrano che in caso di nomina alla presidenza del Consiglio egli avrebbe continuato a perseguire la politica bellicista voluta dal Re.

Vittorio Emanuele poteva così continuare a perseguire i suoi obiettivi senza il peso del governo liberale che era ormai in controtendenza rispetto al resto dell’indirizzo politico europeo tornato su un più prudente conservatorismo.

Essendo però ancora in corso i negoziati, nei quali si stava revisionando la richiesta piemontese con l’ausilio del rappresentante inglese a Torino, James Hudson, il Re dopo quel colloquio concesse a Cavour dieci giorni di tempo per superare l’ostacolo creatosi. Fra il 2 e il 10 gennaio ci fu la fase finale delle trattative nella quale Cavour fece il possibile per non perdere il governo. Il progetto di Hudson però venne meno il 2 gennaio, una volta tornato a Torino il Duca di Guiche, rappresentante francese. All’interno dello schieramento piemontese le fazioni erano chiare, Cavour e il Re da una parte per l’accesso all’alleanza a tutti i costi e Giuseppe Dabormida, Urbano Rattazzi e Alfonso La Marmora (ministro della guerra) dall’altra, determinati ad ottenere qualche vantaggio in cambio.

Cavour si fece più spregiudicato che mai una volta venuto a conoscenza delle manovre reali per sostituirlo con Revel. I rappresentanti alleati dalla loro, contrattavano da una posizione di forza e la facevano valere nei colloqui con i rappresentanti piemontesi. L’ultima speranza di Cavour ricadeva su un incontro con Hudson e Guiche nella notte del 9 gennaio, con la presenza di Rattazzi, Dabormida e La Marmora. Era indispensabile per il Conte strappare un accordo, altrimenti si sarebbe susseguita la fine dell’esperienza liberale in Piemonte. L’incontro durò per molte ore e alla fine Cavour riuscì ad includere nell’accordo finale la questione dei sequestri, mentre era stato escluso un rappresentante piemontese ai negoziati di pace ed escluso ogni accenno alla revisione delle condizioni dell’Italia dopo la guerra. Dabormida non era ancora convinto, perciò Cavour nella notte dovette ottenere le sue dimissioni così che il governo potesse manifestare il suo assenso al trattato.

Il Re dovette quindi abbandonare i progetti di un nuovo gabinetto Revel e fu obbligato a confermare Cavour nominandolo anche nuovo Ministro degli esteri; il Conte così, la mattina del 10 gennaio, poté informare i rappresentanti alleati dell’avvenuta adesione all’alleanza. Oltre all’accordo militare l’Inghilterra avrebbe concesso un prestito di un milione di sterline una volta ratificata l’adesione al trattato di alleanza e ne avrebbe concesso un altro se per la fine dell’anno la guerra non fosse stata ancora conclusa. Questo rapporto fra i due Stati portò gli inglesi a interpretare il corpo di spedizione sardo come parte del proprio esercito, ma Cavour e la diplomazia piemontese insistettero e alla fine ottennero che il loro corpo mantenesse l’autonomia e dipendesse da un generale sabaudo.

Come detto in precedenza, l’avvicinamento tra Francia e Austria del 1854 colpì duramente il movimento patriottico italiano che stava costruendo la sua causa anche intorno alla guerra per la riscossa delle nazioni ai danni degli imperi multinazionali. L’accordo del 10 gennaio però riaccese le speranze e attirò simpatie da tutta Italia, perché dimostrò come il Piemonte potesse diventare la guida del movimento nazionale ma comunque non in quell’occasione; infatti, la conversione dell’opinione italiana in favore del Regno sabaudo sarebbe avvenuta l’anno successivo.

Sinistra e destra criticarono duramente la condotta governativa ed in particolare quella di Cavour, reo, a loro avviso, di essersi alleato col nemico austriaco e di aver condannato il Piemonte a disastrose perdite e fra queste non solo quelle delle vite dei soldati. Il 6 febbraio 1855 Cavour intervenne alla Camera per chiedere all’aula l’approvazione della convenzione con Francia e Inghilterra, dopo che l’accordo con le due potenze era già stato preso. L’intervento, uno dei più ispirati mai pronunciati dal presidente, fu così strutturato: “io mi propongo di farvi dapprima una breve e succinta relazione delle negoziazioni e di dirvi quindi i motivi che hanno indotto il Ministero ad accettare il trattato, per prendere in ultimo ad esaminare gli appunti che contro il trattato sono stati diretti”[8].

Per quanto riguardava le motivazioni, Cavour iniziò dal prospettare uno scenario in cui la Russia sarebbe riuscita a conquistare la capitale ottomana: “quando la Russia fosse padrona di Costantinopoli, lo sarebbe altresì del Mediterraneo, poiché diventerebbe dominatrice assoluta del più gran mare realmente mediterraneo che esista sul globo, cioè del mar Nero. Il mar Nero diventerebbe allora un vero lago russo e quando questo gran lago russo fosse nelle mani di una nazione che conta 70 milioni di abitanti diverrebbe in poco tempo il più grande arsenale marittimo del mondo, un arsenale al quale non potrebbero forse resistere tutte le altre potenze marittime. […]. Qui forse taluno mi dirà: e che importa il predominio nel Mediterraneo? Questo predominio non appartiene all’Italia, non appartiene alla Sardegna, esso è in possesso dell’Inghilterra e della Francia; invece, di due padroni il Mediterraneo ne avrà tre. […] quando essa (la Russia, ndr) venisse ad acquistare irresistibile influenza nei consigli europei è mia opinione che il nostro paese, le nostre istituzioni, la nostra nazionalità correrebbero gravissimo pericolo. La storia di questi ultimi quarant’anni vi dimostra come la Russia abbia sempre esercitato la grandissima sua influenza per combattere ogni liberale tendenza, per reprimere ogni sforzo di popolare emancipazione”[9].

Cavour concluse questa prima parte “teorica”, passando a “considerazioni più pratiche” riferendosi alla posizione da tenere in risposta ai primi inviti di Hudson ad intervenire nella guerra. Intervento che, da parte piemontese, non poteva che avvenire aderendo al trattato franco-inglese del 10 aprile 1854, come pari degli altri due Stati. “Invitati ad accedere al trattato, noi non potevamo appigliarci che all’uno o all’altro dei seguenti partiti: od accedervi, o rimanere neutrali […]. Mi lusingo che non avrò difficoltà a provarvi quali funeste conseguenze il sistema di neutralità avrebbe necessariamente avuto. Onde una nazione di second’ordine possa rimanere neutrale senza pericolo, quando le potenze di primo ordine sono impegnate in un gran guerra, si richiede a parer mio una condiziona assoluta, ed è che la neutralità di quella nazione non torni né a danno, né a vantaggio più dell’una, che dall’altra parte belligerante. Quando la neutralità non esercita influenza veruna sulle condizioni della guerra, in tal caso ritengo che la medesima non possa avere conseguenze fatali. […] Ma noi signori, non eravamo in questa condizione, noi non potevamo rimanere neutrali senza indirettamente, ed in modo assolutamente indipendente dalla nostra volontà, incagliare grandemente le operazioni delle potenze occidentali, senza in certo modo fare un beneficio alla Russia, senza essere i segreti alleati di questa potenza. […] Essa (la neutralità, ndr) ci farebbe adunque necessariamente perdere la simpatia delle potenze occidentali, indisponendole contro di noi, essendochè in politica si è sempre indisposti contro di quella potenza che ci fa del male, anche senza volerlo. Ma mi si dice: che cosa importa che le potenze occidentali siano indisposte contro di noi, se noi siamo nel nostro diritto, se noi non facciamo cosa che a termini del diritto delle genti possa esserci imputata a colpa? Signori, se le questioni politiche, se i destini di popoli venissero sempre regolati a tenore del diritto privato, se fossero decisi da tribunali imparziali che non avessero altro movente che di rendere giustizia, io capirei tutta la forza di questo ragionamento: ma sia un bene, sia un male, le cose non sono così”[10].

