MAR
27
1861

P2848#


     CAVOUR: Mi corre l'obbligo di manifestare l'opinione del Governo del re intorno alle varie proposte che sono state presentate alla Camera. Nello stesso tempo stimo mio debito di rispondere a varii rimproveri che mi furono diretti, e di dare alcune spiegazioni che mi vennero domandate. Credo che nell'esaminare le accennate proposte potrò compiere a questo duplice dovere e rispondere, se non a tutti, almeno alla massima parte di coloro che mi hanno rivolto la parola. Tuttavia io debbo dire sin da principio che escludo da queste risposte in gran parte l'onorevole deputato Ferrari. Non già che il suo discorso non sia stato perfettamente conveniente e parlamentare , ma avendo egli trasportata la questione sul terreno delle discussioni teoriche, mi sarebbe difficile il seguirlo e per difetto di cognizioni bastevoli , e perchè debbo specialmente occuparmi della parte pratica della questione. Tuttavolta vi sono due accuse, o rimproveri, che egli ha diretti a me ed al Gabinetto, a cui debbo una breve risposta. L'onorevole deputato Ferrari, valendosi d'una figura rettorica, ed accennando ad un nome che pareva che questa Camera non volesse udire, ha soggiunto che non amava i cospiratori, neppur quando quelli che cospirano sono sul banco della Presidenza. L'onorevole deputato Ferrari ha quindi voluto farmi l'onore di annoverarmi fra i cospiratori. (Si ride) Io ne lo ringrazio, e colgo questa occasione per dichiarare alla Camera che fui per 12 anni un cospiratore. (Oh!) Sì, o signori, per 12 anni ho cospirato con tutte le mie forze; ho cospirato per giungere a procacciare l'indipendenza alla mia patria. Ma ho cospirato in un modo singolare; ho cospirato proclamando nei giornali, proclamando in faccia al Parlamento intero, proclamando nei Consigli d'Europa qual era lo scopo della mia cospirazione. Cospirai poi col cercare degli adepti, degli affigliati, ed ebbi a compagni tutto o quasi tutto il Parlamento subalpino; ebbi poi adepti in tutte le provincie d'Italia; ebbi negli anni scorsi ad adepti e compagni quasi intiera la Società Nazionale, e in oggi io cospiro con 26 milioni d'Italiani. (Applausi) L'onorevole Ferrari poi spiegò la politica delle annessioni in un modo singolare; egli vi disse, o signori: se il Ministero fa le annessioni, credete voi che sia per fare l'Italia ? Mai no; egli fa le annessioni come un ripiego politico, come uno stratagemma per evitare le difficoltà interne. Se egli ha fatto l'annessione di Parma, si è perchè nella Lombardia certe leggi del precedente Ministero non piacevano; se ha fatto l'annessione di Modena, è probabilmente per quei certi 33 centesimi contro i quali a Milano si è tanto gridato; se ha fatto l'annessione della Toscana, si è perchè non aveva il coraggio di sciogliere il problema del matrimonio civile; e forse, se ora proclama che si andrà a Roma, è per differire la soluzione dell'arduo problema delle regioni. Ecco in qual modo l'onorevole deputato Ferrari giudica la politica del Ministero: l'argomento è ingegnoso e spiritoso assai; ma, in verità, mi conceda che io lo consideri come non molto solido. Il suo ragionamento rassomiglia a quello che un soldato, che abbia trascorso una lunga carriera nelle caserme senza mai prender parte a nessuna guerra, facesse a quel capitano fortunato che, inseguendo rapidamente l'inimico, fosse costretto a non curare i particolari del servizio militare, e gli dicesse: ma badate che la vostra armata non è perfettamente in tenuta, che la più parte dei soldati sono laceri, che le armi non sono perfettamente pulite, il vostro materiale non è completo. Il generale non vi baderebbe; esso, quando anche, ritornando, dopo aver compiuto grandi gesta, mostrasse a' suoi concittadini le sue truppe lacere, i suoi battaglioni scemati, io credo che non ne riporterebbe meno l'approvazione universale. (Bravo! Bene!) Ciò detto, mi permetta l'onorevole Ferrari che io prenda commiato da lui, ed un cortese commiato, come cortesi furono i rimproveri che esso mi rivolse nella tornata di ieri. Ora vengo all'esame degli ordini del giorno. (Segni di attenzione) Ve ne fu presentato un gran numero; fra questi ce n'è un ultimo dell'onorevole deputato Macchi, il quale mi pare abbia uno scopo, non dico contrario, ma non perfettamente identico a quello che ci proponiamo. Egli, volendo prendere per argomento dell'ordine del giorno una petizione che si riferisce bensì alla questione che trattiamo, ma che non è la questione stessa, mi pare che impicciolisca la questione...
