DIC
29
1847

[Discorso al banchetto dei commercianti]


Signori,
      Poco esperto nell'arte di parlare in publico, non posso però trattenermi dal ringraziarvi con brevi parole dell'alto favore che mi avete compartito, invitandomi a prender parte a questo solenne banchetto, col quale voleste celebrare l'era novella inaugurata in Piemonte dalle sovrane riforme, e dimostrare ad un tempo la vostra riconoscenza per quei benemeriti cittadini, che con tanto zelo, con si mirabile senno diressero quelle publiche feste, quelle publiche manifestazioni le quali, onorando il ritorno del Re fra noi, facevano chiari, innegabili, incontrastabili gli unanimi sentimenti dei torinesi non solo, ma di tutti i popoli liguri e piemontesi.
      Io non saprei attribuire così preziosa prova di benevolenza al mio amore per gli studi economici, da voi avuti ogni giorno in maggior pregio; dacché questo amore fin ora non produsse frutti meritevoli dell'attenzione vostra; e non mi è pur lecito l'attribuirla al poco da me fatto, quantunque io mi onori di partecipare da più anni ad imprese industriali e commerciali di non lieve momento.
      Ma io credo dover attribuire il mio invito al vostro desiderio di veder sederei voi, se non uno de' più distinti, certamente uno de' più sinceri, de' più zelanti promotori dell'agricoltura, onde in questa festa nazionale tutte le classi produttrici fossero rappresentate.
      Voi considerate, o signori, l'agricoltura come un'arte sorella, e la chiamate sedere fra voi; ve ne ringrazio a nome suo, ve ne ringrazio tanto più che il tempo non è ancora lontano, quando questa sorella credendo essere di più d'ogni altr'arte, credendo avere titoli maggiori ai publici favori, metteva in campo singolari pretese, richiedeva privilegi, voleva in certo modo essere trattata, come in quei tempi si trattavano i figliuoli primogeniti.
      Tali pretensioni erano conseguenze necessarie di quegli ordini politici, dei quali è nostra sorte il vedere sparire gli ultimi avanzi; con questi spariscono pure le ultime traccie delle pretensioni primogeniali dell'agricoltura.
      Il pregiudizio sul quale questa pretesa si fondava, come tutti i pregiudizi, traeva seco conseguenze funeste. Queste si fanno ancora talvolta sentire. Permettete che io ve le accenni.
      Questa superiorità dell'agricoltura tacitamente riconosciuta dalle altre classi produttrici faceva sì, che i negozianti ed i fabbricanti più distinti appena giunti, mercé della loro industria, a raccogliere rilevanti capitali, essi, invece d'impiegarli ad accrescere i loro opifizi ed estendere i loro negozi, si affrettavano a comprar fondi e farsi proprietari; come se una tale qualità conferisse loro maggior dignità, gli elevasse nell'ordine sociale.
      Funesto errore a molti fatale; esso produsse per la patria industria pessime conseguenze.
      L'industria oggidì, e voi meglio di me il sapete, o signori, non può prosperare, non può reggere contro la concorrenza che da ogni lato la assale, se non va di continuo ampliandosi, perfezionandosi; se a buone macchine non ne sostituisce migliori; se ad una ben intesa divisione del lavoro non se ne sostituisce m'altra più perfetta.
      È opinione universalmente accetta tra i fabbricanti inglesi, che colui che ogni dieci anni non rinnova i suoi modi di fabbricazione, è minacciato da sicura rovina.
      Ora come effettuare fra noi un tal moto progressivo, se i capitali dall'industria creati, dall'industria si sottraggono?
      Se questa verità non fosse avvalorata da fatti noti a voi tutti, mi basterebbe ricordare la storia dell'industria serica fra noi. Certamente nessuno potrà negare che se la ventesima parte dei benefizi ottenuti dai negozianti di seterie, da cinquantanni in qua, fosse stata impiegata a migliorare i loro torcitoi, a ricostruire quelle macchine imperfette, degne al più di un'industria in fasce, e che pur sussistono tuttora; se essi avessero, anche da lontano, seguito l'esempio delle filature di lana e di cotone, non avremmo ora a lamentare la perduta nostra supremazia nel campo delle sete.
      Tali funesti errori non si ripeteranno certo nell'avvenire. Tutte [le] arti industriali, figlie del lavoro, hanno pari titoli ai riguardi del Governo, alle simpatie del paese. Tutte conferiscono egualmente al publico ben essere, dall'agricoltore che crea la materia prima, al fabbricante che ne accresce il valore col renderla oggetto d'immediato servizio, al commerciante che traendo i prodotti da lontani paesi fra noi li dispone in modo a tutti facilmente accessibili.
      Sicché, ripetiamolo qui tutti altamente, non più gelosie fra le varie classi produttrici, ma fraterna emulazione continua; abbiano tutte nuovi stimoli, nuova vita da quello spirito di riforma e di progresso che benedetto da Pio, promosso da Carlo Alberto, anima e sprona ogni classe di cittadini.
      Qualunque sia il ramo d'industria da noi coltivato, commercianti, fabbricanti od agricoltori gareggiamo tutti di zelo, d'intelligenza e di tenacità, per far progredire le arti industriali, per accrescere la ricchezza nazionale. Con questa gara fraterna provederemo non solo ai nostri privati interessi, ma faremo pure le parti di buoni cittadini.
      Col fare la patria ricca, la faremo potente, e se sarà potente, più facilmente potrà mantenere, riconquistar pienamente quel bene che noi pure dobbiamo più d'ogni altro pregiare, l'indipendenza nazionale.
      Un gran capitano disse molto assennatamente essere la vittoria amica delle grosse squadre; ma per averle tali, per armarle, per ordinarle è necessario poter disporre di grossi capitali, e questi, spetta all'industria, al commercio, all'agricoltura il cercarli, per offerirli poi alla patria, al Re riformatore nel gran dì del cimento.
      Beviamo adunque, o signori, all'unione ed alla prosperità delle arti produttrici, dell'industria, del commercio e dell'agricoltura.

[Cavour, Camillo Benso di] Il mondo illustrato, 52 (supplemento), 29 Dicembre 1847
divisore
Nomi citati:
Re, Carlo Alberto, Pio.
Toponimi citati:
Piemonte.

Allegati