Una volta dimostrati i danni possibili che la neutralità avrebbe potuto comportare, Cavour si appellò alla necessità di non perdere le simpatie del partito liberale europeo che si era dichiarato a favore della guerra nei paesi dai quali il Piemonte dipendeva. In quell’epoca in qui l’opinione pubblica contava sempre di più, una situazione del genere non era ignorabile: “Ora, signori, se noi avessimo ricusato di partecipare a questa guerra dopo essere stati invitati, e quantunque fosse chiaro ed evidente essere interesse del nostro paese il prendervi parte, sarebbe venuta meno la stima che gli uomini illuminati hanno per il Piemonte, sarebbe diminuita di molto la simpatia che tutti gli uomini liberali e generosi hanno per questo paese, e questa, signori, la reputerei una grande sventura, giacché io penso che se il Piemonte occupa in Europa un posto forse maggiore di quello che gli compete per la ristrettezza del suo territorio, esso lo deve alla potenza dell’opinione pubblica che gli è favorevole […]. E chi ardirebbe di contestare l’influenza che l’opinione pubblica esercita sulle cose politiche, quando vediamo non solo i Governi retti a forme libere, non solo i Governi, i quali hanno lasciata una certa libertà di parola e di scritto, tener conto di questa grande sovrana del mondo, ma altresì i regnanti che per lo passato pareano tenere in non cale la pubblicità […]?”[11].

L’intervento continuava enunciando le criticità e le conseguenze negative che aderire al trattato comportava, comunque non sufficienti a rifiutare l’adesione. Concentrandosi sugli aspetti economici Cavour sottolineava l’importanza della differenza fra il contrarre un prestito e ricevere un sussidio:

“la guerra che stiamo per intraprendere è guerra altamente politica, ed ove noi l’avessimo intrapresa sussidiati da una delle potenze belligeranti, le nostre intenzioni, i nostri interessi, avrebbero potuto essere sconosciuti; così facendo, noi saremmo scesi in campo non in quella condizione in cui deve scendere una nazione che si rispetta e presso la quale sì grande è il sentimento dell’onore, come è la nostra”[12].

Così Cavour mostrava il passaggio compiuto dal Piemonte, che non aveva più bisogno di sussidi per sopravvivere e difendere la propria integrità, come capitava ai paesi minori ma che con dignità si apprestava ad entrare in guerra grazie ad un prestito che non lo avrebbe reso mercenario di nessuno. Seguì poi una discettazione sulle condizioni dell’esercito inglese e francese dei quali, secondo il Conte, non c’era da preoccuparsi. Nonostante l’andamento molto negativo della guerra fino a quel momento, Cavour disse che la Francia ma particolare l’Inghilterra avrebbero aumentato i loro sforzi e sovvertito l’esito della guerra. Il presidente rispose poi alle accuse, in particolare di Angelo Brofferio della sinistra, di star cambiando l’indirizzo politico del governo aderendo al trattato. Cavour ricordò come Francia e Inghilterra fossero politicamente vicine alle posizioni piemontesi e per questo unirsi a loro non comportava alcun tradimento degli ideali politici fin lì seguiti dal governo. A chi faceva notare che anche l’Austria avrebbe potuto partecipare all’alleanza, rispose che, se questa avesse invertito la propria condotta e iniziato a condividere l’indirizzo politico occidentale, allora il Piemonte non avrebbe potuto che esserle vicino. Inoltre: “Credo però debito mio dichiarare altamente che noi siamo entrati nell’alleanza, che ci siamo presentati alle potenze che ci invitavano a stringer patto con loro coi nostri principii, coi nostri sentimenti, senza disdire nessuna delle nostre azioni passate, nessuna delle nostre aspirazioni avvenire; noi ci siamo presentati ad esse colla nostra bandiera alta e spiegata. così facendo, o signori, noi non crediamo aver fatto danno al sistema rappresentativo, alle idee saviamente liberali; ché anzi pensiamo aver conferito al sistema costituzionale, alle idee saviamente liberali di cui siamo stati e saremo sempre i fautori, una maggior forza; crediamo di aver loro reso un grandissimo servizio facendole ammettere nel concerto europeo. Noi crediamo con ciò di aver reso più saldo e più forte il fondamento dell’edifizio costituzionale che da sette anni andiamo lentamente innalzando; abbiamo la piena fiducia di aver maggiormente raffermata la bandiera tricolore che sventola su quell’edifizio, e di averle data forza bastante da poter nell’avvenire resistere del pari degli uragani rivoluzionari, come alle reazionarie bufere”[13].

Seguì allora una risposta a Revel in merito ad una precisa accusa dell’avversario riguardante il connubio con il centro sinistro e al legame fra quell’operazione politica e la necessità di aderire al trattato per sanare l’instabilità che, secondo Revel, si era creata dal momento della sua esclusione dal governo.

Concluse poi l’intervento: “È la nostra accessione all’alleanza fatale o giovevole all’Italia? Ecco il punto da risolvere, ecco la questione a cui conviene rispondere. Io credo di potere, senza esitare, rispondere che la nostra accessione è all’Italia favorevolissima. […] Ma come mai, mi si dirà, può questo trattato giovare all’Italia? Risponderò: nel modo che sia dato a noi, e forse a chiunque, di giovare all’Italia nelle attuali condizioni d’Europa. L’esperienza degli anni scorsi e degli scorsi secoli ha dimostrato (l’ha dimostrato almeno a parer mio) quanto poco abbiano all’Italia giovato le congiure, le trame, le rivoluzioni ed i moti incomposti. […] specialmente perché queste continue congiure, queste rivoluzioni ripetute, questi moti incomposti ebbero per effetto di scemare la stima e, fino ad un certo punto, la simpatia che gli altri popoli dell’Europa per l’Italia nutrivano. Ora, o signori, io credo che la principal condizione pel miglioramento delle sorti d’Italia, quella che sovrasta tutte le altre, si è di rialzare la sua riputazione, di far sì che tutti i popoli del mondo, e governanti e governati rendano giustizia alle sue qualità. E per ciò due cose sono necessarie: primo, di provare all’Europa che l’Italia ha senno civile abbastanza per governarsi regolarmente, per reggersi a libertà, che essa è in condizione di assumere le forme di governo le più perfette che si conoscano; secondariamente, che il suo valor militare è pari a quello degli avi suoi. […] Ed io sono certo, o signori, che gli allori che i nostri soldati acquisteranno nelle regioni dell’Oriente, gioveranno di più per le sorti future d’Italia di quello non abbiano fatto tutti coloro che hanno creduto operarne la rigenerazione con declamazioni e con scritti”[14].