      MACCHI: Chiedo la parola.
      CAVOUR: ... tuttavia, siccome quella petizione è degna di considerazione, io non vorrei, col respingere l'ordine del giorno dell'onorevole deputato Macchi, che questo rifiuto potesse essere interpretato come se il Ministero non portasse vivo interesse ai petenti. Io quindi non mi opporrei ad una proposta che fosse fatta dall'onorevole deputato Macchi, affinchè la Camera inviasse al Ministero la petizione in discorso. Io spero che l'onorevole deputato Macchi accetterà questa mia proposta ...
      MACCHI: Accetto.
      CAVOUR: Ora passo agli ordini del giorno. Tre ne furono presentati nella tornata di ieri: uno dal deputato Greco, un altro dal deputato Bon-Compagni; oggi ne fu presentato uno dal deputato Levi.
      PRESIDENTE: Il deputato Levi l'ha ritirato.
      CAVOUR: Poi ce n'è un altro del deputato Petruccelli, ma questo si confonde, credo, con quello del deputato Ricciardi ...
      PRESIDENTE: No, è distinto.
      CAVOUR: Comunque sia, esaminati i tre ordini del giorno di ieri e i due ordini del giorno d'oggi, mi pare che concorrano tutti nel pensiero finale; tutti sono concordi nel volere che si acclami Roma come capitale d'Italia, che si solleciti il Governo ad adoperarsi onde questo voto universale abbia il suo compimento. Ma siami concesso di dichiarare che, tanto per la forma, quanto per la sostanza, nessuno di quei voti motivati riassume, a mio giudizio, in modo più conciso e più preciso dell'ordine del giorno Bon-Compagni le idee esposte così lucidamente dall'onorevole interpellante, accolte senza riserva dal Ministero, e che furono tanto favorevolmente ascoltate da questa Camera. L'ordine del giorno Bon-Compagni è, in certo modo, una risposta completa alle interpellanze dell'onorevole Audinot. Nella dimostrazione di tale mio asserto io darò quelle ulteriori e maggiori spiegazioni che da vari oratori mi vennero domandate. L'onorevole deputato Audinot chiedeva recisamente di conoscere quale fosse l'opinione del Governo, quali fossero i suoi principii rispetto alla questione romana. A questo io risposi precisamente come risponde l'ordine del giorno Bon-Compagni. Io dichiarai dover essere Roma la capitale d'Italia; l'ordine del giorno Bon-Compagni acclama questa verità. Io dissi che Roma doveva essere capitale d'Italia, e che ciò doveva essere proclamato immediatamente. Questa mia asserzione diede occasione all'onorevole deputato Chiaves di muovermi, in uno splendidissimo discorso, due appunti. Trovò primieramente la dichiarazione inopportuna; trovò, in secondo luogo, la dichiarazione troppo esplicita, e reputò necessario interpellarmi sul modo col quale il Governo intenderebbe mandare ad effetto questo traslocamento della capitale. L'onorevole deputato Chiaves reputò che questa dichiarazione così precisa possa produrre incagli nell'andamento delle pratiche che il Governo dovrà fare per giungere alla soluzione della quistione di Roma. Egli crede che ragioni di prudenza avrebbero dovuto consigliare al Governo di promuovere l'immediata annessione di Roma all'Italia, non perchè Roma debba essere la sua capitale, ma per ragione di giustizia, d'umanità, dei grandi principii. L'onorevole Chiaves mi permetta di dirgli che egli qui cade in grandissimo errore; io tengo per fermo che se noi non potessimo valerci di questo potentissimo argomento, che Roma è la capitale necessaria d'Italia, che senza che Roma sia riunita all'Italia come sua capitale, l'Italia non potrebbe avere un assetto definitivo, la pace non si potrebbe considerare come definitivamente assicurata, non si otterrebbe il consenso del mondo cattolico e di quella potenza che crede dovere o potere rappresentare più specialmente il mondo cattolico alla riunione di Roma all'Italia. Io per provarvelo farò un'ipotesi: supponete che la città ove risiede il Sommo Pontefice, invece d'essere a Roma, nel centro dell'Italia, in quella città dove tante memorie storiche si trovano riunite, fosse invece in una città collocata sui confini della penisola, in una città cospicua bensì, ma alla quale nessuna grande memoria storica fosse associata; supponete che, risorta l'antica ed anche clericale Aquileia, il Pontefice ponesse quivi la sua sede, credete voi che sarebbe facile l'ottenere il consenso delle potenze cattoliche alla separazione del potere temporale in quell'angolo di terra italiana ? No, o signori: io so che si potrebbe far valere rispetto a quella potenza il principio del non intervento ed il principio del diritto che i popoli hanno di manifestare la loro opinione, tutti insomma i grandi principii sui quali riposa il diritto internazionale. Ma i diplomatici vi risponderebbero che in politica non vi è niente d'assoluto, che tutte le regole patiscono eccezione, che noi non intendiamo applicare in modo assoluto a tutte le parti d'Italia il principio della nazionalità; e quindi, come consentiamo che Malta rimanga agl'Inglesi, dobbiamo consentire che una terra non necessaria alla costituzione d'Italia rimanga sotto il dominio del papa. Ci si direbbe che l'interesse italiano, essendo d'ordine secondario, non deve prevalere all'interesse generale dell'umanità; ed io accerto l'onorevole Chiaves che contro questi argomenti verrebbero a frangersi tutte le più belle dissertazioni fatte in nome dei principii del diritto, e che quindi il ministro degli affari esteri, quand'anche avesse la sorte di avere il sussidio di tutti i professori di diritto internazionale, non giungerebbe a convincere i diplomatici con cui dovrebbe trattare, e che, se la quistione fosse così posta, diverrebbe insolubile colle negoziazioni. So bene che allora si potrebbe pensare ad adoperare l'argomento dei cannoni; ma siamo tutti d'accordo che nelle attuali circostanze a questo argomento si deve rinunziare. Quindi io ripeto che il proclamare la necessità per l'Italia di avere Roma per capitale non solo è cosa prudente ed opportuna, ma è condizione indispensabile del buon esito delle pratiche che il Governo potrà fare per giungere alla soluzione della questione romana. Mi rimane ad esaminare la seconda obbiezione dell'onorevole Chiaves, che cioè sia pericoloso il dichiarare che la capitale deve essere trasportata a Roma. Se io volessi interpretare troppo letteralmente il suo discorso, e massime ciò che ha detto sulla necessità di preparare Roma all'alto ufficio di capitale d'Italia, dovrei supporre che l'onorevole Chiaves voglia che si faccia l'educazione del popolo romano prima che questo trasferimento si faccia, cioè che si abbia a differire di una o due generazioni questo trasferimento. Ora il differire cotanto questo trasferimento sarebbe per me peggio che il rinunciare, od almeno il rinunciare a dichiarare sin d'ora la necessità di trasportare la capitale a Roma. Io certamente non intendo colla dichiarazione che ho fatto di vincolare il Ministero circa il modo ed il tempo. di operar questo trasferimento, quando le circostanze ci consentissero farlo. Non intendo che la Camera, votando l'ordine del giorno del deputato Bon-Compagni, cioè acclamando Roma per capitale d'Italia, obblighi nel primo giorno che Roma sarà libera di partire immediatamente per andare a sedere in non so qual palazzo di Roma. (Ilarità) Egli è evidente che il trasferimento della capitale, quando possa farsi, dovrà essere l'oggetto non solo di una determinazione del Ministero, ma di un voto del Parlamento. Non è in facoltà del potere esecutivo di trasferire la capitale del regno, e