Questo intervento di Cavour rifletteva molto della condotta tenuta nella sua carriera politica e rivelava le considerazioni di politica estera che andavano facendo in quel periodo, politica estera che per Cavour era e sarebbe sempre stata finalizzata alla questione nazionale. Spiccavano alcuni elementi.

Il realismo e non lo scetticismo, sul Piemonte, definito come paese di secondo ordine, che non poteva non rispondere alla chiamata dei paesi da quali dipendeva la sua sicurezza. La consapevolezza del contesto in cui il Regno di Sardegna era incluso, che gli imponeva di vigilare sulle ambizioni russe nel Mediterraneo. L’interdipendenza fra la causa liberale e quella italiana. La consapevolezza del passaggio che stava compiendo il Piemonte, necessario per poter sostenere le ambizioni italiane, che portavano il piccolo Regno a non poter più ignorare l’opinione pubblica europea e la reputazione che aveva acquisito nei confronti degli altri Stati.

Il 10 febbraio ci fu la votazione alla Camera, con 101 voti favorevoli e 60 contrari a scrutinio palese e con 95 voti favorevoli e 64 contrari a scrutinio segreto. Il 3 marzo ci fu la votazione al senato dove il trattato passò facilmente data la forte spinta del Re. Revel durante il dibattito aveva provato a richiedere un voto separato, per la convenzione militare, per cui avrebbe votato a favore e per la convenzione economica, per la quale invece avrebbe votato contro. Quando però questa possibilità venne rigettata dalla Camera egli si vide costretto a votare contro alle due convenzioni unite, fatto che lo danneggiò notevolmente, non solo per la mancata coerenza ma anche e soprattutto agli occhi di Francia e Inghilterra, motivo per cui in quella fase non poté più rappresentare per il Re un’opzione per la sostituzione di Cavour alla presidenza del Consiglio.

Il Re non aveva però abbandonato i suoi tentativi antiministeriali e con la crisi Calabiana, avvenuta in seguito alla discussione alla Camera della legge sui conventi, tentò nuovamente di sostituire Cavour. Sfruttò la fortissima opposizione svolta dalla Chiesa nei confronti della legge, Chiesa con la quale il Re era interessato a recuperare gli ottimi rapporti del passato. Il presidente e Rattazzi erano a conoscenza delle forti resistenze clericali ed anche delle perplessità in campo liberale ma programmavano di sostituire i voti persi a destra con altri voti della sinistra. La legge, come previsto, incontrò forti resistenze soprattutto in Senato e dopo che le posizioni di Cavour e Rattazzi e del Re risultarono inconciliabili e il 24 aprile il governo si dimise. Il tentativo del Re di dar vita a un nuovo governo fallì. Affidò l’incarico di formare un nuovo gabinetto al liberale Giacomo Durando, serviva infatti necessariamente un liberale dopo la scelta di campo fatta a livello internazionale ma anche questo, appunto, fallì.

Il 3 maggio il Re dovette richiamare Cavour che, il 28 maggio, riuscì finalmente a far passare la legge sui conventi con un emendamento del Senato ed il giorno dopo venne sanzionata dal Re. Avvenne quindi un rimpasto ministeriale che fra gli altri movimenti vide Luigi Cibrario diventare il nuovo Ministro degli esteri.

Cavour uscì decisamente rafforzato da questa battaglia, il Re per la prima volta era stato battuto su una questione fondamentale di indirizzo politico, ed era stato obbligato a richiamare il Conte dopo aver tentato di sostituirlo. La Corona si era dovuta piegare davanti alle volontà del governo e della maggioranza. Maggioranza che ormai vedeva in Cavour la sua guida, divenuta ormai più forte ed influente del Re.

[8] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., p. 169

[9] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., pp. 175,176

[10] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., pp. 179,181

[11] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., pp. 184,185

[12] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., p. 189

[13] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., p. 201

[14] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., pp. 206,207

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2.2 Il congresso di Parigi

Dal 15 marzo, senza la partecipazione del Piemonte, che ne venne escluso, si svolsero a Vienna una serie di conferenze fra le potenze coinvolte nel conflitto nel tentativo di trovare un’intesa che evitasse il protrarsi della guerra. Le conferenze fallirono, la Russia si rifiutò di smilitarizzare il Mar Nero e l’Austria si allontanò dall’alleanza franco-inglese.

Il deterioramento dei rapporti con l’Impero asburgico fu un grande risultato per Cavour che adesso poteva avanzare agli alleati richieste prima impensabili. Cavour chiese ed ottenne un rappresentante alla futura conferenza di pace, che sarebbe potuto intervenire solo in merito alle questioni riguardanti il Piemonte ma che avrebbe potuto firmare il trattato di pace. La conseguenza più grande di questi episodi fu che la posizione piemontese e quella austriaca si ribaltarono, ora era l’Impero asburgico a dover trattare da una posizione di difesa e non più il contrario. La prestazione dell’esercito sabaudo in Crimea sarebbe stata però fondamentale per tutti i piani successivi del governo e grandi trattative vennero avviate per stabilire il ruolo del corpo di spedizione piemontese, che non si voleva agisse al soldo di nessuno.

Quando la spedizione piemontese, sotto la guida del generale La Marmora, arrivò in Crimea il 9 maggio, non gli vennero affidati ruoli di primo piano nelle battaglie programmate di seguito. L’unico vero intervento sardo avvenne il 16 agosto in occasione della battaglia della Cernaia dove i piemontesi riuscirono, supportando i francesi, a respingere l’offensiva russa sulla linea della Cernaia, pianificata per liberare l’esercito dello Zar dall’assedio di Sebastopoli. Dopo questa vittoria, per lo più in realtà realizzata dal corpo francese, l’esercito sabaudo tornò a un ruolo di secondo piano fino alla conquista di Sebastopoli nel mese di settembre. La flotta navale russa nel Mar Nero venne distrutta e si poté iniziare a programmare l’armistizio e le trattative di pace.