quindi in allora il Ministero avrà l'obbligo di esaminare tutte le difficoltà che il trasferimento presenterà, di proporre il modo di vincerle, di prendere ad esame se le condizioni dell'Italia e dell'Europa rendessero opportuno di differire per qualche tempo. Starà poi al Parlamento di deliberare in ultimo appello sulla sua proposta, ed è in allora che l'onorevole deputato Chiaves potrà proporre quei temperamenti che crederà richiesti dall'interesse generale. La quistione della possibilità di differire per lungo periodo di tempo il trasferimento della capitale a Roma essendo stata sollevata, mi credo in obbligo di aggiungere un solo argomento. Si sono svolte dai precedenti oratori, con parole così eloquenti, tante ragioni onde provare la necessità del trasferimento della capitale in Roma, che io non aggiungerò che un argomento della natura di quelli che i matematici dicono ad absurdum, il quale consiste nel supporre verificata l'ipotesi dei nostri avversari e quindi dedurne le conseguenze. Per dimostrare quali conseguenze funeste potrebbero nascere se il trasferimento della capitale in Roma non si operasse subito che gli ostacoli insormontabili che esistono in ora saranno scomparsi, io suppongo quell'epoca già venuta, e Roma riunita all'Italia, ma non fatta la sua capitale. Io non posso a meno di prevedere che, finché la questione non avesse ricevuta una soluzione definitiva, oppure (se la soluzione non è definitiva) finchè il principio fosse affermato e che la sua non immediata applicazione fosse giustificata da motivo impellente, io dico che, finche la questione fosse tenuta in sospeso per motivi anche di qualche importanza, ma non supremi, l'Italia tutta sarebbe in uno stato di agitazione e di lotta. Vi sarebbe una lotta vivissima fra coloro che vogliono andar a Roma immediatamente e coloro che vorrebbero ancora differire il traslocamento della capitale; e se in questo stato di lotta accadesse che all'occasione della riunione del Parlamento, 180 200 deputati dell'Italia meridionale, avviati verso l'antica capitale, si trovassero riuniti per caso sopra una piazza dell'antica metropoli del mondo, non sarebbe egli da temere che una forza occulta, ma quasi irresistibile, impedisse a quei deputati di proseguire la loro via? Io confesso che questa idea mi commuove alquanto, e che non potrei vedere senza qualche apprensione una tale eventualità. Prego l'onorevole Chiaves a volerci riflettere sopra; forse dopo ciò consentirà meco, che meglio sarà quanto più presto si potrà andare a Roma; ben inteso, senza mettere in pericolo la sicurezza dello Stato, senza rendere più malagevole l'ultima fase del risorgimento italiano, senza sconvolgere il governo; ben inteso, infine, che questo trasferimento si faccia con tutta quella gravità e ponderatezza che un affare così grande richiede. Io spero che, ciò ammesso, l'onorevole Chiaves converrà con me che, quanto più presto si farà, tanto meglio sarà per l'Italia. Sulla questione di Roma quindi mi pare che l'ordine del giorno Bon-Compagni, che acclama Roma come capitale, corrisponda pienamente ai sentimenti manifestati da tutti gli oratori in questa Camera. Fin qui il mio assunto è facile: ora eccomi di nuovo di fronte alla difficoltà che ho incontrata nella penultima tornata, quando ho dovuto parlare dei mezzi per andare a Roma. L'onorevole Audinot mi parve soddisfatto delle spiegazioni che ho date, e l'ordine del giorno Bon-Compagni riassumendole, in qualche modo gli darebbe la sanzione della Camera. Io dissi quale era il sistema che il Governo intendeva seguire per isciogliere la questione romana, ed io credo che ciò specialmente desiderava di conoscere l'onorevole deputato Audinot. Certo non penso che l'onorevole deputato