Nonostante la vittoria del 16 agosto, che venne celebrata oltremodo in patria, l’esercito sabaudo finì per non partecipare al conflitto nei modi e nel peso che ci si aspettava, la copertura finanziaria e il numero di soldati risultò totalmente squilibrato in confronto alla parte svolta sul campo. Il generale La Marmora non riuscì a ritagliarsi un ruolo determinante con gli alleati e venne di fatto relegato dai generali inglesi a una posizione secondaria. Le perdite furono in numero esiguo e Cavour non poteva quindi far valere un contributo importante al successo finale, aspetto su cui egli puntava di più per poter contare alle future trattative di pace. La struttura dell’esercito, controllata dal Re e dall’aristocrazia, impedì al Conte di influire nelle direttive e nella coordinazione delle operazioni e lo limitò nella possibilità di forzare La Marmora a partecipare in più battaglie possibili.

Fortunatamente per il Conte all’interno dell’opinione pubblica piemontese la guerra venne accolta come un totale successo dell’esercito sabaudo e vennero decantati i sacrifici e il coraggio dimostrati in occasione della battaglia della Cernaia.

Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre iniziò a Vienna la preparazione di un accordo di pace con l’ambasciatore francese, che vedeva il consenso di Napoleone III ed anche della Russia, alla quale erano state imposte condizioni molto dure. L’Inghilterra invece sperava nella continuazione del conflitto nel Mar Baltico per annientare la flotta russa anche in quello scenario. Una volta venuto a conoscenza di queste prime trattative, Cavour, il Re e il corteggio reale partirono per una visita a Parigi e poi a Londra. Con questo viaggio il Conte voleva carpire informazioni sulle trattative in quel momento in corso ed iniziare ad inserirsi nelle contrattazioni per ottenere il più possibile per il Piemonte. In Inghilterra non ricevette garanzie in tal senso mentre in Francia Napoleone III si espose notevolmente.

In un incontro fra l’Imperatore e Cavour dell’8 dicembre, Napoleone III pronunciò la rinomata frase: “scrivete confidenzialmente a Walewski ciò che credete che io possa fare per il Piemonte e per l’Italia”[15], Walewski era il Ministro degli esteri francese. Questa frase fu la prima vera base di una politica che a Torino speravano di imbastire sin dall’inizio del regime costituzionale ed in particolare con la partecipazione alla guerra di Crimea e rappresentò il punto di svolta della politica estera piemontese di quegli anni; era anche la conferma dei piani italiani di Napoleone III che facevano parte dei più ampi progetti di modificazione degli equilibri europei, sui quali Cavour, il governo e il Re, avevano sempre sperato. Non si trattava di un risultato ancora concreto ma finalmente si rendeva davvero possibile uno sviluppo delle mire italiane del Piemonte. In patria però regnava ancora lo scetticismo scaturito dalle voci sulle iniziative di pace che coinvolgevano anche l’Austria. La stesura della scrittura destinata a Walewski venne affidata all’Azeglio che però, a causa di una sua indisposizione, fu conclusa solamente il 20 gennaio 1856. A quel punto le condizioni politiche erano però cambiate.
Il 15 gennaio l’Austria inviò alla Russia un ultimatum concordato con la Francia, con il quale, oltre a porre dure condizioni alla Russia, ne stabiliva di ottime per sé stessa. Una volta ricevuta dagli alleati la notizia dell’avvenuto invio dell’ultimatum ai russi, Cavour dovette occuparsi della risposta. L’ultimatum imponeva il sacrificio russo del protettorato sui Principati danubiani cosicché l’Austria avrebbe potuto facilmente ottenerne il controllo diventando la potenza più influente in quella zona d’Europa. Ciò avrebbe minacciato la sicurezza e l’integrità del Piemonte. Cavour quindi chiese che, data l’espansione austriaca, si compensasse il Piemonte mediante il conferimento di adeguati strumenti per contrastare l’aumento dell’influenza asburgica. In via non ufficiale proponeva a Francia e Inghilterra che ciò avvenisse attraverso l’annessione dei territori dei ducati di Modena e Parma, o almeno solo di quest’ultimo. I Ministri inglesi e francesi rifiutarono questa lettura cavouriana sul pericolo che avrebbe corso il Piemonte e negarono l’annessione dei due ducati. Il 17 gennaio arrivò a Torino la notizia dell’avvenuta accettazione russa dell’ultimatum e questo creò da subito un grande subbuglio.

Il sacrificio finanziario e di vite umane, compiuto con la guerra poteva, a quel punto, portare a un nulla di fatto. La scommessa fatta un anno prima sul possibile mutamento degli equilibri europei in seguito alla guerra sembrava persa. Arrivato quindi il memoriale di D’Azeglio il 20 gennaio, Cavour decise di riscriverlo di suo pugno e di inviare a Walewski uno testo, scritto in poche ore, con proposte ben più limitate che comunque vennero rifiutate. In quel momento la questione italiana a Parigi e a Londra era assolutamente fuori dai loro imminenti progetti.

Cavour al congresso di Parigi - Illustrazione di Edoardo Matania, 1899

Cavour al congresso di Parigi - Illustrazione di Edoardo Matania, 1899

Al successivo congresso di pace di Parigi, dopo la rinuncia dell’Azeglio, la rappresentanza del Regno di Sardegna ricadde su Cavour. Il compito si preannunciava sin da subito molto complicato, il Conte si pronunciava così: “I plenipotenziari sardi – anticipava al Villamarina – non potendo lusingarsi di avere una parte molto brillante nel congresso, dominato dallo spirito austriaco, devono attendersi di subire le conseguenze della delusione generale che sarà prodotta dalla guerra […] È possibile, è anche probabile che la missione attuale sia l’ultimo atto della mia vita politica. I tristi risultati di un’alleanza la cui responsabilità ricade interamente su di me devono seppellirmi”[16].

Il 13 febbraio in questo stato d’animo partì per Parigi. Una volta arrivato a Parigi, Cavour ottenne sin da subito una grande vittoria che già di per sé poteva assicurare il futuro del suo governo liberale in Piemonte. Inghilterra, Francia e Austria acconsentirono alla presenza dei rappresentanti piemontesi alle conferenze, senza essere limitati solamente a quelle che li riguardavano direttamente. Il Regno poté quindi partecipare al Congresso quasi alla pari degli altri paesi, condizione che non si era ancora verificata nei precedenti trattati. Successivamente, in un incontro con Napoleone III il 21 febbraio il Conte venne informato dall’imperatore del suo progetto di annessione al Piemonte dei territori dei ducati di Parma e Modena. Questa proposta rimetteva in piedi la strategia originale per l’ingrandimento che sembrava ormai svanita.

In quella fase però, il progetto venne ostacolato dalle altre potenze fino al rinvio di una decisione in proposito ad opera di una commissione speciale dalla quale l’Austria ottenne l’esclusione del Piemonte con grave sconforto di Cavour, che vide crollare tutte le strategie e le proposte fin lì escogitate. Nelle settimane successive si trattò la questione italiana dal punto di vista dell’attenuamento dell’influenza papale sulle Legazioni pontificie. Questo tentativo però incontrò risolute resistenze da parte di Napoleone III, legato dalle strette relazioni francesi con la Chiesa e lo svogliato e incurante approccio inglese che sfruttò la vicenda per soddisfare l’opinione pubblica interna antipapista. L’imperatore francese dovette infine arrendersi al fatto che ogni possibile trattazione della questione italiana avrebbe comportato un conflitto con l’Impero asburgico, perciò diminuì i suoi sforzi. In una delle sedute finali del Congresso, l’8 aprile, si trattò della questione italiana e il dibattito venne registrato nel verbale della conferenza. Seppur alla fine del Congresso non venne raggiunto alcun risultato pratico, secondo le aspirazioni iniziali di Cavour: “far trattare la

questione italiana” sarebbe stato un successo, “anche a rischio di non trarne altri risultati che l’averla messa sul tappeto”[17].

Il Conte però non si accontentò e nel corso di quel mese di aprile con viaggi fra Londra e poi di nuovo Parigi, cercò un ulteriore sbocco per poter, a questo punto tramite una nuova guerra, trarre qualche risultato pratico; Cavour fallì in questo intento, l’Inghilterra e i suoi governanti risultarono ancora una volta non davvero interessati alle sorti italiane ma poté registrare un’apertura per un futuro dialogo da parte di Napoleone III la sera del 26 aprile. Il 29, infine, fece ritorno a Torino.

Nonostante un iniziale pessimismo mostrato da Cavour sui risultati ottenuti a Parigi, l’operazione piemontese alla fine poteva definirsi un successo. Se nel gennaio dell’anno precedente, nell’adesione al trattato d’alleanza, venne rifiutato ogni accenno allo stato delle cose in Italia ed alla revoca dei sequestri, dopo il Congresso, ed in particolare dopo la conferenza dell’8 aprile, la situazione italiana era stata dibattuta e registrata nei verbali, con annesse dichiarazioni di Francia e Inghilterra che delineavano una nuova postura nei confronti del problema e nei confronti dell’Austria. Inoltre, Cavour si era ritrovato nella posizione di poter rifiutare una proposta inerente ai sequestri da parte austriaca, con la speranza e l’obiettivo di poter ottenere la revoca completa in futuro e con altri mezzi. Se verso la fine della guerra la presenza piemontese al Congresso avrebbe riguardato solo i temi a lei legati, nel febbraio 1856 il Regno era stato accettato senza limitazioni a tutte le conferenze.

La questione italiana, come si erano prefissati gli inviati piemontesi, venne quindi presa in considerazione dalle potenze europee, non nei termini degli anni precedenti, legati al pericolo rivoluzionario ma legati alle rimostranze dei popoli italiani che meritavano una riflessione particolare. Cavour riuscì a porre il tema della presenza delle truppe austriache, anche se solo nelle Legazioni pontificie e in merito ottenne l’attenzione e la comprensione di Francia e Inghilterra. Fu anche un successo di opinione pubblica, sia in Italia che all’estero. Con questa guerra e col Congresso di Parigi si erano poste le basi politiche che portarono poi agli eventi degli anni successivi; a Parigi le potenze si erano esposte politicamente per la prima volta.

Una volta tornato a Torino ricevette una calorosa accoglienza da parte del Re, vivi apprezzamenti da tutte le parti d’Italia, sia da parti della sinistra democratica che dalla destra di Revel. Il 6 maggio Cavour intervenne alla Camera in occasione dell’interpellanza riguardante i rapporti inviati dal Conte durante il Congresso. Il discorso pronunciato quel giorno fu, come quello del 6 febbraio 1855, uno dei più importanti mai pronunciati da Cavour in materia di politica estera.

Cavour iniziò spiegando che il Regno di Sardegna era stato accettato a tutte le conferenze del Congresso grazie alla credibilità e all’onore conquistati durante la guerra sul campo di battaglia e per aver rispettato tutti gli impegni presi al tempo dell’adesione al trattato di alleanza. Ricordò poi gli obiettivi dell’operazione piemontese: “La missione dei plenipotenziari sardi aveva un doppio scopo. In primo luogo, dovevano concorrere coi loro alleati all’opera della pace colla Russia, alla consolidazione dell’impero Ottomano; in secondo luogo era debito loro di fare ogni sforzo onde attirare l’attenzione dei loro alleati e dell’Europa sulle condizioni d’Italia e cercar modo di alleviare i mali che affliggono questa nazione”[18].

Illustrò quindi come i primi due punti fossero stati brillantemente affermati e a proposito di questo, aggiunse: “Ma più che a vantaggi materiali stimo che dobbiamo badare a quelli morali che dalle Conferenze, che dal trattato abbiamo ricavato. Io ritengo che non sia poca cosa per noi l’essere stati chiamati a partecipare a negoziazioni, a prender parte alla soluzione di problemi i quali interessano non tanto questa o quell’altra potenza, ma sono questioni, sono problemi di un ordine europeo. È la prima volta, dopo molti e molti anni, dopo forse il trattato di Utrecht, che una potenza di secondo ordine sia stata chiamata a concorrere con quelle di primo ordine alla soluzione delle questioni europee; così vien meno la massima stabilita dal Congresso di Vienna a danno delle potenze minori. Questo fatto è di natura a giovare non solo al Piemonte, ma a tutte le nazioni che si trovano in identiche condizioni. Certamente esso ha di molto innalzato il nostro paese nella stima degli altri popoli e gli ha procacciato una riputazione, che il senno del Governo, la virtù del popolo non dubito saprà mantenergli”.[19]

Dopo un passaggio intermedio, Cavour passò alla questione italiana. In primo luogo, giustificò e provò come non fosse stato possibile ottenere nuovi possedimenti territoriali, quindi: “Tuttavia, anche sul terreno della diplomazia e mettendo per base i trattati esistenti, ai quali non era il caso di portare modificazione, vi era mezzo di portare la questione d’Italia se non avanti il Congresso, almeno dinanzi alle potenze in esso rappresentate. Diffatti, o signori, lo stato attuale d’Italia non è conforme alle prescrizioni dei trattati vigenti. I principii stabiliti a Vienna e nei susseguenti trattati sono apertamente violati: l’equilibrio politico quale fu stabilito trovasi rotto da molti anni. Quindi i plenipotenziari della Sardegna credettero dovere specialmente rivolgere l’opera loro a rappresentare questo stato di cose, a chiamare sopra di esso l’attenzione della Francia e dell’Inghilterra, invitandole a prenderlo in seria considerazione”[20].