Audinot intendesse che io venissi alla Camera a raccontare i particolari delle negoziazioni che esistono o potrebbero esistere, sia a Roma che a Parigi, per isciogliere le gravi difficoltà che questo problema presenta; non credo che egli intendesse che io venissi a comunicarvi i dispacci ufficiali e confidenziali. Certamente rispetto ai dispacci confidenziali l'onorevole deputato Petruccelli non vorrebbe che io ne facessi parola alla Camera, non vorrebbe che io venissi a dire: ho scritto una lettera confidenziale a Roma, onde cercar che si parli al teologo A, a monsignor B; ho scritto a persone influenti, onde cercare di influire sull'opinione pubblica romana. Riguardo alla comunicazione dei dispacci officiali ho già manifestato la mia opinione l'altro giorno; ma poiché venni ricondotto su questo terreno, vorrei palesare un segreto alla Camera (Ilarità), un segreto molto mal custodito, per cui credo che molti di voi ne siano istrutti al par di me … Allo stato attuale delle cose, nel modo con cui si trattano gli affari oggidì, i dispacci officiali spargono ben poco lume sui negoziati. Che volete? Dopo che l'uso si è introdotto in quasi tutti i Governi, e parlamentari ed anche non parlamentari, di comunicare alle Camere, o di far pubblici sui giornali i dispacci degli agenti diplomatici, questi dispacci hanno perduto molto del loro valore, questi dispacci ormai consistono nel riassumere dei fatti più o meno compiuti. Altre volte, quando questi dispacci non dovevano vedere la luce che dopo la morte di chi li aveva scritti, in allora gli affari si facevano per mezzo di note da comunicarsi, da leggersi; di note verbali e di tutte quelle armi che l'arsenale della diplomazia racchiude. Quando si scrive un dispaccio, ed io ne ho scritto molti, debbo dire che si è meno preoccupato dell'influenza che questo dispaccio farà sulle persone alle quali è diretto, che non dell'effetto che deve produrre sul pubblico europeo, il quale dovrà giudicarne fra breve. È alquanto umiliante per un ministro degli affari esteri il dichiararlo, ma i dispacci pubblici hanno in generale, più che altro, del carattere di un articolo da giornale. È vero che la diplomazia trova qualche compenso in ciò, che spesse volte i discorsi fatti dagli uomini politici sono, anziché discorsi parlamentari, note diplomatiche. Ma se il Ministero non vi ha fatto palese lo stato delle negoziazioni, se negoziazioni vi sono, il Ministero ha indicato nel modo più chiaro, più preciso, i principii della sua politica, vi ha indicato come intenda applicarli; il Ministero vi ha detto che egli crede sciogliere la questione romana col far convinta la parte di buona fede della società cattolica, che la riunione di Roma all'Italia non reca pregiudizio di sorta all'indipendenza della Chiesa; il Ministero vi ha detto che, quando questa sua opinione fosse accolta dalla parte sana della società cattolica, l'accordo colla Francia, che in ciò rappresenta e crede dover rappresentare la società cattolica, sarebbe più facile; che, quando la parte sana della società cattolica fosse convinta, e l'accordo colla Francia fosse stabilito, vi sarebbe argomento da sperare che il Pontefice stesso riconoscerebbe la verità della nostra dottrina; e che, quando il Pontefice non la riconoscesse, la risponsabilità degli atti che potrebbero seguire non ricadrebbe sopra di noi. Mi pare impossibile il formolare in modo più schietto questo programma che venne perfettamente riassunto dall'ordine del giorno del deputato Bon-Compagni. Né, o signori, si dica che io mi faccio illusioni. Ormai, o signori, mi pare che la questione dell'indipendenza del Sovrano Pontefice, fatta dipendere dal potere temporale, sia un errore dimostrato matematicamente ai cattolici