L’Inghilterra e la Francia, continuò Cavour, si erano dimostrate favorevoli alle rimostranze italiane ma si presentava il problema di come far cessare l’occupazione dell’Italia centrale. Mentre l’Inghilterra era pienamente d’accordo alla liberazione delle Legazioni pontificie, la Francia era meno convinta: “Pel governo francese il Sommo Pontefice non è solo il capo temporale di uno Stato di 3 milioni d’abitanti, ma è altresì il capo religioso di 33 milioni di Francesi; questa condizione impone a quel Governo particolari riguardi al Sovrano Pontefice”[21], ricordò invece quanto, in questo caso, fosse più semplice per l’Inghilterra schierarsi. “Nessun risultato positivo si può dire essersi ottenuto; tuttavia io tengo essere un gran fatto questa proclamazione che si fece per parte della Francia e dell’Inghilterra della necessità di far cessare l’occupazione dell’Italia centrale, e dell’intendimento per parte della Francia di prendere tutti provvedimenti a quest’uopo necessari. […] parve alla Sardegna, come pure ai suoi alleati, i quali su quest’argomento concorsero, dirò, con una grande spontaneità, potersi, all’occasione della sanzione di questa gran pace europea, rivolgere ad alcuni Stati d’Italia consigli di moderazione, di temperanza di clemenza”[22].

Infine, concluse l’intervento riassumendo i risultati positivi e con un attacco all’Austria: “Rispetto alla questione italiana non si è, per vero, arrivati a grandi risultati positivi; tuttavia si sono guadagnate, a mio parere, due cose: la prima che la condizione anomala ed infelice dell’Italia è stata denunziata all’Europa non già da demagoghi, da rivoluzionari esaltati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito, ma bensì da rappresentanti delle primarie potenze dell’Europa, da statisti che seggono a capo dei loro Governi, da uomini insigni avvezzi a consultare assai più la voce della ragione che a seguire gl’impulsi del cuore. […] Il secondo si è che quelle stesse potenze hanno dichiarato essere necessario non solo nell’interesse d’Italia, ma in un interesse europeo, di arrecare ai mali d’Italia un qualche rimedio. Non posso credere che le sentenze profferite, che i consigli predicati da nazioni quali sono la Francia e l’Inghilterra siano per rimanere lungamente sterili. Sicuramente se da un lato abbiamo da applaudire questo risultato, dall’altro io debbo riconoscere che esso non è scevro d’inconvenienti e di pericoli. Egli è sicuro, o signori, che le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni con l’Austria! Noi dobbiamo confessare che i plenipotenziari della Sardegna e quelli dell’Austria […] si sono separati, dico, senza ire personali, ma coll’intima convinzione essere la politica dei due paesi più lontana che mai dal mettersi d’accordo, essere inconciliabili i principii dell’uno e dell’altro paese propugnati. Questo fatto, o signori, è grave, non conviene nasconderlo; questo fatto può dar luogo a difficoltà, può suscitare pericoli, ma è una conseguenza inevitabile, fatale di quel sistema leale, liberale, deciso che il Re Vittorio Emanuele inaugurava salendo al trono, di cui il Governo del Re ha sempre cercato di farsi interprete, al quale voi avete sempre prestato fermo e valido appoggio. Né io credo, o signori, che la considerazione di queste difficoltà, di questi pericoli sia per farvi consigliare al Governo del Re di mutare politica. La via che abbiamo seguito in questi ultimi anni ci ha condotti ad un gran passo; per la prima volta nella storia nostra la quistione italiana è stata portata e discussa avanti ad un Congresso europeo […]. Terminato il Congresso, la causa d’Italia è portata ora al tribunale della pubblica opinione, a quel tribunale il quale, a seconda del detto memorabile dell’imperatore dei Francesi, spetta l’ultima sentenza, la vittoria definitiva. La lite potrà esser lunga, le peripezie saranno forse molte; ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspettiamo con fiducia l’esito finale”[23].
L’esposizione dei fatti di Parigi, per quanto non lontana dal vero, trasmetteva un’immagine di ciò che era accaduto e soprattutto di cosa sarebbe potuto di lì a poco accadere di più favorevole al Piemonte e all’Italia di quanto la situazione reale lasciasse davvero intravedere. Francia e Inghilterra avevano sì espresso che il contesto italiano necessitava di correzioni, l’Imperatore aveva sì manifestato più volte la volontà di aiutare il Regno sabaudo ma questo certo non significava che avrebbero appoggiato una guerra nei confronti dell’Austria. A quel punto, la strategia che Cavour inaugurava, era quella di viaggiare su un sottile filo di tensione continua causata soprattutto dal Piemonte stesso.

Nel caso in cui l’Austria avesse in risposta dichiarato guerra, allora le due potenze alleate avrebbero appoggiato il Regno, mentre, nel caso in cui avesse reagito con provvedimenti di una gravità minore, ciò avrebbe comunque giovato al Piemonte in quanto la tensione e i contrasti in Italia sarebbero aumentati. Paventando l’esistenza di tali potenti appoggi, il Piemonte diventava per forza di cose la più grande speranza per il movimento italiano, convinto in quegli ultimi mesi dalla condotta patriottica di Cavour in guerra e soprattutto al Congresso. Gli anni successivi avrebbero visto quindi il Conte giocare su due fronti. Sarebbe stato il campione d’Italia, agli occhi degli italiani di ogni schieramento politico e avrebbe rappresentato la nazione sia all’interno che all’esterno della penisola. Inoltre, avrebbe rappresentato le volontà diplomatiche europee nei confronti degli altri soggetti in gioco in Italia. Un incarico avrebbe rafforzato l’altro, sia nella credibilità delle sue azioni, sia nei margini di manovra possibili.

La posizione in cui si poneva Cavour da quel momento lo pose inevitabilmente in una situazione di grandi incertezze, stretto fra la possibilità di perdere la fiducia in Italia e quella di perdere l’affidamento diplomatico europeo. Qui sta la grandezza dell’impresa che negli anni successivi riuscì a realizzare. Anche se ancora l’obiettivo non poteva essere l’indipendenza nazionale di tutta la penisola, gli elementi in gioco ancora non lo rendevano possibile. La sua azione politica però da quel momento si legò indissolubilmente a questa causa, in un percorso irto di ostacoli e potenzialmente fatale in ogni momento. In una lettura certamente apologetica delle gesta di Cavour di quegli anni, in un opuscolo uscito nel 1859, quindi quando già si potevano osservare alcune delle conseguenze del Congresso di Parigi si disse: “Ed invero, il giorno istesso in cui, fermata la pace in Parigi, nel marzo del 1856, l'Austria credette di essere uscita dal periglio sana e salva e con onore, senza averci messo nulla del suo; in quel giorno il Conte di Cavour le preparava un colpo terribile, che doveva ferirla nel cuore, e non poteva, o presto o tardi, non esserle cagione d'immedicabili mali”[24].

[15] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 316

[16] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 321

[17] R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, cit., p. 327

[18] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., p. 214

[19] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., p. 216

[20] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., p. 220

[21] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., p. 222

[22] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., pp. 223,224

[23] G. Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023, cit., pp. 225,226,227

[24] Il Conte di Cavour e l'Italia, Torino, Tipografia Sarda di Calpini e Cotta, 1859, p. 8

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Conclusione

“Dopo il disastro di Novara e la pace di Milano (sono le parole del suo memorando discorso nella tornata del 16 aprile 1858 della Camera de' Deputati), due vie politiche si aprivano davanti a noi. Noi potevamo, piegando il capo avanti un fato avverso, rinunziare in modo assoluto a tutte le aspirazioni che avevano guidato negli ultimi anni il magnanimo re Carlo Alberto; noi potevamo rinchiuderci strettamente nei confini del nostro paese, e, chinando gli occhi a terra per non vedere quanto succedeva oltre Ticino e oltre la Macra, dedicarci esclusivamente agl' interessi materiali e morali del nostro paese; noi potevamo in certo modo ricominciare a continuare la politica in vigore prima del 1848. L'altro sistema invece consisteva nell'accettare i fatti compiuti, nello adattarsi alle dure condizioni de' tempi, ma nel conservare ad un tempo viva la fede che ispirato avevano le magnanime gesta di re Carlo Alberto; consisteva nel dichiarare la ferma intenzione di rispettare i trattati, di mantenere i patti giurati, ma di contenere nella sfera della politica l'impresa che andò fallita su' campi di battaglia. Il primo sistema presentava certamente molti e segnalati vantaggi; applicandolo, si potevano rendere meno gravi le conseguenze della funesta guerra del 1848 e 1849; si potevano ricondurre più prontamente le finanze in florido stato ed esimere i popoli da tanti nuovi tributi. Ma l'adozione di questo sistema importava una rinuncia assoluta ad ogni idea d'avvenire, imponeva d'abbandonare le gloriose tradizioni della Casa di Savoia, di ripudiare sdegnosamente la dolorosa, ma gloriosa eredità di re Carlo Alberto. Il generoso suo figlio non poteva esitare, e, quantunque assai più difficile, egli scelse il secondo. E per attuarlo, pochi giorni dopo d'essere salito al trono, chiese a sedere a capo de' suoi consigli un illustre italiano, il di cui nome equivaleva ad un programma liberale ed italiano, Massimo d'Azeglio. Il ministero d'Azeglio applicò e praticò il secondo sistema, i cui principali scopi erano i seguenti: in primo luogo dimostrare all' Europa che i popoli italiani erano capaci di governarsi a libertà, che era possibile conciliare un sistema di libertà lealmente, ma largamente applicato nel rispetto di quei grandi principii sociali che erano minacciati allora in altre parti d'Europa. Ciò fatto doveva cercare in secondo luogo di propugnare nel campo della diplomazia gl'interessi delle altre parti d'Italia... I ministri chiamati a succedere a quell'illustre uomo di Stato non mutarono politica , solo cercarono di applicarla con maggior estensione , con maggior vigore ; e ciò non perché erano mutati gli uomini, ma perché il sistema seguito da alcuni anni aveva già prodotto i suoi frutti, ed era giunto il tempo in cui potevasi, senza imprudenza imprimergli ulteriore e più energico svolgimento... Questo nostro sistema trovò un'occasione propizia, per essere largamente svolto, nella guerra d’Oriente”[25].

Con questo discorso alla Camera, Cavour riassunse la condotta tenuta dal Piemonte dall’istituzione dello Statuto Albertino fino al decisivo intervento nella guerra di Crimea. “Ora nella serie ascendente de'fatti italiani, che nel breve ed importante spazio di tempo di undici anni si sono attuati, possono e debbono distinguersi due periodi, il primo dalla battaglia di Novara fino al trattato di Parigi, il secondo da quell'epoca fin oggi. Ne' quali due periodi la politica del Conte di Cavour va contraddistinta da due caratteri essenzialmente differenti, dal carattere piemontese nel primo, italiano nel secondo: e questo duplice carattere l'è derivato dal duplice scopo cui quella politica ha mirato, cioè nel primo periodo a conservare il Piemonte, nel secondo a farlo divenire Italia”[26].

Costantino Crisci, in un opuscolo in realtà molto critico dell’operato di Cavour, operò, ad unità compiuta, una divisione in due fasi della politica estera tenuta dal Regno di Sardegna dall’istituzione del regime costituzionale, ed in entrambe le fasi la minaccia contro cui operare fu la presenza austriaca in Italia. Negli anni fra il 1848 e il 1856 l’obiettivo inizialmente dell’Azeglio e poi di Cavour fu quello di garantire la sopravvivenza del Regno e dello Statuto. Per far ciò furono necessari tanto i tentativi bellici e i propositi italiani, quanto lo sviluppo economico ed industriale in senso liberale. Nel 1848, ad esempio, per garantire la conservazione del regime costituzionale fu necessario, secondo Cavour, spingere per la guerra poiché percepiva che senza uno sbocco militare alle tensioni di quel periodo, lo Statuto avrebbe corso un grave pericolo in balia prima dei tumulti rivoluzionari, e poi di possibili repressioni reazionarie.

La politica estera cavouriana è sempre stata legata a quella interna. Le due cause, quella liberale, perseguita soprattutto all’interno, e quella nazionale, perseguita all’esterno, vennero sviluppate contemporaneamente e insieme si rafforzarono e giustificarono a vicenda. Il progetto cavouriano non poteva procedere senza la coesistenza delle due cause, ognuna delle due acquietava e persuadeva soggetti essenziali per lo svolgimento delle operazioni politiche con quell’indirizzo. Il Re mal digeriva le istanze liberali, l’atteggiamento laicista e anticlericale che il governo cavouriano prese dopo il connubio, ma mantenne il suo appoggio al governo finché questo garantì il suo impegno nella causa italiana, così da soddisfare le ambizioni dei Savoia ad espandere il proprio dominio almeno nel resto della valle del Po. “Per esser conservatrice dunque la politica piemontese dovea divenir conquistatrice, per avere una importanza italiana ha dovuto conquistare un'importanza europea. Il Piemonte si è fatto Italia non altrimenti che ligandosi ed entrando a parte degli affari europei, ed il municipio è divenuto nazione per amore della sua propria autonomia. Ecco ciò che forma l'apparente contraddizione della politica del Conte di Cavour, e spiega il suo municipalismo nella sua italianità: personificazione della politica del suo paese, in lui l'uomo parlamentare ha formato il diplomatico, la politica interna ha creata la politica estera, fino al punto che ripiegandosi ad uno scopo più vasto, con la politica estera ha dato l'impulso e il carattere alla nuova politica italiana”[27].