di buona fede, ai quali si dirà: il potere temporale è garanzia d'indipendenza quando somministra a chi lo possiede armi e danari per garantirla, ma quando il potere temporale di un principe, invece di somministrargli armi e denari, lo costringe ad andar a mendicare dalle altre potenze armi e danari, egli è evidente che il potere temporale è un argomento non d'indipendenza, ma di dipendenza assoluta. (Bravo!) L'uomo che vive tranquillo a sua casa, che non ha ne debiti, ne nemici, mi pare mille volte più indipendente di un ricchissimo proprietario di latifondi, che ha sollevato contro di sé l'animo di tutti i suoi contadini, e che non può escire se non circondato da bersaglieri e soldati. (Bravo! Bene!) Mi pare quindi che noi dobbiamo avere l'assenso dei cattolici di buona fede su questo punto. Rimane a persuadere il Pontefice che la Chiesa può essere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare che, quando noi ci presentiamo al Sommo Pontefice, e gli diciamo: Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d'indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche; di questa libertà voi avete cercato strapparne alcune porzioni per mezzo di concordati, con cui voi, o Santo Padre, eravate costretto a concedere in compenso dei privilegi, anzi, peggio che dei privilegi, a concedere l'uso delle armi spirituali alle potenze temporali che vi accordavano un po' di libertà; ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli divoti, noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell'Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato. (Bene!) I vostri amici di buona fede riconoscono come noi l'evidenza, riconoscono cioè che il potere temporale quale è non può esistere. Essi vengono a proporvi delle riforme che voi qual Pontefice non potete fare; vengono a proporvi di promulgare degli ordini, nei quali vi sono dei principii che non si accordano colle massime, di cui dovete essere il custode; e questi vostri amici insistono sempre e continuano a rimproverare la vostra ostinazione: voi opponete pertinace resistenza, e fate bene: io non vi biasimo, quando a coloro che vi rimproverano di non avere un esercito fondato sulla coscrizione, rispondete che non potete imporre il celibato coattivo a giovani dai 20 ai 25 anni, in quell'età, cioè, delle più forti passioni, io non vi rimprovero; quando negate di proclamare voi la libertà religiosa, la libertà d'insegnamento, io vi comprendo; voi dovete insegnare certe dottrine, e quindi non potete dire che sia bene che si insegni da tutti ogni specie di dottrina; voi non potete accettare i consigli dei vostri amici di buona fede, perchè essi vi chieggono quello che non potete dare, e siete costretto a rimanere in questo stato anormale di padre dei fedeli, obbligato a mantenere sotto il giogo i popoli con delle baionette straniere, oppure ad accettare il principio di libertà, lealmente, largamente applicato nella nazione primogenita della razza latina, nel paese dove il Cattolicismo ha la sua sede naturale. A me pare, o signori, essere impossibile che questo ragionamento, questa proposta fatta con tutta sincerità, con tutta lealtà non venga favorevolmente accolta. Che queste nostre proposte siano sincere, non può esser messo in dubbio. Io non parlo delle persone; tuttavia io potrei ricordare a quelli fra i miei colleghi che facevano parte degli altri Parlamenti, io potrei ricordare che fin dall'anno 1850, pochi giorni dopo essere stato assunto a membro del Consiglio della Corona, io francamente proclamava questo principio, quando respingeva la proposta d'incamerare i beni del clero e di renderlo salariato e dipendente dallo Stato. Io ricorderò, a sostegno della sincerità delle nostre proposte, che