Dopo la disfatta di Novara lo sviluppo su entrambi i fronti fu graduale, anti-violento, rispettoso dei diritti individuali e lontano dagli estremismi reazionari e rivoluzionari, questo favorito anche dallo spengersi della spinta rivoluzionaria in Europa di quella fase. Una volta constatata l’impossibilità di
vincere da soli era fondamentale prepararsi per poter essere in grado, in futuro, di cogliere le occasioni che si sarebbero presentate. In quest’ottica fu necessario conquistare nel tempo le simpatie e la fiducia sia in Italia che in Europa. In Italia con gli immigrati lombardi, ad esempio, ma anche con l’ammirazione che il progresso economico ed industriale suscitavano, i quali non avevano rivali nella penisola e ponevano il Piemonte al livello delle più avanzate civiltà europee. Istituendo Statuto, e soprattutto conservandolo nei suoi primi anni quando l’indirizzo politico europeo tendeva al conservatorismo, il Piemonte fece una scelta rara e coraggiosa, la vittoria delle libertà portarono una nuova era di civiltà in Italia; l’indirizzo politico venne mantenuto con grande tenacia nonostante i gravi mutamenti che avvenivano in Europa. Cavour e i suoi colleghi registrarono negli anni di governo enormi vittorie per la vita pubblica italiana di cui possiamo essere grati ancora oggi, l’affermazione della Camera sulle volontà reali è sicuramente uno degli esempi più importanti. Questi principi però, servirono anche a legittimare le ambizioni italiane dei Savoia. Presentare la guerra in termini ideologici fra i paesi liberali occidentali e i regimi assoluti come l’Austria servì al Piemonte per ispirare le forze del paese a prepararsi al futuro conflitto e allo stesso tempo giustificò gli sforzi fatti dai sudditi del Regno, la trasformazione economica ed industriale infatti cambiava le loro vite e non sempre in meglio. Guerra ideologica che sì, subì vari colpi dai cambi di alleanze delle grandi potenze dettati esclusivamente dalle necessità del momento come in occasione della guerra di Crimea, ma che non si perse mai nella comunicazione di Cavour, che ancora la sventolò quando alla Camera dovette illustrare i crimini e le colpe che l’Austria aveva commesso in Italia, contro le libertà di quegli italiani che vivevano sotto il loro dominio. La prima svolta decisiva avvenne con il colpo di Stato di Napoleone III. Gli equilibri europei creatisi dal Congresso di Vienna del 1815, erano sì antifrancesi ma anche oppressivi ed ingiusti nei confronti degli Stati della penisola, e Cavour evidenziava questa vicinanza e l’incongruenza della posizione austriaca. Questa situazione e le promesse dell’imperatore seminavano le speranze che poi portarono agli eventi successivi. Inoltre, Napoleone III portò alla ribalta della scena politica europea il concetto di nazionalità, che tanto fece gioco alle rivendicazioni piemontesi sul resto d’Italia e alla strategia comunicativa cavouriana. Strategia che tenne conto anche dell’insorgente influenza sulla condotta dei governi nei paesi europei dell’opinione pubblica, sulla quale il Conte aveva già puntato negli anni da giornalista al “Risorgimento”. Cavour, uomo di mondo che poteva vantare una conoscenza delle capitali europee come pochi altri in Piemonte e in Italia, anche grazie alle relazioni che lì strutturò poté creare quella rete di legami fra il suo governo e quelli di Londra e Parigi che si resero poi fondamentali in tutti i suoi successi di politica estera. Inoltre, la sua visione continentale dei problemi piemontesi lo aiutarono a perseguire obiettivi ponderati alle capacità del paese e a poter valutare con cognizione di causa le possibilità e le capacità del Regno al confronto europeo. Le alleanze fra gli Stati europei erano ancor più necessarie in quella fase storica: “Infatti nelle condizioni presenti di Europa è agevole ad ognuno di scorgere, che l'azione isolata delle Potenze ne' loro rapporti internazionali si rende di giorno in giorno impossibile, e invece è surrogata dall'azione comune di tutte sopra ciascuna; cosicché è da ritenere che oggi la natura delle alleanze è quella che decide della forza della difesa, e l'interesse della loro stabilità quello che costituisce la sicurezza di uno Stato”[28].

In ogni passaggio della sua esperienza governativa, Cavour rimase sempre realista sulle possibilità del Piemonte. L’obiettivo dell’indipendenza e poi dell’unità d’Italia venivano perseguiti ma solo negli ultimi anni furono davvero realizzabili. Questo non invalida la bontà dei tentativi dei primi anni di governo. Erano la postura e la direzione, la promessa, che ispiravano e guidavano il Piemonte verso i miglioramenti che strada facendo furono prima possibili e poi raggiunti. In un circolo virtuoso che univa lo sviluppo liberale, civile, morale, economico e poi di potenza del Regno di Sardegna.

“Voi, giovani carissimi (riferendosi ai suoi studenti ndr), per Politica del Conte di Cavour dovete intendere non altro, che il sistema razionale pratico con cui egli stabilì a sorreggeva l'ordine d'iniziativa e svolgimento delle cause e degli effetti, delle occasioni e de' fatti, delle circostanze e delle contingenze, de' propositi e delle eventualità tutte della grande Opera. E tutto ciò bilanciato fra le origini e le conseguenze prossime, immediate e remote; disponendo di alcuni mezzi arrendevoli alla propria volontà e adoperarli a tempo; di altri ricalcitranti, profittarne al proposito; di altri non esistenti, farli sorgere dalle combinazioni; di altri venuti meno, destreggiarne la fallita finché la PROVVIDENZA non provvegga. […] E la Mente del Conte di Cavour? Giovani miei cari, per la Mente dovete intendere l'intero ordine metafisico stabilito nel pensiero del Grand’Uomo, prodotto da' suoi svariati studii, rettificato dalla esperienza, aumentato e completato dalla pratica; e combinato alla potenza del suo intelletto, e influito dalla eminenza del suo genio, e segnalato dalla tinta delle sue passioni! Quella tal mente concepì la Grand' Opera del Risorgimento Italiano, e l'abilità pratica della fortunata sua politica ci ha condotti a tale stato”[29].

[25] Il Conte di Cavour e l'Italia, Torino, Tipografia Sarda di Calpini e Cotta, 1859, pp. 3,4,5

[26] C. Crisci, La politica estera del Conte di Cavour, Napoli, Stabilimento tipografico dei classici italiani, 1861, p.8

[27] C. Crisci, La politica estera del Conte di Cavour, Napoli, Stabilimento tipografico dei classici italiani, 1861, pp. 8,9

[28] C. Crisci, La politica estera del Conte di Cavour, Napoli, Stabilimento tipografico dei classici italiani, 1861, p. 20

[29] A. Ferrara, Sulla politica estera del Conte di Cavour e del barone Ricasoli, Napoli, Tipografia di Vincenzo Marchese, 1861, pp. 34,35

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Bibliografia

- Giuliano Amato, C’era una volta Cavour, Bologna, il Mulino, 2023

- Luigi Chiala, Lettere edite ed inedite di Camillo Cavour, Torino, Roux e Favale, 1884

- Luigi Chiala, L’alleanza di Crimea, Roma, Voghera Carlo Tipografo di S. M., 1879

- Costantino Crisci, La politica estera del Conte di Cavour, Napoli, Stabilimento tipografico dei classici italiani, 1861

- Achille Ferrara, Sulla politica estera del Conte di Cavour e del barone Ricasoli, Napoli, Tipografia di Vincenzo Marchese, 1861

- Giuseppe Massari, Il Conte di Cavour, Ricordi biografici, Torino, Tipografia Eredi Botta, 1873

- Rosario Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984

- Il Conte di Cavour e l'Italia, Torino, Tipografia Sarda di Calpini e Cotta, 1859