esse sono conformi a tutto il nostro sistema. Noi crediamo che si debba introdurre il sistema della libertà in tutte le parti della società religiosa e civile; noi vogliamo la libertà economica, noi vogliamo la libertà amministrativa, noi vogliamo la piena ed assoluta libertà di coscienza; noi vogliamo tutte le libertà politiche compatibili col mantenimento dell'ordine pubblico; e quindi, come conseguenza necessaria di quest'ordine di cose, noi crediamo necessario all'armonia dell'edifizio che vogliamo innalzare che il principio di libertà sia applicato ai rapporti della Chiesa e dello Stato. (Bene!) Io spero che queste mie dichiarazioni avranno soddisfatto l'onorevole Boggio, e sono lieto di trovarmi ora particolarmente d'accordo con lui, come già lo era teoricamente, quando egli pubblicava un pregevole scritto sulle relazioni tra la Chiesa e lo Stato. Queste verità saranno accolte dalla pubblica opinione, e, senza poter prevedere il tempo che si richiederà, onde queste opinioni acquistino una potenza irresistibile, io penso non farmi illusione dichiarando che in un secolo, in cui anche nel mondo intellettuale si fa uso della locomotiva, queste idee non tarde- ranno ad essere generalmente accolte. Quando ciò accadrà, come già dissi, il concerto colla Francia sarà facile. Io spero che, realizzate queste due condizioni, convinti i cattolici, ottenuto il concerto colla Francia, vi sarà modo di intendersi col Santo Padre. Io non voglio prevedere il caso della impossibilità dell'accordo, ma io penso che, quando quest'impossibilità non provenisse da noi, non ci sarebbe imputata, ed anche in quell'ipotesi Roma potrebbe essere unita all'Italia, senza che ne seguissero fatali conseguenze per noi e per la Chiesa. Comunque poi sia, o signori, egli è evidente che, onde raggiungere questo scopo così importante e glorioso, è necessario che il Governo sia investito di tutta la maggior forza morale possibile. Egli è perciò che io mi permetterei di fare appello ai vari autori degli ordini del giorno deposti sul banco della Presidenza, ordini del giorno che, a quanto mi pare, non differiscono fra loro nella sostanza, e li pregherei di accettare tutti l'ordine del giorno proposto dal deputato Bon-Compagni, che in termini così precisi, così espliciti acclama Roma come capitale dell'Italia: e dichiara che, nello stesso tempo che Roma si riunisce all'Italia, si deve assicurare l'indipendenza, la dignità, il decoro del Pontefice, e che bisogna assicurare la piena, l'assoluta libertà della Chiesa, e riconosce nello stesso tempo la necessità del concerto colla Francia. Se dunque i vari ordini del giorno proposti dagli onorevoli preopinanti non si scostano da questo nella sostanza, non dividiamoci su questioni secondarie e massime su questioni di forma; riuniamoci tutti in un solo concetto, in un solo pensiero. Votate, signori, quest'ordine del giorno, per darci la forza di vincere le difficoltà che vi abbiamo indicate; votatelo unanimi, e con ciò ci sarà forse dato di conseguire in un non lontano avvenire uno dei più gran risultati che siansi mai verificati nella storia dell'umanità, di conseguire la riconciliazione del papato e dell'impero, dello spirito di libertà col sentimento religioso. Io confido, signori, nell'unanimità dei vostri voti. (Applausi)

Camera dei Deputati 27 Marzo 1861
divisore
Carica:
Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro degli affari esteri e della marina.
Nomi citati:
re, Ferrari, SocietĂ  Nazionale, Macchi, Greco, Bon-Compagni, Levi, Audinot, Chiaves, Pontefice, Santo Padre, Boggio.
Toponimi citati:
Europa, Italia, Parma, Lombardia, Modena, Milano, Toscana, Roma, Aquileia, Malta, Parigi, Francia.
Documenti correlati:
P2843#, P2858#.

Allegati